lunedì 12 maggio 2014

martedì 1 aprile 2014

Vergogna, J M Coetzee




Posso scrivere di scrittura e lettura senza elencare le solite robe italiane?
Sì lo sappiamo tutti: ci sono più scrittori che lettori, non si vende, si compra poco, ci si legge solo tra quelli che scrivono.
Bon.
Preciso che scrivo, che sono letto da pochi, i quali, perlopiù, apprezzano.

Per quanto concerne la scrittura, bisognerebbe probabilmente riconoscere i propri meriti, i limiti, i confini entro cui si è costretti, quelli che si riescono a squarciare e oltrepassare.
Sarebbe opportuno scrivere - ma in generale essere, agire - col maggior impegno possibile, e cercare di ottenere il meglio che si può; sia che sia tanto, sia che sia poco.

E soprattutto bisognerebbe leggere.
Ho da poco finito di leggere un romanzo che consiglio a chiunque: Vergogna, di J M Coetzee, Einaudi.
Non è facile scriverne in quanto affronta diversi argomenti, e lo fa in modo profondo, analitico, autentico.
Ci conduce nell'intimità di un uomo che insegna in un'università di Città del Capo, il quale, a causa di una relazione con una studentessa, perde il lavoro e si addentra in quella che dal punto di vista sociale, viene definita vergogna.
La pulsione sessuale, la genitorialità, le convenzioni sociali e razziali, il rapporto primordiale con la natura e gli animali, la morte, la conflittualità.

Il libro è potente, curato nella trama e nella scrittura.
Fa male, ma come tutta la buona scrittura, non può che far bene, guarire, squarciare, ricucire, costruire intimità, definire con parole esatte ciò che ogni persona percepisce, senza magari riuscire a dargli un nome.

Leggere un buon libro può essere salvifico.
Lo può essere anche in funzione del senso critico: scrivere di meno, leggere di più.



