martedì 30 luglio 2013

Razzismo di ritorno e ignorante inconsapevolezza

Non mi piace scrivere parole scontate, eppure a volte tocca. In questo particolare momento storico sta emergendo quello che in questi anni era evidente per alcuni, ma ignorato dai più: la prossimità col razzismo. La ministra Kyenge ne è quotidianamente vittima, in quanto nera africana. Scrivo di getto, con un'urgenza che, lo so, non è mai buona consigliera, ma di fronte a quanto sta succedendo, non mi posso, né voglio, trattenere. Da troppi anni in questo paese si sta dando spazio alla barbarie del razzismo, confidando forse che, finché se ne parla, non lo si agisce. Ma stamattina ho letto una lettera di una signora che contiene il germe del fascismo, della discriminazione razziale, pur dichiarandosi non razzista e, temo, credendoci. La signora parla di sangue, di tradizioni, di paese, di costituzione, e lo fa in modo tale da confondere certe affermazioni, con una sorta di generico buon senso; mi chiedo se questa signora, e chi la plaude, abbia un'idea di cosa sia il razzismo. " ... Sono stanca di sentirmi straniera a casa mia; di dovermi giustificare per le mie tradizioni; di dover continuamente sopportare, tollerare che l’ultimo arrivato, che nemmeno possiede una goccia del mio sangue, mi venga ad impartire ordini..." Il problema dell'immigrazione è una cosa seria: non può essere ridotta a macchietta, non può essere risolta con un atteggiamento pruriginoso, affrettato, dettato dagli istinti. Va pensato, ricondotto ad un contesto storico e sociale; non ci si può dimenticare che consegue a politiche imperialiste e di sfruttamento. Frasi come " che nemmeno possiede una goccia del mio sangue" trasudano ignoranza abissale, oltre a un razzismo introiettato e mai elaborato. Negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, in Sudafrica, tanto per citare alcuni esempi, sono state affrontate e superate da molti anni, norme e abitudini discriminanti e disumane, correlate alla razza, al colore della pelle, alle tradizioni. Sono perfettamente d'accordo che certi atteggiamenti, un certo "buonismo" sia pericoloso e paternalistico; sono d'accordo che diritti e doveri debbano valere per tutti, che chi non rispetta gli altri debba essere giudicato: ma questo vale per tutti, altrimenti, se si fanno i distinguo, si cede appunto alla mentalità razzista. Chi ha sdoganato certo linguaggio, certo modo di dire e pensare gli altri, ha dei diretti responsabili, e nello specifico italiano, si può attribuire tutto ciò alla lega. Non so se la signora ne sia una simpatizzante, ma dalla lettera tenderei a pensare che sia così. Ebbene, e concludo, frasi come quella che ho estrapolato, nonostante siano imbellettate e quasi mimetizzate al tono tranquillo e quasi educato della lettera, non sono sufficienti a trasformarla in accettabile. Contiene infatti affermazioni degne di un regime nazista, o padano se preferisce: un regime cioè, che considera la propria razza superiore, in pericolo di estinzione, e che considera chiunque non vi appartenga, una minaccia. Ci pensi, signora. E, mi consenta, se ne vergogni almeno un poco. Cristiano  

venerdì 26 luglio 2013

chiusura opg e sinonimi di vergogna

Sono venuto a sapere tramite telegiornale che la chiusura degli OPG è stata spostata ad aprile 2014.
Una proroga, poiché dovevano chiudere a marzo 2013: questo sapevo.
E invece si rinvia, si rimanda, si procrastina; e potrei continuare coi molti sinonimi, il cui unico scopo, è giustificare l'incapacità e l'incompetenza - e via coi sinonimi a go go - di chi doveva provvedere.

Le più di mille persone che vi sono rinchiuse, in condizioni sottoumane, aspetteranno ancora, come del resto sono abituati a fare: una delle caratteristiche degli OPG, è che si sa quando si entra, ma mai quando si esce. Tutto così diventa un eterno qui e ora infernale, una condanna alla vaghezza, all'incertezza, al valere per sempre meno di niente.
Invito a fare una visita al sito http://www.stopopg.it/

C'era stata una commissione che ne aveva decretata la chiusura; perfino Napolitano li aveva definiti “autentico orrore indegno di un paese appena civile”.
Eppure si rinvia, si lasciano mille persone marcire in quell'inferno, facendo la gara su quale verbo usare, e quale scusa portare, per non mettere la parola fine ad un'esperienza vergognosa, che contiene una tale stratificazione di ulteriori vergogne, da essere indefinibile e inconclusiva: un'infinita offesa senza possibilità di redenzione, in quanto messa in atto con coscienza.

Ci sono molte responsabilità, e altrettante colpe. Banalmente mille persone non contano niente in termini di rappresentatività politica, e chi si batte perché lo scempio finisca, rischia di venir tacciato di scarso realismo, quando va bene: non ci sono soldi, siamo al collasso.
Eppure chiunque sa che così non è, e che mentire sapendo di farlo, crea di fatto schermi di irrealtà che, continuando a nominarli, si trasformano in quasi verità, o abitudini, o silenzi forzati.

