venerdì 2 marzo 2012

Dalla, le stelle e Colonia



Ieri sera mentre passeggiavo con cagnona e guardavo il bellissimo cielo pieno di stelle, sentivo che la parte di me fuori dal controllo delle mie sentinelle, pensava a Dalla, e la parte razionale giudicava quei pensieri retorici, scontati, piagnoni.
Pensavo esattamente, con la vaghezza di chi non tiene sotto controllo, che chi ha scritto canzoni come le sue, doveva per forza essere uno che vede e sente quel che guarda.
Chiunque abbia a che fare con una qualsiasi forma espressiva artistica, sa che ci sono dei rari momenti buoni, che si devono cogliere, abbracciare, tradurre. Così come succede con la vita di tutti i giorni, dove le abitudini, la noia, l'obbligo, la formalità, convivono con momenti di straripante felicità, con gli insight, con parentesi decisive all'ispirazione.
Ebbene, lo spettacolo di un cielo notturno strapieno di stelle, può essere uno di quei momenti. Lo possono essere anche molti altri, non necessariamente belli o classicamente evocativi: l'importante è avere uno sguardo, un posto dove mettere quel che vede, la fortuna di avere il talento di trasformarlo in qualcosa che può essere comunicato.
Il ricordo più forte legato a Dalla, riguarda il periodo in cui vivevo in Germania, a Colonia, dove ho lavorato un breve periodo in una gelateria. Eravamo io e una coppia stramba, nella loro auto coattissima: lei era una ragazza di Milano, minuta, nervosa, tutta a scatti, capace di voler bene all'infinito, se ti aveva scelto; il moroso era della provincia di Treviso, alto, dinoccolato, incapace di esprimere a parole l'oceano di sentimenti che lo abitava. La sera, ogni tanto, quando non eravamo stroncati dalle ore di lavoro, andavamo in centro città e ascoltavamo, dall'impianto ipertrofico dell'auto, “Washington”, in versione live, e lo cantavamo fino a bruciarci le corde vocali, ubriachi di nostalgia, felicità, tristezza, gioventù.
Ha scritto una quantità incredibile di bellissime canzoni, ma questa mi strappa il cuore più di tutte.

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