mercoledì 19 marzo 2014

il futuro è vecchio

Il futuro è vecchio

Spettabile Presidente,
mi presento: sono Cristiano Dorigo, un vecchio.
Non sono abituato a scrivere, non più almeno.
L’altro giorno però, è successo qualcosa, che adesso le racconto- una roba da niente per carità, ma forse aiuta a capire quanto sia noia piatta la mia vita-, che mi ha fatto sentire il bisogno, o meglio, la voglia, di scriverle.
Dopo averlo fatto con grande foga, mi sono reso conto che non è vero che non ho niente da dire; ma che mi sono piuttosto abituato a far tacere le voci che mi riempiono la testa, a considerarle come una delle tante, troppe manie da vecchi.
Così come sono abituato a pensarmi solo in funzione del tempo che mi manca a morire.
Le scrivo perché so che può capirmi: siamo quasi coetanei- in realtà ho qualche anno più di lei-, anche se abbiamo vite molto differenti.
Ma arrivo al dunque, alle ragioni di questa mia.
Le rivolgo questi miei pensieri che le pregherei di inoltrare, nella parte che non la riguarda in forma personale, anche ai suoi giovani collaboratori di cui le dirò qui di seguito.
Troverà forse questa mia discontinua, esagerata, disordinata. Tenga conto però dell’età e della poca abitudine, come le dicevo poc’anzi, a scrivere.
L’altro giorno stavo preparandomi ad uscire.
Alla mattina, ogni giorno, esco a fare la spesa.
Ne faccio tutti i giorni un pò, per essere costretto ad andar fuori.
Se no starei spesso, un po’ troppo spesso, chiuso in casa, e non fa bene alla salute.
Ero quasi pronto, quando squilla il telefono.
A casa mia il telefono non squilla quasi mai. Davvero poche volte, e di solito lo so sempre con un certo anticipo.
Vivo senza sorprese. Che è come dire che la mia vita sa di brodino riscaldato.
Dico “pronto?”, e una voce di ragazza mi risponde pronunciando un nome che non conosco.
- “Buongiorno signor Dorigo, mi presento sono Giorgia, una statistica della “Question Mark” e mi occupo di indagini di mercato”.
- “Buongiorno a lei, Giorgia, che bella voce squillante, che tono amichevole; temo però che lei abbia sbagliato interlocutore: se si occupa di indagini di mercato, sta indagando una persona che non ne fa più parte ”.
- “Grazie dei complimenti signor Dorigo, ma non si preoccupi, non ho sbagliato: cercavo proprio Lei.
Volevo chiederLe se è disposto a sottoporsi ad un questionario: La devo però avvisare che se accetta, sarà a titolo gratuito, e comunque, Le posso assicurare l’anonimato”.
- “Gentile signorina mi ci lasci pensare. Non vorrei prendere una decisione così su due piedi; e la lentezza è un lusso, forse l’unico, che la vecchiaia ancora concede”.
- “D’accordo, come vuole: Le lascio il mio numero e indirizzo e La pregherei, una volta maturata la decisione, di farmela sapere”.
- “Grazie”.
- “Grazie a Lei e scusi il contrattempo”.
- “Si immagini. Di nuovo”.
Insomma, mi informo e vengo a sapere attraverso mio figlio che questa è una delle sue tante aziende.
Un presidente con molte aziende, e questo lo sapevo: ma non avrei mai immaginato che tra queste ce ne fosse anche una che si occupa di sondaggi. Anche se, quando l’ho detto a mio figlio, mi ha guardato, ha sorriso, e mi ha detto che sono un ingenuo.
In pratica questa gentilissima ragazza mi avrebbe chiesto di compilare un questionario. Questo mi ha chiesto gentilmente di fare.
Si, è stata gentile: cortese quanto basta per trattare con dei clienti, e il suo mestiere è la ricerca di mercato.
Capisce? Insomma, le mie vocine malevole continuano a dirmi che questo, di fatto, esclude la mia persona: si studia un caso, che sono io, ma potrebbe essere chiunque.
Le confesso che fatico a tollerare che mi si rivolgano domande le quali, in poche righe, dovrebbero riassumere la mia vita, le mie idee, i miei gusti, per arrivare a costruire il profilo di un consumatore.
Allora ho deciso: la mia vita, per tappe e in breve, gliela racconto con una lettera; così posso spiegare meglio il senso di quelle risposte così asettiche e vuote.
Se vorrà lei, e poi i suoi dipendenti, la leggerete; se non ne ha voglia la cestinerà.
Ma non mi va per niente di prestarmi a giochi che consentirebbero alla sua azienda di fare della mia persona un dato statistico, uno zero virgola qualcosa, un niente di categoria senile.
Spettabile presidente, quello che probabilmente non sa ancora, è chi ci sta dietro, anzi dentro, a questo nome e ai dati che mi hanno chiesto.
Sto pensando ai lavoratori della sua azienda e immagino quanto sia difficile per loro, pensare alla storia delle persone. Credo non sia nemmeno importante per il lavoro che devono fare, per i dati che devono incrociare ed elaborare.
Questi non tengono conto della persona nella sua interezza, nel suo essere carne, pensieri, nervi, contraddizioni.
Dico così perché mi sono fatta l’idea che loro siano ancora nella fase in cui hanno molto tempo da vivere. In quella fase, per capirci, in cui si pensa al futuro anziché rimpiangere il passato.
Insomma, pensare che un utente, un dato, è anche una forma complessa, viva, distrae e amareggia; tocca aspetti personali, intimi.
Ma io sono vecchio e sento il dovere di dir loro che il capire è probabilmente più importante del sapere.
Alla mia età ci si arriva stanchi, fisicamente provati, moralmente umiliati.
Adesso non è più così, ma quando ero bambino, il vecchio era importante: era colui al quale tutto doveva essere chiesto, alla cui attenzione tutto doveva essere sottoposto. Era simile a quello che si vede nei film dove il vecchio saggio dice la sua .
Non era tirannide, ma riconoscenza; consapevolezza che aver vissuto, voleva dire aver maturato esperienze.
Questo, si sa, non corrisponde sempre al vero.
La vita non è una somma algebrica, e dipende da come uno l’ha vissuta: conosco vecchi che sono ancora bambini, vecchi diventati saggi, vecchi stronzi e vecchi-simpatici, vecchi vecchi, vecchi-presidenti, ecc.
Tutti, anche da vecchi, mantengono le caratteristiche che hanno sempre avuto e molti, quasi tutti a dire il vero, per rabbia e disperazione le esasperano trasformandole in ossessioni.
E qui, mi consenta di aggiungere un’appendice: quanto appena scritto è da considerarsi veritiero in generale; non vorrei mai urtare la sua suscettibilità, e so bene che lei non ne vuol nemmeno sentire parlare. Lei non è come gli altri: lei è il presidente e la vecchiaia è un dato anagrafico che lei considera valido solo per gli altri: lei si sente esemplare unico, e probabilmente lo è. Non so poi se questa sia una fortuna per lei o, al contrario, per noi. La storia ci insegna che siamo in grado di accogliere- o sopportare, a seconda dei punti di vista- un esemplare unico per volta.
Riprendo, se no perdo il filo del discorso.
Come posso continuare?
Non so cosa raccontare, come spiegare.
Sono solo qui, in soggiorno, seduto sopra questa sedia impagliata, carta e penna in mano, a scrivere al presidente e ai suoi dipendenti, in preda a molti dubbi: ad esempio che questa mia verrà mai letta; e se così sarà, che sia gradita, capita o mal interpretata.
Sotto il foglio, una cartellina per non rischiare di rovinare il tavolo in legno massiccio, più vecchio di me.
Nella premessa, nascosta tra le righe, la verità: la voglia di sentire che la vita, con le sue curve e le sue parabole – io abito, come sa, come anche lei del resto, quella discendente, quasi al suo termine- abbia un senso che però non riesco più a trovare, disintegrato com’è da una devastante, noiosa quotidianità, che ha seppellito ragioni e voglie.
Ma passo al dunque.
La prima cosa che mi viene in mente è che da qualche anno sono vedovo. Che sono padre e nonno e suocero.
