giovedì 3 maggio 2012

anonima domestica follia




Eccomi, sono io.
Immagina un salotto con due divani, un tavolo, stereo, libreria ben fornita.
Tende e copri divani suggeriscono una predilezione per lo stile orientale, così come gli oggetti che stazionano qua e là, morbidamente, senza invadere; azzardano il pensiero di un’esistenza diversa, possibile seppur lontana.
Sono seduta con un libro in mano, la voce della tivù accesa galleggia.
In questa ubiquità ho quasi il sollievo di non pensare; mi par di stare in equilibrio tra le due forze: quella auto diretta del libro da una parte; quella etero diretta della tivù dall’altra. E io sospesa come su di una fune, sicura pur nell’ oscillante precarietà.
Arriva una voce, all’improvviso.
È familiare e calma, anche se un po’ gracchiante, come quelle al telefono: “ a cosa pensi ?”

E’ come se un frammento di realtà entrasse, deflorando uno strato invisibile.
Il fatto che sia qui e altrove esige una spiegazione.
Devo avere un’espressione indicativa; da cui si deduce qualcos’altro.
In questo momento penso questo cui sopra.
Vorrei provare a rispondere così come faccio ora: attraverso la parola scritta su di una pagina bianca, con  caratteri neri.
“ Voce”, mi sembra di dire pur pensandolo soltanto, “ puoi cercare la risposta leggendola su questo schermo che ora in meno di tre secondi apparirà. La mia voce riposa con me in questo equilibrio di cui parlavo qualche riga fa”.

Pur non essendo certo pienamente sana, qualche rappresentazione impossibile della realtà, me la concedo.
Se non ho voglia di parlare, queste bizzarrie arrivano. E’ come se aiutassi me stessa a trovare strategie per esserci, anche quando mi consento brevi fughe.
Non so se sono brevi scappatoie per non essere qui, o se sono solo la risposta al bisogno di partire.
Come se, non essere qui, fosse avere più possibilità.
Come se partire fosse ossigeno.
Tutto questo giro di walzer per dire che non mi preoccupo di avere dei pensieri matti. Voglio dire: ci sono! Cosa dovrei fare, far finta che non esistano?
E sono convinta che  servono per salvarmi dalla nauseante rigorosità della logica.
L’ossessione del pensiero corretto.
Non ci fossero, i pensieri matti, sarebbe come non sbagliare mai.
E il dolce sapore di quando si fa la cosa giusta?
Che gusto, che forma avrebbe se non si sbagliasse mai?
La leggerezza di stare nel giusto: quello rivelato dall’istinto, non quello istituzionale.

Il salotto, l’equilibrio e la voce, scompaiono al risveglio.
Non so se ho sognato o pensato.
Non so se era una rappresentazione sognante della realtà o di quello che il reale non è.
Non so nemmeno se non l’abbia inventata adesso per avere un pretesto per scrivere.
Per comunicare.
Con lo pseudonimo che ricorda il mistero di chi non è, se non perché si sa che dietro a quell’anonima, c’è una che ha una vita.
Non so se ci si può accontentare di avere un dialogo con un’ombra.
Ma in rete leggo molti pseudonimi, o nick, come si dice.
E se anch’io devo stare alle regole del gioco, lo faccio attraverso la naturalità: mi si conosce per anonima, e anonima sia.

Sono costernata da come mi sia imbarcata su discorsi che iniziano a non essere più un’esigenza comunicativa, ma una volontà di permanenza.
Forse vorrei essere anch’io là.
Vorrei anch’io godere della compagnia leggera di voci senza suono che seguono la mia vita.
Quello che decido di raccontare della mia vita: la mia vita intrapsichica.
Che anche questa è fatta di carne e sangue, nervi che frustano e rimbalzano con l’agilità di chi non ha padroni cui giustificare la non linearità dei propri movimenti.

Qui sono l’anonima.
Nella mia vita vera sono nota e nominabile.
Quando sono anonima o entro nelle storie degli altri riesco a liberarmi dal peso dell’identità e vivo il trasporto che questo mi consente. È come immaginare di potere tutto, qualsiasi cosa; perché tanto non c’è nulla da difendere, niente che impedisca la libera scelta, anche quella illogica.
Quando sono me, nella vita reale, il sogno, o meglio, la possibilità, si riducono a seconda dei vincoli. Insomma, talvolta mi par d’essere la prima vittima della mia stessa prigione.
E ho invece, davvero, bisogno di lasciar andare, senza paura di ritorsioni, tutto il peso che  m’opprime.

Mi sono adeguata al tuo stile e ho sparato parole a raffica senza un filo conduttore. L’ho fatto forse perché, come dicevo poc’anzi, mi sento oppressa dai doveri, non scritti ma impliciti. E avevo invece voglia di essere libera.
Proprio per questo ti chiedo di leggerla prima di pubblicarla, non vorrei sembrasse un uso improprio della follia.
Di fatto però, scriverla tutta d’un fiato, mi ha svuotata; e non ci speravo davvero.
Infatti, fossi ancora in quel salotto, adesso, risponderei così:
“ A cosa penso? Vieni, siediti qui vicino che ne parliamo”

Anonima 

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