Il
treno corre lungo i binari.
Dal
finestrino campagna, in fondo al paesaggio il profilo dei monti, e il solito
alternarsi di capannoni- molti dei quali dismessi, fantasmatici-, case,
casette, stazioncine, e pornografie paesaggistiche varie.
Dal
sedile dietro, un architetto di una certa età, parla con la voce su un tono
enfatico, come chi è abituato ad essere ascoltato. Gli fa eco, con qualche
trattenuto affondo, la moglie, anch’essa con un tono di fiera, ma decaduta,
prosopopea di benestante signora di provincia. Con loro un tipo che li
asseconda e li ascolta col rispetto del sottoposto che rispetta il capo, e si
accontenta di quello che ha, e che è nel proprio immaginario di gestore di un
piccolo potere, felice di goderne. Si trattiene, e sorride ai discorsi vuoti
del vecchio che sa come vanno le cose, o almeno come andavano ai suoi tempi,
che sanno più di nostalgia che di attualità.
Il
vecchio ha la voce misurata, compiaciuta, e discute del restauro di un bagno
piccolo, a cui una cliente capricciosa vuole con doccia, pur avendo uno spazio
limitato. Lo dice come fosse l’evento più importante della provincia. Aggiunge
un aneddoto su un nido di tortore, o forse di un qualche altro uccello,
nell’albero del giardino di casa. Quando finisce il racconto c’è un momento di
silenzio, come ci andasse un oohh. La moglie corregge la sceneggiatura in
tempo, per non farne pesare l’assenza, nel silenzio che segue.
Una
signora soprappeso legge una rivista. La legge come se fosse importante farlo,
come se fosse necessario capire quel che è “in” e quel che è “out”, quest’anno.
Si indovina dai suoi lineamenti, una tendenza al comando, datole dalla sua
posizione di capoufficio, di un ufficio qualunque, tra i tenti uffici del
terziario avanzato dove tutti sono davanti al computer e rispondono al telefono
e si sparla dei colleghi assenti per malattia.
Un
gruppetto di avvocate che lavorano per piccoli clienti con pochi soldi, si
lamentano dell’aumento dei bolli, dei clienti insolventi, delle ore rubate alla
vita, per studiare documenti fino a tardi, che non frutteranno mai reddito.
Alcuni
dormono, o fingono di farlo, con le cuffiette. Altre rispondono alle chiamate
dei morosi, trasformandosi in trottolini amorosi e dududadada.
Dei
trentenni parlano del loro impiego da nuovi schiavi tuttofare informatici, con
titolari spericolati e stronzi, forse cocainomani, forse sull’orlo del
fallimento.
Una tipa chiama la suocera e le dà precise informazioni su quello che ha lasciato in
perfetto ordine, la busta coi soldi sopra il tavolo, la chiave sotto il
tappeto, i biscotti in credenza se ha voglia di farsi un tè. Quelli che portano
l’armadio nuovo dovrebbero arrivare tra le 9.50 e le 10. È già tutto
perfettamente organizzato, e comunque grazie.
Il
bigliettaio con l’orecchino discute ad alta voce con un africano che il
biglietto da 10 km non è sufficiente per tutta la tratta e lo prega di scendere
alla prossima stazione.
Un
signore sui settanta si alza dal suo posto, va verso le porte, e mentre il
treno raggiunge la massima velocità, tira il freno manuale.
Lo
stridore dei freni è insopportabile, acuto e graffiante. Chi è in piedi cade,
chi viaggia in senso di marcia finisce addosso a quelli seduti di fronte.
Scoppia il caos, qualcuno si fa male, un enorme valigia cade addosso all’architetto,
la moglie urla sottovoce, le avvocate mezze acciaccate sono sotto shock, la
grossa capoufficio maledice la rottura delle belle calze. Il bigliettaio con l’orecchino
è a terra, come l’africano semi-abusivo.
Il
settantenne un po’ ride, un po’ urla.
“così
imparate ad arrivare sempre in ritardo, bastardi”.
Cristiano
Prakash Dorigo
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