Ho sempre lavorato, tutto sommato felice di farlo anche se, a dire il vero, ho conosciuto il lavoro quando era più un dovere legato alla sopravvivenza che un diritto; era stato nominato nel primo articolo costituzionale, ma sarebbero passati anni perché diventasse com’è adesso. Ricorda? Si iniziava da ragazzi per aiutare la famiglia, per non essere un peso. A dirla così sembra uguale a ora, e forse in parte, almeno per quanto concerne la stabilità che non c’è, le condizioni si assomigliano.
Si lavorava per anni senza essere assunti, senza contributi, contando solo sulla propria giovinezza, sulla salute, l’esuberanza, la forza.
Io fui uno dei pochi fortunati che sono riusciti a studiare il poco che bastava a garantirmi un posto da impiegato.
Ma molti amici, conoscenti, compagni di cortile, finivano, appena raggiunta la pubertà, in mano a padroni – eh sì, si chiamavano così – che si arricchivano col consenso e la gratitudine delle famiglie, e che così sfruttavano la situazione.
Lo so che anche adesso è di nuovo così.
Chiederò spesso le sue scuse, presidente, per le parole che forse non le saranno gradite, ma una lettera che sgorga spontanea non può tirare il freno ogniqualvolta dice parole che non corrispondono al gusto dell’interlocutore.
Lo so che sto raccontando qualcosa che in questi ultimi anni è stato sancito per legge e che si usano le parole per confondere i fatti. Ora si chiama “flessibilità” quello che un tempo era considerato sfruttamento; che la “precarietà” è uno strumento usato per tenere sotto scacco, sotto controllo, tutti quelli che sfortunatamente la vivono.
Immagino- e qui penso ai giovani che lavorano per la sua azienda - siano rimasti in casa coi genitori fino alla conclusione degli studi. Conclusi i quali si sono trovati a lavorare con contratti a scadenza, con l’idea che la pensione sia un’utopia che fa parte della storia e non più della vita.
Fatico un bel po’ a spiegarmi, a rendere efficace il paragone.
Da quel che capisco, loro adesso vivono comunque con un grado di agiatezza che era impensabile allora.
Ora il superfluo è diventato bisogno primario.
Insomma, non voglio fare il moralista, il vecchio saggio. Sto solo cercando di dire che anch’io ho avuto una vita, ho superato molte difficoltà, ho vissuto.
Lo sto dicendo perché mi fa male si pensi a me come ad un fragile sopravvissuto alla vita pieno di rughe.
Dovrei forse essere fiero di me, orgoglioso, sentirmi in pace.
E invece mi tocca ammettere di essere un anziano che ha lentamente e inesorabilmente diminuito la capacità fisica di salire le scale, di camminare sotto il sole, di mangiare e bere quando ne ha voglia: questo mi suggeriscono corpo e cuore.
Col passare degli anni sono passato dal convivere con la solitudine, essenziale e inevitabile, allo stato miserabile e deprivante dell’isolamento sociale e umano.
La differenza di questi due termini, che sembrano sinonimi, consiste nella sostanza: la solitudine la si scopre, ci si fatica, ma la si accetta; l’isolamento invece lo si subisce.
Prima potevo decidere con calma cosa fare e quando farlo; ora devo subire le voglie e le possibilità degli altri di venirmi a trovare; devo stare con le altre persone indipendentemente dal fatto che io ne abbia voglia in quel momento.
A questo punto, con queste ultime parole, so di aver toccato un suo nervo scoperto, presidente.
So che a dispetto dei sorrisi, della folla che sempre la circonda, mi capisce benissimo.
Non ho mai invidiato le persone di potere, quelle molto in vista, sempre impegnati in qualche cerimonia ufficiale.
Non riesco a concepire, a pensare una vita che contiene in sé il potere di fare ciò che si vuole, dalle cui decisioni dipendono i destini di un popolo, ma che in realtà non ha sfera privata, che è continua esibizione, che non può avere momenti di vera intimità per questioni di sicurezza. Lei ha avuto tutto e ha passato la sua vita a proteggere quel tutto, a diffidare di chiunque in quanto, chiunque, poteva essere un suo potenziale rivale. E qui, glielo confesso, spero di sbagliare. Le auguro che così non sia, che sia una mia proiezione.
Quel che è certo, è che provo compassione nei confronti di chi, come lei, ha vissuto fingendo; e me lo lasci dire: a tal punto da credere che quella finzione, quell’apparenza, fosse la realtà.
Da parte mia invece, ho scoperto la tirannia delle abitudini. Aumentano proporzionalmente con l’aumentare dell’età.
E’ quasi ridicolo immettere in un racconto che vorrebbe essere di vita particolari così minimali, ma sento di aver bisogno di raccontare il mio presente, di non cadere nella trappola dolce e accogliente del tempo perduto: di quando ero felice e non lo sapevo, di quando stavo bene, di quando ero giovane.
E se lo faccio, è per testimoniare i passaggi, la forma e la sostanza di questo mucchietto di ossa che sono ora.
Anche perché non è vero che ero felice e non lo sapevo: onestamente, sono stato sì giovane e in buona salute, ma la felicità non ho mai saputo che bisognasse cercarla.
E a proposito di abitudini, gliene racconto qualcuna di recente.
Ogni settimana vado al cimitero e parlo con la lapide di marmo che contiene la foto e i resti di mia moglie.
All’inizio andavo perché sentivo che dovevo farlo: sentivo l’ombra del giudizio, un vociare malevolo che diceva di me che ero ingrato e cattivo, se non l’avessi fatto.
Insomma, lo facevo per gli altri, perché non avevo la forza di superare l’ostacolo appiccicoso del giudizio.
Anche perché, lo confesso, benché non lo si dica mai, dopo quarant’anni di matrimonio, dire che fossi ancora innamorato di lei sarebbe ridicolo e ipocrita.
Ci siamo amati, abbiamo vissuto tutto sommato bene, facendoci compagnia, condividendo tanto. Eravamo ormai sincronizzati, abituati l’uno all’altra.
Il rapporto di coppia è un’invenzione funzionale al mantenimento della specie, si sa.
So per certo che io ho avuto le mie distrazioni; non so se anche lei abbia avute le sue, anche se sono quasi sicuro di no. Episodi, per capirci, non abbastanza importanti da compromettere il sacro vincolo del matrimonio e della famiglia, ma che ne hanno forse, paradossalmente, rinforzato la solidità.
Non ci fossero state, saremmo morti di noia e ci saremmo consumati nell’insofferenza reciproca.
Il tutto senza drammi, senza confessioni raccapriccianti, ma con un silenzio dignitoso e civile. Ma dicevo delle visite. Dopo il primo periodo, ho iniziato pian piano ad apprezzare quelle visite.
Il cimitero è un luogo santo, dove vige la regola del silenzio.
È un posto in cui piangere, parlare ad una foto, lucidare marmo mormorando parole languide, sembra normale.
Lì riesco a sfogarmi, a lasciarmi andare senza sentirmi per questo sconfitto e arreso.
Lasciarmi andare senza sentirmi un patetico idiota è uno dei miei stati emozionali preferiti. Oltre ai fiori, che prima portavo freschi ogni settimana, per passare poi a quelli di plastica, comunque bellissimi, deposito anche quelle piccole verità di vecchio che altrimenti schiaccerebbero il mio ormai fragile petto.
Anche qui, presidente, rivolgo il mio pensiero a lei.
Immagino non conosca questa sensazione di liberazione, di svuotamento, di totale libertà.
Se ne avrà occasione, magari in un momento in cui non ha impegni, in cui può rimanere solo per qualche ora, si lasci andare, lasci uscire ciò che l’affligge, la tormenta e vedrà che miracolo.
Ci si sente totalmente vuoti, liberati da ogni peso.
Lei che sorride sempre- un po’ per posa, un po’ perché si piace e ride di sé e del fatto di aver fatto ridere- forse riesce a immaginarlo: è lo stesso sollievo: quando si ride o si piange totalmente, si abbandona ogni freno, ogni pensiero.
Sì, sento di poter dire come si sente un vecchio nel nostro, anzi, nel vostro- il “vostro” è rivolto ai suoi subalterni, ovviamente-, tempo.
