Ieri
ho finito l’ultimo di Bolano, “i dispiaceri del vero poliziotto”.
Mi
riesce difficile parlare di libri, soprattutto in termini formali, lucidi,
intelligenti. Quest’ultimo romanzo, quando lo inizi, sai già che non si
concluderà: è stato messo insieme attingendo dall’archivio personale dello
scrittore, morto giovane, lontano dal Sudamerica, ancor prima di diventare
quello che è adesso: un autore di culto, che vende un’infinità di libri, che è
diventato “obbligatorio” leggere, se si vuol stare in certi salotti.
Dopo
2666 sembrava impossibile ritrovare certe atmosfere, digressioni, profondità e
leggerezza insieme. E invece non lo è, impossibile. Si ritrova quello che si
era dolorosamente concluso senza finire- uno di quei libri che non si vorrebbe
finire, che lasciano una scia luttuosa perché sai che dopo ti devi aggrappare
alla fede per trovare qualcosa che gli si accosti senza stonare-, che ti ha
accompagnato per mano nelle zone più oscure, e in quelle più limpide, della
condizione esistenziale, che ha sfondato limiti, barriere, che ha lasciato un
segno, delicatamente.
Stanotte
ho sognato la poesia: non in termini classici, non rime, metriche, regole; no,
quella che scava nella carne, che apre gli occhi e fa vedere: che senza capire
come e perché, si fa sognare la notte, quando sei vulnerabile, quando non puoi
controllare, quando lasci che quel che dev’essere, sia.
Ecco,
lui mi fa questo effetto: aggira senza che me ne accorga il gusto estetico, la
logica, il rigore; mi fa andare dentro, un po’ alla volta, senza fretta, col
sorriso di chi ha fiducia nell’altro, e mi fa vedere lo sforzo umano, la
passione, l’inutile tentativo di capire l’infinità.
“…a
Managua, in cambio di uno stipendio miserabile, insegnò Hegel, Feuerbach, Marx,
Lenin, ma soprattutto tenne corsi su Platone, Aristotele, Boezio, Abelardo, e
capì una cosa che in fondo aveva sempre saputo: che il Tutto è impossibile, che
la conoscenza è un modo per classificare frammenti…”
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