Ciao,
ti scrivo senza orizzonti, in questo momento, se non questa pagina bianca.
L’idea
che più mi piace è quella che con te, inizio ogni volta da zero; senza
preoccuparmi né di dove vado, né perché.
E
senza il bisogno di essere perfettamente logico o descrivente; mi sembra
piuttosto che entrambi stiamo aderendo ad uno standard poco ortodosso che
risponde solo al bisogno di comunicare. Comunicare a voce bassa piuttosto che
attraverso un urlo possente; scrivere parole comode piuttosto che acide; buttar
fuori quel che dentro presto andrebbe in scadenza, formando così grumi tossici.
Questa
è l’idea che mi sono fatto. E naturalmente potrebbe anche essere un’idea per
niente aderente alle tue, ma che mi sento comunque a mio agio a manifestare.
Domenica
sera ero a Belluno per una visita ad una coppia di amici che si sono trasferiti
dalla grigia città al colorato mondo montano. Passeggiavamo verso il tramonto
nella parte alta della città, da cui si gode ad ogni ora un panorama
straordinario.
Per
un momento mi sono staccato dalla loro compagnia per avvicinarmi ad un punto da
cui si poteva vedere meglio il tramonto.
Ero
ammutolito, completamente pervaso da quella magnificenza oltre ogni
immaginazione.
Tutto
ciò che quel momento chiedeva, voleva era niente.
Occhi
che san vedere.
Naso
che respira.
Orecchie
che ascoltano.
Bocca
che tace.
Ma
il silenzio era anche stavolta solo una breve parentesi.
Sono
stato di nuovo avvolto da pensieri e considerazioni, dal bisogno di definire il
momento.
Pensavo
a come un artista avrebbe potuto descrivere quell’attimo che era già andato.
Un
pittore, un fotografo, forse.
Ma
scrivere la bellezza, io no: come avrei potuto?
Come
avrei potuto condividere un solo istante che si dilata pur rimanendo fermo
immobile?
Comunicare,
dicevi tu.
E
mi sentivo già sfiorare dalla sensazione di essere capace di raccontare quel
solo singolo momento.
Mi
sono reso conto che non ci sarei riuscito e che questo non faceva poi così
male; succede di non esser capaci. Si aggiunge alla folta schiera delle
impossibilità, dei limiti che talvolta, nello sconforto, si sentono come
invalidanti.
Ma
nei momenti migliori, segnano solo un dato con cui si può anche fare dei
compromessi; una sorta di dichiarazione di non belligeranza, che diventa
convivenza, a volte perfino simpatica.
Quando
ho raggiunto gli amici ho creduto di essere un po’ meglio di come ero appena
prima.
Per
un tramonto, ho pensato.
Adesso
invece è un altro posto, sono a casa.
Computer
acceso per non mancare all’appuntamento, la promessa implicita e taciuta, con
il mio turno: la risposta, dovere accanto al piacere.
Sarebbe
problematico e contraddittorio ritornare a quell’attimo e al tentativo di
visualizzarlo a parole. Lo sarebbe perché vorrebbe dire scappare dal tempo di
adesso e tornare al passato.
L’impressione
che mi aveva dato quel tramonto era di eternità. Era eterno perché sospeso in
una dimensione senza tempo: in pratica ero riuscito ad entrare nel presente
contingente; non pensavo, per quel breve istante, né a prima né a dopo; sì, per
un istante non ho pensato.
E
l’ho perduto nel momento stesso in cui ci ho pensato: pensato di doverci
pensare.
Per
cui anche ora, che vorrei attaccarmici, perderei quel che sono adesso.
E
adesso sono in contatto con l’incertezza e la caducità fragile di me, vorrei
spaziare; a costo di perdere ancora l’occasione di svelare quella piccola parte
di verità che posso percepire tra la frenesia della fuga.
Perché
le parole che diciamo differiscono da quelle che scriviamo.
Qualsiasi
proposta, insegnamento, ideologia ci venga fatta, ci infarcisce di valori e
credenze che diventano poi maschere fuorvianti.
Ci
dobbiamo adattare a vivere nella finzione di dover essere costantemente
adeguati.
Adeguati:
pena la solitudine.
Ma
io nella solitudine mi ci cullo.
Propongo
il me che non ha vincoli, libero di essere come sono.
Per
cui non sono quasi mai come le parole che scrivo.
Sono
peggiore se costretto alla sopravvivenza.
In
difesa: in attacco, quindi.
Vorrei
concludere ora.
In
questa bella mattina di sole.
Vorrei
che continuassimo a scriverci perché farlo mi dà l’occasione del confronto.
Perché
è forse grazie a questo scambio epistolare che ho tentato di descrivere quel
che altrimenti avrei tralasciato; e avrei perso un’occasione.
E
perché mi piace.
E
non ho ragionevolmente dei buoni motivi per non fare quel che mi piace.
E
in questa mattina, prosieguo ideale di quel tramonto, lancio il post.
A
presto.
Cristiano
Prakash Dorigo
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