La sensazione più angosciante è quella di sentirsi ai margini, di non interessare più a nessuno, di sentire che gli altri, al massimo, ti tollerano.
Io, che nella mia vita sono sempre stato attivo, mi ritrovo qui, molliccio, maleodorante, ai limiti dell’autosufficienza, ad implorare attenzione, a raccogliere biasimo, a non trovare più il senso della mia esistenza, se questa è la condizione in cui dovrò morire.
E’ quasi insopportabile stare soli quasi tutto il tempo: è davvero difficile, quasi impossibile. E’ disumano, contro natura.
In questo momento, proprio mentre lo scrivo, riesco a sentirne tutto il peso. Un peso che mi toglie il respiro, che mi spinge ad urlare. Vorrei avere il coraggio di urlarlo, di aprire le finestre, di dirlo a tutti che non si può, che non è giusto: vorrei dire, urlando, che ci provassero; sì, ci provassero e poi venissero a dirmelo come si sta!
Le prossime righe sono dirette ai suoi collaboratori.
Se in un vecchio c’è ancora dignità, e in me credo ce ne sia, come può stare in mezzo a questa follia, in questo autismo dei rapporti, in questa inciviltà per cui sei fuori se non produci? Immaginare la vecchiaia come uno stato di riposo; vedersi in prospettiva quieti, senza più ansie che divorano, senza più desideri irrealizzabili e faticosi: così dovrebbe essere.
Sono senza fiato, senza parole, attonito: sono come un morto che ruba le risorse ai vivi, poiché non produco più.
Questo è quel che mi si dice senza dirlo: l’implicito esplicitato dalla retorica dell’efficientismo. E’ la logica più aberrante cui l’essere umano potesse arrivare.
È la vittoria dell’idiozia trasformata in prassi; della follia diventata veleno della ragione.
Di cosa mi lamento, perché m’arrabbio?
In fondo ho i miei agi, i miei confort, come la televisione, certo; ed è vero, una volta non c’era, ed è ancor vero, che tiene compagnia.
Ma avete mai provato a guardare con attenzione e un po’ di lucidità ciò che ci costringono a vedere?
Ma non ne sentiamo tutti la vergogna, il disgusto, il non senso?
La rappresentazione di quello che la vita non è, è la regola che vi impera.
Ci mostrano la vita degli altri, scritta da scaltri professionisti dell’impostura, al solo fine di vendere blocchi pubblicitari.
Ed è anche grazie a questa mediocrità distribuita a raffica, a questa costruzione di mondi paralleli fondati sulla furbizia, che aumentiamo progressivamente la frustrazione.
Ci dicono come dobbiamo essere sapendo che non lo saremo mai.
La tivù specchio della vita, si diceva un tempo.
Un tempo in cui non era vero l’esatto contrario: che la vita è diventata specchio della tivù. Tutti i programmi, la pubblicità, sono il massimo dello sforzo per non disgustare nessuno ma nemmeno per esaltare alcuno dei nostri sensi; anzi, semmai per assopirli, per sotterrarli da bisogni indotti, innaturali.
A me questo stato delle cose non piace.
Le chiedo scusa per questo sfogo, per questo attacco diretto, ma non posso omettere quello che sento, ora che ho trovato il coraggio di farlo uscire.
La televisione è un grande strumento di compagnia e di persuasione e lei lo sa molto meglio di me.
E comunque, qualora avesse la gentilezza di leggere questa mia e di inoltrarla ai suoi dipendenti, come le dicevo prima, può sempre omettere le parti in cui mi rivolgo a lei in maniera diretta che sono, credo, riconoscibili.
Mi sembra che invece di agevolare delle condizioni tali da favorire la fine della vita nell’agio, ci sia un piano segreto per stordire e demotivare.
Così me ne sto buono, malaticcio e malconcio in disparte, senza disturbare; senza insinuare il dubbio che questa rincorsa senza fine, non abbia senso.
Sono molto a disagio all’idea di me stesso che pensa come se non vedesse l’ora di andarsene per non fare più fatica, per paura di scoprire la verità un poco alla volta, giorno dopo giorno. Una verità che non esiste più in quanto divorata da questi meccanismi cui nessuno sa più opporre alcunché, se non una triste rassegnazione.
Che poi non sono neanche sicuro che questa sia la verità, ma piuttosto le fantasie di un vecchio senza speranze, che è arrabbiato con il mondo perché questo si è dimenticato che lui esiste.
Negli ultimi anni di vita di mia moglie mi sono trovato costretto a ricoverarla in casa di riposo.
Abbiamo dovuto accettare la logica imposta dai figli i quali, incolpevoli, erano schiacciati dalla loro.
Una banale scivolata a terra cui è seguita un’operazione all’anca, l’ha costretta alla sedia a rotelle.
Il nostro appartamento non consente di muoversi in quelle condizioni. Dopo qualche anno di resistenza abbiamo dovuto arrenderci. L’andavo a trovare ogni giorno.
Ogni mattina, puntuale, ero lì da lei, a farle compagnia.
A farmi fare compagnia.
Il tutto è durato qualche anno.
Lo dico perché se si moltiplicano i giorni di un anno per più anni, si fa presto a superare il migliaio di visite; e nonostante questo, non sono mai riuscito ad abituarmi a quel posto.
Tutto era orribile, disumano, schiacciato in un tempo che non considera il tempo.
I suoi occhi rivelavano la pena del non vivere, pur nella fatica di mascherarlo.
Non voleva abbandonare un minimo di parvenza, che le consentiva il mantenimento della dignità.
Ogni volta all’arrivo, c’era sempre qualche vecchio seduto in panchina, perso nella melma della demenza, che ripeteva sempre le stesse frasi, come un disco incantato.
Ricordo un giorno, era estate, un caldo colloso appiccicava la pelle ai vestiti e rallentava i passi.
Appena superato l’atrio riparato dall’ombra, mi sono imbattuto in un vecchio con un cappellino da baseball, camicia, pantaloni e scarpe che mostravano, sotto lo strato di abbandono, un certo agio, ormai antico.
Chiedeva a ogni passante se avesse una sigaretta.
Aveva un orecchio sfigurato da un enorme massa gonfia sulla cartilagine e uno sguardo disperato e perso, come se invece di guadare gli altri, stesse vedendo uno schermo dinnanzi a sé.
Non lo avevo quasi nemmeno guardato, preso dal disagio e dall’orrore del pensarmi io stesso ridotto in quelle condizioni.
Poi mentre passeggiavo con mia moglie per il giardino interno dell’Istituto, lei mi aveva chiesto se lo avevo salutato. Le chiesi perché mai avrei dovuto, se non per compatimento. Mi rispose che era Pitteri, il mio ex compagno di classe del ginnasio, quello del negozio in centro di tendaggi e stoffe pregiate.
Fu come una scossa, uno schiaffo. Lo osservai meglio e vidi in quel volto scavato da rughe profonde come dighe, segni di dolori e stanchezze infinite, i lineamenti di un conoscente scomparso dalla geografia della memoria.
Ne rimasi sconvolto, sommerso da pensieri di una tristezza e una rassegnazione inimmaginabili.
Mia moglie mi raccontò di come, dopo la morte della moglie, cui seguì una depressione devastante, i figli lo avessero ricoverato, e man mano quasi abbandonato.
Quel giorno dovetti prometterle che, avesse avuto problemi simili, l’avrei aiutata a concludere in modo dignitoso la sua vita.
E le chiesi di fare altrettanto, se fosse successo a me.
Non avrei sopportato di non vivere più in me stesso.
Da allora, ogni giorno, guardavo quei vecchi pensando che dietro quelle maschere c’erano persone, storie, che erano state dimenticate.
E che anch’io avevo un’età tale da rischiare di concludere il mio percorso nell’inesistenza.
Del resto la vita non ha una morale, segue inesorabilmente il suo corso, incurante delle nostre fantasie sull’immortalità.
Che significa che bisogna sapersi dire che si è vecchi e che presto si morirà.
E di fronte a questa constatazione, si dovrebbe avere un buon gusto in bocca; altrimenti l’amarezza prevarrà su tutto, ricordi e affetti compresi.
