Eccomi,
sono io.
Immagina
un salotto con due divani, un tavolo, stereo, libreria ben fornita.
Tende
e copri divani suggeriscono una predilezione per lo stile orientale, così come
gli oggetti che stazionano qua e là, morbidamente, senza invadere; azzardano il
pensiero di un’esistenza diversa, possibile seppur lontana.
Sono
seduta con un libro in mano, la voce della tivù accesa galleggia.
In
questa ubiquità ho quasi il sollievo di non pensare; mi par di stare in
equilibrio tra le due forze: quella auto diretta del libro da una parte; quella
etero diretta della tivù dall’altra. E io sospesa come su di una fune, sicura
pur nell’ oscillante precarietà.
Arriva
una voce, all’improvviso.
È
familiare e calma, anche se un po’ gracchiante, come quelle al telefono: “ a
cosa pensi ?”
E’
come se un frammento di realtà entrasse, deflorando uno strato invisibile.
Il
fatto che sia qui e altrove esige una spiegazione.
Devo
avere un’espressione indicativa; da cui si deduce qualcos’altro.
In
questo momento penso questo cui sopra.
Vorrei
provare a rispondere così come faccio ora: attraverso la parola scritta su di
una pagina bianca, con caratteri
neri.
“
Voce”, mi sembra di dire pur pensandolo soltanto, “ puoi cercare la risposta
leggendola su questo schermo che ora in meno di tre secondi apparirà. La mia
voce riposa con me in questo equilibrio di cui parlavo qualche riga fa”.
Pur
non essendo certo pienamente sana, qualche rappresentazione impossibile della
realtà, me la concedo.
Se
non ho voglia di parlare, queste bizzarrie arrivano. E’ come se aiutassi me
stessa a trovare strategie per esserci, anche quando mi consento brevi fughe.
Non
so se sono brevi scappatoie per non essere qui, o se sono solo la risposta al
bisogno di partire.
Come
se, non essere qui, fosse avere più possibilità.
Come
se partire fosse ossigeno.
Tutto
questo giro di walzer per dire che non mi preoccupo di avere dei pensieri
matti. Voglio dire: ci sono! Cosa dovrei fare, far finta che non esistano?
E
sono convinta che servono per
salvarmi dalla nauseante rigorosità della logica.
L’ossessione
del pensiero corretto.
Non
ci fossero, i pensieri matti, sarebbe come non sbagliare mai.
E
il dolce sapore di quando si fa la cosa giusta?
Che
gusto, che forma avrebbe se non si sbagliasse mai?
La
leggerezza di stare nel giusto: quello rivelato dall’istinto, non quello
istituzionale.
Il
salotto, l’equilibrio e la voce, scompaiono al risveglio.
Non
so se ho sognato o pensato.
Non
so se era una rappresentazione sognante della realtà o di quello che il reale
non è.
Non
so nemmeno se non l’abbia inventata adesso per avere un pretesto per scrivere.
Per
comunicare.
Con
lo pseudonimo che ricorda il mistero di chi non è, se non perché si sa che
dietro a quell’anonima, c’è una che ha una vita.
Non
so se ci si può accontentare di avere un dialogo con un’ombra.
Ma
in rete leggo molti pseudonimi, o nick, come si dice.
E
se anch’io devo stare alle regole del gioco, lo faccio attraverso la
naturalità: mi si conosce per anonima, e anonima sia.
Sono
costernata da come mi sia imbarcata su discorsi che iniziano a non essere più
un’esigenza comunicativa, ma una volontà di permanenza.
Forse
vorrei essere anch’io là.
Vorrei
anch’io godere della compagnia leggera di voci senza suono che seguono la mia
vita.
Quello
che decido di raccontare della mia vita: la mia vita intrapsichica.
Che
anche questa è fatta di carne e sangue, nervi che frustano e rimbalzano con l’agilità
di chi non ha padroni cui giustificare la non linearità dei propri movimenti.
Qui
sono l’anonima.
Nella
mia vita vera sono nota e nominabile.
Quando
sono anonima o entro nelle storie degli altri riesco a liberarmi dal peso
dell’identità e vivo il trasporto che questo mi consente. È come immaginare di
potere tutto, qualsiasi cosa; perché tanto non c’è nulla da difendere, niente
che impedisca la libera scelta, anche quella illogica.
Quando
sono me, nella vita reale, il sogno, o meglio, la possibilità, si riducono a
seconda dei vincoli. Insomma, talvolta mi par d’essere la prima vittima della mia
stessa prigione.
E
ho invece, davvero, bisogno di lasciar andare, senza paura di ritorsioni, tutto
il peso che m’opprime.
Mi
sono adeguata al tuo stile e ho sparato parole a raffica senza un filo
conduttore. L’ho fatto forse perché, come dicevo poc’anzi, mi sento oppressa
dai doveri, non scritti ma impliciti. E avevo invece voglia di essere libera.
Proprio
per questo ti chiedo di leggerla prima di pubblicarla, non vorrei sembrasse un
uso improprio della follia.
Di
fatto però, scriverla tutta d’un fiato, mi ha svuotata; e non ci speravo
davvero.
Infatti,
fossi ancora in quel salotto, adesso, risponderei così:
“
A cosa penso? Vieni, siediti qui vicino che ne parliamo”
Anonima
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