Anonima
Ciao.
Confesso
che ero incerta se continuare, se lasciare che questa distrazione nata dalla
casualità, invadesse spazi che non le appartengono.
Non
dico che non le appartengono perché sono gelosa dei miei spazi, o che niente e
nessuno possa entrarvi; in parte è così, ma questo, così come succede a tutti,
è normale.
No,
stavo ragionando su un altro livello.
Più
profondo, incerto, macchiato di sporco e detriti che io stessa produco.
Mi
riferisco al livello della verità, quella poca estrinsecabile, almeno.
Sì,
perché questa strana dimensione di botta e risposta, o meglio, di scambio di
pensieri e considerazioni, sta sostituendo quello spazio di cui ho bisogno: sto
diventando più autentica e veritiera qui, che non nella mia vita reale.
Ed
è per questo che volevo mandare la mia ultima lettera di saluti e lasciare per
sempre questo gioco di specchi a quel che ha già prodotto, senza aggiungere
alcunché.
Ma
non so come andrà a finire e che piega prenderà questa lettera: sarà lei stessa
a decidere la sua stessa sorte.
Vedi
cosa intendevo?
Mi
sono messa qui, a disposizione di quella me stessa che si esprime attraverso le
parole scritte, e addirittura penso e scrivo che sarà lei a decidere in mia
vece: come fossi un’altra, che guarda sé stessa da lontano e lascia che sia.
Il
tutto senza timore di concedermi alla follia, intendiamoci.
Non
che sia scissa; sono semplicemente suddivisa in tante parti, ognuna delle quali
perfettamente autonoma ed esistente senza bisogno delle altre.
Se
vuoi è un po’ la metafora della maschera che siamo costrette a indossare a
seconda della parte che dobbiamo recitare: non parlo di me –ci tengo ad essere
anonima in tutto e per tutto- parlo delle donne in generale; mamme,
lavoratrici, educatrici, amanti, materne, dure, responsabili, fragili.
A
seconda di quel che serve, c’è sempre quella più adatta.
Anche
l’anonima scrivana, che scrive parole in libertà.
Questo
cruccio, questa dannata sensazione di essere più autentica quando m’esprimo da
anonima piuttosto che no, mi tormenta e apre nuove ferite; su vecchie
cicatrici, però, mi verrebbe d’aggiungere. La questione, infatti, non è l’agio
di esprimere, qui, una qualche verità; o meglio, non una verità ma un modo di
interpretare la realtà, di viverla e subirla, di sublimarla e contenerla.
No,
il problema non è qui.
Il
problema è quando non sono qui e sono altrove.
Lo
so che sono in bilico tra il banale e il riciclato: ma questo esprimere il mio vissuto
non è per fare un discorso.
No,
è vivo e brucia e accartoccia ogni tentativo di raccontarmela.
Non
riesco più a mentire a me, a far finta che, a roteare pollice con pollice, in
un verso e nell’altro, mentre esibisco una delle mie “me”, intercambiabili e
caricaturali, mentre recito la mia vita.
Non
so se riesco a essere chiara.
Sono
rinchiusa nella perpetua metamorfosi, nel rutilante affanno di essere qualcuna
che sia giusta, al momento giusto.
Di
avere un’espressione.
Di
pronunciare una parola.
Di
indossare una postura.
Di
fingere di non fingere.
Parole
buttate fuori per non tenerle più dentro.
Questo
sono e devo.
Parole
che decodificano pensieri che portano messaggi; poi vanno, così come sono
venute.
E
testimoniarle diventa un dovere che lascia scie, ma che mi disereda dalla loro
proprietà.
Mi
sto annodando per lo sforzo di dire, e lasciare che quel che dico nell’aria, è
l’unica possibilità di ristoro.
Perché
sono piena e ho bisogno di vuoto.
Non
so come concludere. E alla conclusione ci tengo; così come per l’inizio, che
induce alla lettura, il finale lascia un sapore.
E mi piacerebbe essere saporita, e
ricordata, e pensata, e attesa, ed essere qualcuna, il cui nome è anonima.
anonima
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