La mia vita adesso si potrebbe rappresentare attraverso le infinite ritualità, le abitudini che mi portano da mattina a sera, a ripetere le stesse azioni, sempre nello stesso modo, alla stessa ora.
Vorrei aver previsto queste cose da più tempo, avrei saputo come affrontarle, ricavarne una qualche forma di gioia, di soddisfazione.
Ma nessuno ce lo ha mai insegnato a diventare vecchi nell’epoca del mito della produttività. Ci hanno allungata la vita in termini statistici, senza considerare che la si deve vivere invece di sopravviverle.
Anche qui le chiedo uno sforzo: quello di immaginarsi nelle condizioni che sto cercando di descrivere.
Lei ha avuto, e ha tutt’ora, una vita agiata e nelle sue condizioni certi particolari possono sfuggire fino a scomparire. Vorrei invece che questo non accadesse, che cercasse di immedesimarsi un po’ affinché le decisioni che prenderà, tengano conto del bene di tutti e non solo di quello di una parte.
Sorriderà forse, pensando che sono inguaribilmente ingenuo, ma così non è. Lei sa di essere al centro di una disputa, di opinioni contrastanti: c’è chi la pensa come un mostro di ipocrisia, e chi invece la idolatra.
Io semplicemente confido di rivolgermi all’uomo e non al presidente: se l’uomo capisce, il presidente provvede.
Faccio un elenco degli elementi che contraddistinguono le mie giornate.
Mi alzo alla mattina: devo stare attento alla schiena, alla testa che gira se faccio troppo in fretta, a non farmela addosso se non faccio abbastanza in fretta.
Faccio colazione: prestare attenzione all’alimentazione, ricordarsi del colesterolo, di masticare non troppo morbido ne troppo duro per via della dentiera.
Mi lavo: stare attento a non scivolare, a non bagnarmi tutto con ‘ste mani tremolanti , a profumarmi la pelle che non sa più di buono.
Esco: attento alle scale, a non dimenticare le chiavi, a cambiarmi di vestito, ad avere con me il portafoglio, a metterlo in un posto sicuro.
Fuori: tutto fa ormai paura; il rumore infernale di macchine e motorini, i delinquenti sempre in agguato, le strisce pedonali, gli autobus troppo alti e scomodi.
Avete un’idea di cosa sia attraversare una strada?
Il corpo che ha una dimensione dello spazio e del tempo rallentata; la testa manda gli ordini ma è tutto come alla moviola; e attraversare, con le macchine che sfrecciano, i motorini che rombano, l’udito che è quel che è, la vista sfocata; tutto cambia prospettiva “oddio, ce la farò, riuscirò ad attraversare, capiranno che sono lento, che il mio corpo ha la sua età ed è timido e che si confonde e che vive un tempo tutto suo?”.
... e così via; tutto è fatica, sforzo fisico e mnemonico.
Ma ancor più collocare tutto questo dentro di sé, dargli un posto, un senso, una giustificazione.
Credo non si tratti solo di invidia per quelli che ancora sono attivi, quanto piuttosto rassegnarsi all’idea che il riposo del corpo e della mente non combacino esattamente con la fine dei desideri.
Si continua ad essere vivi dentro, a voler fare, dire, partecipare ma non si riesce a dimostrarlo per paura di essere compatiti o, peggio, considerati eccentrici o pazzi.
Sì, è paura tangibile, palpabile.
Paura di mandare qualcuno affanculo – scusi mi è scivolato!- quando se lo merita.
Timore di fare il vuoto attorno a sé, che poi quando ne hai bisogno non trovi nessuno ad aiutarti.
Orrore derivante dalla constatazione che i vecchi sono solo vecchi; non resta quasi più traccia di ciò che si era e si è.
Si muore come si è vissuti; e come si muore se ci si accorge di non aver vissuto?
Se si guarda indietro ed è tutto vuoto, vanificato dalla rabbia, dalla paura, dalla sensazione che questi brutti ultimi anni della nostra vita non rappresentino il giusto e meritato finale ma bensì una noiosa e decadente, lenta e paludosa fine.
No, non va bene, ma non solo per me.
Non sono ancora rassegnato che così sia, e che così sarà per sempre.
Nell’immutabile protrarsi di una vita esteriormente meccanizzata, fisicamente deficitaria, c’è ancora la voglia di ascoltare una voce, una musica.
C’è ancora voglia di percepire un profumo, un sapore, una visione pura.
C’è ancora il vivo interesse a capire e conoscere il mistero della vita, nascosto tra le pieghe di questo apparente, noioso, niente.
Sono ancora grato a questa esistenza, a questo assaporare lentamente un frammento di bellezza, un istante di commozione.
Sono arrabbiato perché non più capace di fare, con un corpo che latita, sciopera nelle sue funzioni basilari.
Ma alcune volte mi perdo in un sorriso, in un complimento sincero di chi ancora mi vuol bene ed è medicina, sussulto, meraviglia.
Ecco: non ho raccontato tutta la mia vita come promesso; ho parlato del mio più recente periodo di vecchio.
Con la vana speranza di cambiare la vecchiaia di altri, di quelli che diverranno vecchi tra un po’.
E forse con un po’ d’arroganza, con l’idea che dire, che sputare fuori questa infinita agonia, mi aiuti a trovare un po’ di tregua, un po’ di pace.
Spero che leggiate e capiate che io sono uno dei fortunati che non sta tanto male, che non è povero e ridotto alla fame, che può ancora muoversi.
Che la vecchiaia, se non si muore prima, tocca a tutti.
Che un vecchio non è solo un consumatore, ma una persona consumata, che vorrebbe vivere fino a quando gli tocca morire, e non sopravvivere a se stesso.
Vivere fino a quando è utile, con la sua storia e la sua memoria e la sua esperienza, e non solo allo scellerato mercato delle merci.
Vivere fino a che la vita gli riserva ancora un posticino, magari dietro, magari anonimo, ma che gli faccia sentire di far parte dei viventi.
Perché vivere senza che la vita scorra dentro, è un abominio tutto umano, e in quanto tale, disumano.
E vorrei concludere con una frase banale: dire che tutti potremmo stare meglio curando di più le relazioni, l’attenzione agli altri, rifiutando e proponendo qualcosa di diverso da quello che c’è già, magari, anche, offrendo un saluto e un sorriso quando si incrocia un vecchio per strada.
Ci pensi.
Ci pensi davvero presidente.
E inoltre, glielo dico con fatica perché so che lei non vuole fare la parte del vecchio e sta usando tutti i mezzi a sua disposizione - che sono molti, lo sappiamo tutti- per non sembrarlo. Le dicevo della fatica che faccio perché, appunto, la rispetto.
Lei è una persona importante, potente, influente.
Io la vedo, sa? Nel senso che vedo oltre quello che lei vuol far apparire.
Lei è ricco, può darsi si faccia il lavaggio del sangue, che si sia sostituito gli organi interni, che si sia fatto un trapianto ai capelli, li abbia tinti di nero, che si sia fatto un trapianto ai genitali; è quello che si dice di lei, che dicono i suoi detrattori, e che nessuno ha mai smentito.
Tutto questo le è utile per sembrare in forma, in gamba.
Tutto ciò serve a mostrare, a esibire un corpo perfetto, un umore invidiabile, una simpatia irresistibile.
Perfino quella storia delle giovani ragazze che lei non pagava, ma che sono comunque donne che si muovono solo dopo aver ricevuto cifre consistenti - e qui, il suo piano di conquista e convincimento, a molti suscita sdegno e rabbia con le pensioni che la maggior parte dei suoi coetanei intascano- è stata una trovata molto intelligente: è sicuramente servita a nutrire la sua leggenda, la sua immortalità. Un vero mascalzone, un guascone che non sa resistere al richiamo della natura. Ci ha fatti sorridere tutti, sa?
Però poi, conclusa l’espressione compiaciuta, ci siamo chiesti come sia possibile che alla sua età lei possa ancora farci intendere di avere rapporti sessuali ripetuti, continui.
Insomma, a noi mica la racconta: lo sappiamo com’è la prostata di un uomo anziano, la schiena, i reni, il cuore.

