sabato 3 marzo 2012


Freddo zero gradi


Il freddo zero gradi invade ogni spazio, ingravidandolo. Uscendo da casa è lì che aspetta. Sembra quasi avere una personalità e un carattere caldo, per controbilanciare le emanazioni gelide.
I miei occhi lacrimano col freddo. Il viso pallido e le mani violacee sbucano dalla sciarpa e dal cappotto marrone spinato taglio sartoriale comprato al discount.
In mano le chiavi dell’auto faticano a centrare la serratura, ubriache di movenze geometriche, rigide d’inverno.
Non porto il cappello perché altrimenti mi rovinerebbe i ricci messi a tacere dal gel. Sì, perché sono ribelli e dispettosi; e allora, giusto per insegnar loro la disciplina, li incollo con quella gelatina trasparente e appiccicosa: “ e qui comando io, e questa è casa mia!”. La mia casa, il corpo, sopra cui loro sono ospitati: che non rompessero troppo le palle!.
Per alcuni anni li ho portati lunghi; anzi luunghissssimi. M’arrivavano fino a quasi i polpacci, da bagnati; da asciutti, meno: massimo fino al coccige; molle retrattili che si tirano e ritirano, boccoli di spago nero sottile arrotolato su di sé.
Una volta, l’altra volta che li avevo tenuti lunghi- da diciottenne ribelle con l’urlo sulla pelle, l’ormone scatenato, il pugno alzato, il cannolo arrotolato pendente dalle labbra, le endovenose in agguato nelle piazze, il canto no future nelle orecchie, le birre per ruttare sul mondo bastardo- avevo dei boccoloni che mi si adagiavano sulle spalle per poi cadere giù in picchiata lungo schiena o petto; avevo provato ad aprire quel grumo simile ad un frustino sadomaso; ebbene, all’interno, un fitto strato colloso con animali e insetti di ogni genere: sembrava un ambiente boschivo, un documentario sui piccoli animali terrestri.
E proprio oggi, in questo zero, punto d’equilibrio tra il più e il meno, ho svuotato lo zaino e mi son messo tutte le mie cose dentro una borsa di cuoio che usavo proprio in quegli anni. Non so perché, e del resto sono più le cose che non so, di quelle che conosco.
Al suo interno, tante firme. Soprattutto di ragazze, amiche e fidanzate dell’epoca.
Uno sforzo per ricordare.
Ricordo quasi tutte e tutti; l’aspetto, l’eloquio, il ruolo all’interno del gruppo. Erano tempi capelloni, e si parlava però, spesso, di cosa fare, dove andare, questo e quella, eredi di idee uccise dal telecomando. Il lusso di chi ha così tanto tempo da esserne annoiato, di chi ha voglie illecite, di chi scapperebbe alla scoperta del mondo, se solo il mondo fosse come non è.
Ricordo una di loro; i suoi baci caldi, lenti, senza fretta perché dove si dovrebbe andare visto che stiam facendo la miglior cosa possibile in questa vita?
E una saggezza che nemmeno mi sfiorava; sta lontano da quella roba, quella gente; vieni qui tra le mie braccia, dentro la mia bocca. E poi stringimi, che ci nascondiamo, che se ci trovano, troveranno due persone in una: forti ben più del doppio di ognuno di noi, e voi.
E ricordo di averla perduta perché non sapevo ascoltare altro che la mia età.
E c’era anche un ragazzo là in mezzo che se n’è andato, da solo, dentro un’auto, in un posto isolato. L’han trovato con una siringa impiantata sul braccio sinistro, dopo una telefonata anonima: c’era qualcuno con lui, ma niente nomi; solo rimpianto e rammarico e un segreto che gli peserà per sempre.
E poi ce n’è un’altra che stava assieme ad un altro che si faceva anch’egli. E girava con un’insulina in borsa, pronta ad immolarsi per lui; disposta a capire quei perché ch’egli non sapeva tradurre in parole.
E poi gli altri, che erano meno dentro la borsa, solo comparse, poi scomparse.
E in questa mattina zero gradi centigradi, con queste chiavi in mano che faticano ad entrare nella serratura intasata di freddo, circondato da questo profumo che non sa ancora, soltanto, della puzza di città, apro la portiera ed entro.
M’appoggio allo schienale dopo aver appoggiato la borsa.
La guardo, aspettando che si esprima.
Voci sottovoce invadono l’abitacolo. Escono da figure che scaturiscono da firme. Mi guardano. Io le guardo. Ci sorridiamo con facce d’epoca, chissefrega dei vent’anni e più che son passati.
E come va?
Va bene; va meglio soprattutto da quando mi faccio le domande giuste e non agisco solo risposte rabbiose.
Sì, ci sono ancora i colori nelle fantasie, e ci sono tante più verità e meno bugie.
E tutto è più delicato e facile. E la paura è sparita.
E questa mia faccia – e mentre lo dico chiedo conferma allo specchietto retrovisore- è ancora giovane e tutto sommato bella.
Poi allungo una mano e accarezzo quei volti che sorridono al tocco.
E guardo lei. Avevi ragione, già da allora, ma dovevo toccare con queste mie mani e sporcarle, dovevo stare vicino a chi era già definitivamente lontano.
E poi guardo lui; non dico niente. Qualsiasi parola sarebbe troppo e troppo poco. E sorrido.
E tutti gli altri, vestiti sgraziati come allora, li saluto con la mano.
In macchina il riscaldamento sta facendo energicamente il suo dovere.
Controllo l’ora.
Li guardo con lo sguardo gentile e chiedo loro di tornarsene in borsa.
È tardi e devo andare.
Anche se non è mai troppo tardi.
Anche se ci hanno sempre insegnato il contrario.
Non è mai troppo tardi.
Fuori è zero gradi.
Dentro si sta bene.

Cristiano prakash dorigo

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