Insomma, le leggende servono a creare i miti.

La realtà a rendere i miti, esseri umani.

Ora concludo questa mia dicendole in breve com’è finita.
... Alcuni giorni dopo.
Suona il telefono.

“Pronto”.
“Pronto, sono la dottoressa Speggiorin della Question Mark, parlo con il signor Dorigo?”.
“Sì, se sta cercando Cristiano Dorigo, sono io”.
“Sì, stavo cercando proprio Lei, posso rubarle un minuto?”.

“Certo, si figuri”.
“Bene signor Dorigo, La chiamavo per dirLe innanzitutto che il Presidente ci ha incaricati di dirLe che abbiamo ricevuto la Sua lettera e che l’abbiamo trovata molto interessante.
Volevo anche aggiungere che abbiamo raggiunto la quota che ci eravamo prefissati come obiettivo e che quindi non Le somministreremo più il questionario che Le avevamo chiesto di prendere in considerazione”.

“Ah, capisco. Immagino che la lettera non abbia influenzato questa decisione”.

“Ci mancherebbe, si figuri. No, è solo una questione meramente statistica”.

“Va bene. Se può, Le chiederei di salutarmi la dottoressa Giorgia, che ho appena conosciuta al telefono, ma che mi sembrava così simpatica e disponibile. Ho l’arrogante pretesa di riconoscere le brave persone dalla voce, e lei mi sembrava davvero brava”.

“Se capiterà, volentieri, ma la dottoressa Nordio ha prestato servizio solo temporaneamente da noi; l’avevamo assunta attraverso un’agenzia interinale... non so se ha presente, quelle che organizzano e inviano personale alle aziende che han bisogno di lavoratori temporanei; tipo un prestito, per capirci: non di soldi, ma di persone, quando se ne ha bisogno”.

“Va bene, non serve altro. Come ho tentato di spiegare con la mia lettera, ho vissuto un mondo e un’epoca che non esiste più.
Ho vissuto sapendo di non sapere e capendo di non capire.
E ora invece, complice forse l’età, lascerò a breve un mondo che si è dimenticato della vita, preferendole la sopravvivenza”.

“Certo, certo, capisco”.

“ Sì, capisce, certo. Addio”.

“ Addio signor Dorigo”.

mercoledì 5 marzo 2014

recensione di un sinuoso contenitore smussato


 -     Francesco Lubian

Spiccano per intensità i racconti che Cristiano Prakash Dorigo ha raccolto in Un sinuoso contenitore smussato, recentemente edito in formato ebook per i tipi della giovane casa editrice Meligrana Editore.

Solo apparentemente disorganici, i testi qui raccolti sembrano dare vita ad una sottile trama, tenuta insieme da fili trasparenti ma saldi: la riflessione sul corpo umano che si trasforma (è quello il "sinuoso contentiore smussato" che dà il titolo alla raccolta) raccontato in Verso casa e Passaggio, la violenza insita al nostro modello di società e di sviluppo, trattenuta come quella che impregna le pagine di Carnevale o esplosiva come quella di Ventisette coltellate, la grande Storia che irrompe nella vita delle persone, lasciando traumi e ferite difficilmente sanabili, ma che in fondo fanno di noi quello che siamo (Verso casa, Sto galleggiando nell'aria, Scrittura e cura). Ed è proprio qui che Dorigo si mostra fedele al suo stile e ad i suoi temi - a partire dal G8 di Genova del 2001, spartiacque ancora vivissimo per la generazione che aveva vent'anni quando "c'erano i modem a 56k e tutto sembrava ancora possibile" - così come ad un'ostinata, vitale speranza che trapela alla fine di un libro che comunque ha il coraggio di guardare in faccia la brutalità del nostro presente.

Un libro consigliato a tutti coloro che sono affezionati alla scrittura di Cristiano Dorigo, e anche a coloro che vogliono accostarvisi per la prima volta. Non ve ne pentirete.



TITOLO: Un sinuoso contenitore smussato

AUTORE: Cristiano Prakash Dorigo

EDITORE: Priamo-Meligrana Editore (formato ebook)

ANNO: 2013

PAGINE: 50

PREZZO: 4,99 €

martedì 4 marzo 2014

carnevale a Venezia


Carnevale


Mercoledì.
Il carnevale è finito ieri.
...
Ieri la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.
Per terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, bottiglie rotte, vomito. Nell’aria si percepisce la

piega di stanchezza, dopo una notte forzatamente festosa; divertirsi non ha più un significato, è solo un agito, un ordine perentorio, un modo di distrarsi da sé.
Venezia è morta da tanto, e vive solo grazie alla decadente bellezza cui non si può non perdonare tutto. Compresa la volontà politica di un’ignobile svendita, un tot a metro quadro.
Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, universitari protempore, poca gioventù isolata: tutti apparentemente vivi, ma mai vitali.
La strada straripa di donne e uomini, turisti, sviliti dalla sagacia immorale di commercianti di souvenir della nostalgia.
Maschere, vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina tradizionale, cinese, araba.
Cammino zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.
La festa è finita senza mai iniziare, ma nessuno se ne è accorto.
Tutti accettano l’illusione se possono così evitare la delusione.
Rido e canto canzoni che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono suono, e sento parlare

idiomi incomprensibili dai toni stanchi, impastati e notturni.
Cinesi avanzano a grumi: si distinguono per il loro rimanere compatti, e per i vestiti di chi latita
dalla fantasia.
Giapponesi a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e vestiti
da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano manga che lanciano urletti isterici. Non guardano mai negli occhi.
Americani si distinguono tra obesi e muscolosi. Arrotondano le parole con dei versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti, sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice, alla pedante complessità. Sono evidentemente quel che sembrano.
Bengalesi pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.
Inglesi pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata da giovani che non nascondono una disperazione penetrata fin dentro le viscere. Sanno di pioggia, cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.
Tedeschi a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e affidabile.
Francesi che sembrano italiani con l’erre moscia, con la stronzaggine intrinseca di chi passeggia in centro.
Spagnoli che sembrano italiani che se ne fregano di non essere sempre e comunque vestiti alla moda, e parlano ad alta voce e ridono sguaiati.
Olandesi biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.
Coreani che sorridono, e che sono in modo netto la prossima modernità.
Ai lati, africani robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.
Altri vendono altro.
Zingari rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.
Veneziani vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti, commissionati in Cina e
Vietnam; oppure si lamentano della marea umana che non gli permette di vivere; oppure trascinano carrelli stracarichi di merci che questi stessi ominidi hanno consumato, e consumeranno, facendosi largo a suon di urla e improperi dialettali.
Come tutto e tutti a Venezia, hanno ragione e torto insieme, con-fusi, smarriti, perduti tra altezze siderali e profondi abissi.
Io sono il mondo, anche.
Il primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.
Contengo tutti i mondi, in scala gerarchica, e ordine misto.
Mondi che coesistono detestandosi, scaricando sull’amministratore - il mio ridicolo ego - l’onere

di tante contraddizioni.
Tutti hanno le stesse scarpe da ginnastica.
Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni di scarpe.
Altri i sandali.
Certi indossano scarpe italiane.
Tutti hanno scarpe provenienti da altri paesi, prodotte in fabbriche fatiscenti, assemblate da

bambini schiavi che non visiteranno mai Venezia. Maglie e camicie sudate.
Piumini, pellicce, cappotti.
Giacche, giubbotti, soprabiti.

Grandi marche, grandi prese per il culo, firme vere e fasulle.
Lusso, lussuria, consumo, depressione, panico, arte, bellezza, metafisica, internet.

Non ce l’ho con nessuno di loro come persone; non li sopporto in quanto massa. M’hanno rotto i coglioni, penso.
Mi posiziono a un lato della strada.
Appoggio la borsa sui masegni.
Tolgo il giubbotto che porto sopra il vestito, rimanendo in completo gessato.
Fingendo di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino che si

muove a scatti.
Poi fingo di raccontarmi una barzelletta e rido a voce altissima, il tutto col silenzio del mimo. Poi mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione e comincio a roteare su me stesso; prima

piano poi sempre più veloce sino a non distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.
Roteo danzando come i dervisci.
Dopo qualche minuto mi fermo.
La testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.

Mi si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una camicia leggera.
Mi appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.
Mi guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di venticinque anni.
Mi sussurra ad un orecchio: “I understand you”, e se ne va, dopo avermi leccato l’orecchio destro.

Mi rialzo.
Mi spazzolo i vestiti senza polvere.
Vedo un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.
Sulla borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte che non ho

manifestato.
La prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano che accompagna in

modo teatrale un inchino.
Squilla il telefonino.
“Sì, pronto” dico.
“Dottor Persepolis, sono Comin. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso venire oggi?” “Comin, sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Clara gli appuntamenti, e

se ho un buco la ricevo.
Se non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto? Sì, bene. Ci

sentiamo più tardi”.
“Clara, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.
Butto fuori l'aria dai polmoni e mi avvio incontro al giorno.

giovedì 27 febbraio 2014

el mercà de Marghera

el sabo matina vado al mercà de marghera
dove ea gente e ea vita xe più vera
dove ti incontri sempre quchidun par parlar
e sentirte cussì meno soeo in sto incerto campar

e in sta città cussì martoriada
cussì sporca spusoente e inquinada
ghe vol un bel fià de puissia interior
par non soccomber e ndar zo de umor

forse xe par queo che spesso se ride
che se se consoea e se aceta ste sfide
e anca se no xe fassie e gnanca giusto
no manca mai qualchidun che sea ride de gusto

no voevo scriver ea soita roba banal
dir che qua xe un purgatorio bruto e xe tutto ugual
voevo soeo esprimer un fià de sentimento vero
parché qua gò imparà el vaeor de esser sincero

parché ea gente xe tuta diversa ma in fondo ugual
cò se tratta de condivider par no star tropo mal
parché qua no manca certo e disgrassie
epur ti trovi sempre qualchidun che te dise grassie

marghera par mi xe stada na fameia granda
che me ga acolto e rispetà senza far domanda
che ea se strenze intorno a ti come na mare
che ea capise, ea sta sita e ea te scolta come un pare

in mezo a ste fabriche e a sta aria marsa
eo savemo tuti che ea vita a volte xe come na farsa
che ti pol decider se acoglier o abandonar
e che però ea te insegna a cavartia e a rispetar

come finir na poesia de sentimento
sensa corer el riscio de cascar nel sbrodoeamento
se non disendo grassie Marghera
no me desmentego che ti xe statda anca ea me tera

io se fossi gay

Stavo scrivendo un lungo pistolotto che parafrasava Gaber, titolandosi " io se fossi gay".
Facevo delle ipotesi su come sarebbe cambiata la mia vita sentimentale se fossi stato gay; ebbene, da maschio adulto etero, giungevo alla seguente conclusione: niente.
Riporto un raccontino breve dal mio penultimo libro.
Poi scriverò un post per raccontare come è nato.




Vista

Ciao caro amore,
ti scrivo da questo buco da cui non so mai se uscirò vivo, e che riesco a sopportare solo grazie al pensiero che se ce la farò, ritroverò te.
In questo momento sono steso a terra, protetto da una sorta di coperchio costruito intrecciando rami d'albero, fogliame e terriccio che servono a mimetizzare il nascondiglio.
La matita con cui ti scrivo l'ho presa alla base operativa, e faccio fatica ad usarla perché la carta è umida, quasi bagnata, e non è facile scrivere senza strapparla.
Ti confesso, pieno di vergogna, che ho dovuto rubarle perché ci manca proprio tutto quassù, e se venissi scoperto di sicuro sarei redarguito con severità dal capo squadriglia.
La piccola trincea che sono riuscito a ricavare scavando è molto bassa e tetra; sto quasi tutto il tempo disteso, con l'odore di terra e muschio che m'invade le narici, con i vestiti intrisi di umidità, con le membra anchilosate, in compagnia di insetti e di vermi con cui ormai ho stretto amicizia, ai quali parlo, senza bisogno della voce: comunico attraverso il pensiero, come un folle che crede alla telepatia e cede all'illusione di non essere solo, accontentandosi di relazioni silenziose.
Si vince anche così l'ansia e la sensazione di essere sepolti vivi.
Mi muovo solo per i bisogni fisiologici che comunque devo cercare di ridurre all'essenziale.
Quando lo faccio, ogni piccolo gesto è una benedizione.
Approfitto sempre di queste brevi occasioni per cercare un fiore da portare con me là sotto per odorarlo e guardarlo; oppure per toccare la corteccia degli alberi e sentire le differenze sorprendenti che ci sono tra un tipo e l'altro.
Ormai li riconosco senza guardarli: chiudo gli occhi e li tasto con le mani.
Non sbaglio mai, mi basta un attimo per capire che tronco sia, come stessi accarezzandone la pelle.

Il mio compito, mi si dice, è molto importante.
Io sono un poeta, e talvolta la parola è più efficace delle armi, dicono.
Aggiungono, come a persuadermi con le loro ragioni, che il rischio di non aver testimonianza di quanto succede qui è troppo elevato.
E molti tra i partigiani della mia squadra, sanno scrivere appena il loro nome.
Loro usino le armi; io, in dotazione, ho carta e matita. Ho inoltre una piccola pistola da usare nel caso mi scoprano: prima che mi facciano confessare il poco che so e riveli dov'è il comando sul Pizzoc, da cui si domina tutta la vallata di Vittorio Veneto.
È una postazione troppo importante per essere messa in pericolo dalla mia incapacità di resistenza alle torture cui verrei sottoposto.
Li conoscono i loro metodi e, nel caso venissi scoperto, mi dicono con tono confidenziale, essendo io uomo di grande sensibilità, non potrei sopportare la scientifica brutalità del loro agire.
Perciò, dovesse succedere, un attimo prima che mi catturino, devo mettere la canna in bocca, appoggiarla al palato e premere il piccolo grilletto.
Mi hanno assicurato che non sentirò alcun dolore, che tra il gesto del premere e il sordo nulla della morte, non farei in tempo a contare fino a uno.

Devo tenere i conti, è questo il mio incarico.
Sono appostato sopra il “bus de la lun”, in posizione strategica.
Riesco a vedere il grande orribile buco senza esser visto grazie a piccolissime fessure che fanno passare aria e luce.
Ogni tanto arrivano con una camionetta col cassone posteriore coperto da un telo, usato per il trasporto dei corpi.
Di solito ci sono quattro soldati e un ufficiale che dirige le azioni.
I due soldati all'interno del cassone passano un corpo alla volta ai due che sono a terra; questi altri due si dirigono verso il cratere e lo gettano nelle viscere della montagna attraverso questa enorme bocca spalancata, che li digerisce dopo averli inghiottiti.
Questo mese sono stato qui dieci giorni in tutto.
Copriamo turni di un giorno e una notte ciascuno.
Siamo in tre a svolgere questo incarico: io, un maestro elementare e uno studente universitario.
Al cambio turno che avviene in un bosco a un'ora di cammino da qui, ci salutiamo abbracciandoci, augurandoci buona fortuna, passandoci di mano la piccola pistola.
Poi si risale, percorrendo il lungo tragitto tra i boschi, con la leggerezza di chi si sente in debito col destino soltanto perché è ancora vivo. Raggiunta la base ci si riposa, dopo aver scritto le consegne su un diario a disposizione del capo squadriglia.
Finora ho assistito a quattro incursioni.
Gettavano cadaveri di partigiani, di civili, di donne e di animali. Una volta invece, sono stato testimone dell'esecuzione di un uomo sui trent'anni.
Messo in ginocchio, pistola d'ordinanza puntata sulla fronte, ha ammesso di aver ospitato nella sua stalla tre uomini che conosceva da prima della guerra.
L'ufficiale tedesco chiedeva con voce molto pacata al camerata, che traduceva le domande urlando all'umiliato ostaggio, come un esaltato. Intervallava parole pertinenti a insulti sputati nello stretto dialetto dei monti del Cansiglio.
Poi riportava le risposte all'ufficiale, colorandole di un tono pieno di disprezzo.
Gli hanno sparato in testa, si è accasciato come un sacco vuoto.
L'ufficiale che ha usato l'arma non ha aperto bocca; ha fatto solo un cenno con la testa a due soldati che l'hanno preso per braccia e gambe e l'hanno buttato di sotto.
Mi è sembrato di sentire il suono ovattato del suo corpo che sbatteva sulla parete rocciosa. Immaginavo i brandelli di carne attaccati alle rocce taglienti, le ossa che si frantumavano, la postura scomposta, senza inerzia del corpo che precipitava nel buio denso della grotta verticale come fosse una bambola di pezza.

E così, affaticato, tutto indolenzito, fradicio di terra umida, per resistere alla noia, al torpore e al terrore, penso a te.
Penso a come sarà quando sentirò il calore del tuo corpo accanto al mio, al tuo sorriso di sole, al tuo sguardo di luna, al suono della tua voce, alla tua pelle liscia e morbida, al fiato di miele delle tue parole.
Nel frattempo osservo e ascolto il bosco.
Gli alberi sono infinita meraviglia, gli uccelli musica sublime.
Sono riuscito a prendere questo foglio che uso solo per te, Gino.
E ho scritto queste parole pensando al tuo nome, che è la sola forza che mi rimane.

Ciao,
tuo Cristiano