Non aggiungo altro, se non che provo compassione e vergogna; sentimenti che siamo ormai abituati ad abitare, in questo paese-con-la-p-minuscola: a tal punto, che ormai me ne dimentico e rinvio o procrastino o rimando.
 

sabato 20 luglio 2013

fine impero

Fine impero, l’ultimo romanzo di G Genna, mi conferma quello che penso di questo scrittore, potenzialmente uno dei migliori, e tuttavia non ancora, secondo me, capace di esprimersi ai livelli che il suo talento gli consentirebbe.
Prima di questo, in vacanza, ho letto il libro “perché scrivere” di Z Smith, e adesso sto leggendo “niente trucchi da quattro soldi”, di R Carver.
Rispetto al primo, di Genna direi che questa domanda la deve aver superata alla nascita: lui è la scrittura; e non mi riferisco alle ragioni, alle spinte, alle motivazioni consce o meno. Genna probabilmente scrive perché non ne può fare a meno, perché gli viene spontaneo, gli è necessario, gli tocca, senza farsi troppe domande sulle ragioni recondite. Ed è proprio in riferimento alla parte pulsionale della scrittura, che incontro i suoi limiti. Mi pare logorroico, riempiente, ossessionato dal significante.
Pensando ai miei limiti, di comprensione, di sapere, gli arzigogoli ermetici che spalma qua e là, mi sono difficili da digerire.
Ricordo alcuni suoi romanzi noir - polizieschi? gialli? -, nei quali pur essendo una macchina a incastri perfetta, scriveva alla Genna, non giocando mai di sottrazione, di essenza, lasciando fare alla trama - in cui gli riconosco una grande capacità - il suo dovere, visto il genere.
In uno dei suoi libri parlava in modo molto efficace ed affascinante del suo incontro con il regista D Lynch, spiegandone la filosofia. Raccontava del suo modo di penetrare l’inconscio, e mi pare che a volte anche lui ci provi, ma temo, con intenzionalità evidente.

In questo romanzo ci sono frasi molto riuscite, scene degne della migliore letteratura, frapposte alla logorrea di cui accennavo, il cui equilibrio risulta a volte instabile.
Anche la sintassi è forzatamente eccessiva; pur riconoscendone la fatica compositiva, il lavoro.
Mi chiedo se forse non sia io a vedere il suo modo di esprimersi, opposto a quello che è. Se non sia il suo genio ipertrofico a non concedermi tregua, a non farmi godere appieno le sue multiformi sfumature.
Insomma, per tirare in ballo Carver “ in uno scrittore apprezzo moltissimo la chiarezza e la semplicità, ma non la semplicioneria - quella è tutta un’altra cosa”.

Credo verrà a Venezia, e se riuscirò a partecipare alla presentazione, non gli parlerò del romanzo, dei suoi libri, ma del suo approccio alla mistica, alla meditazione, che so che ama molto, e che frequenta da anni.
Questa disciplina tende alla semplificazione, all’essenza, alla radice e alla consapevolezza.
Mi chiedo se la sua scrittura non sia l’esatto opposto.
Mi chiedo se non tenda a complessificare ciò che in realtà è più semplice.
Mi rispondo che non lo so, ma che lo spero.

domenica 14 luglio 2013

2666

questo breve testo l’ho scritto per omaggiare un’iniziativa pensata da Cletus: si trattava di una serata in onore di Roberto Bolano, a dieci anni dalla sua scomparsa. La serata si svolgeva a Roma, il giorno stesso in cui tornavo dalle vacanze, alla quale non ho perciò potuto partecipare. L’ho scritto in due momenti distinti tra loro.
L’inizio, metà circa, mentre ero ancora in vacanza; la seconda metà  a casa.
Lo invierò comunque a Cletus e lo pubblicherò sul mio blog: ormai è scritto.
Pensavo che un altro autore che ho particolarmente amato, Giorgio Gaber, è morto da dieci anni. E nel frattempo, in questi giorni, è scomparso un’altra persona, uno scrittore ( professore, filosofo, musicista, padre e marito) che ho avuto modo di conoscere in rete, con cui ho scambiato parole, e forse anche alcune verità: Valter Binaghi.
Non so se sia lecito, se sia giusto, dire che mi sento un po’ più solo, in riferimento a persone che non  ho conosciuto fisicamente, ma solo attraverso le parole.
Ma credo di potermi fidare di quello che sento, e questo accenno di solitudine, è ciò che sento.
Caro Cletus,
purtroppo non sarò fisicamente presente.
Per l’ora prevista, proprio quel giorno, finiscono le mie ferie in Salento, e prevedo di essere arrivato da qualche ora a Mestre - terraferma veneziana -, quando l’evento inizia. Confesso di dispiacermene: fossi stato da solo in auto, mi sarei sicuramente fermato e avrei festeggiato.
E perché?
Perché avrei bisogno di condividere, di sapere, di capire perché, questo scrittore, questo amico immaginario, quest’uomo che fu, mi piace tanto.
Già, non lo so, e mi piacerebbe che qualcuno mi aiutasse; me ne sarei stato in ascolto, avrei cercato di cogliere qualche parola intelligente o commossa; qualunque cosa che mi consentisse di capirmi.

Il mio personale esordio con Bolano non è stato entusiasmante: ho iniziato a conoscerlo con “ i detective selvaggi”, e non me ne sono innamorato. Quel romanzo non mi aveva stregato: non abbastanza almeno, da indurmi a non dubitare di lui, ad abbandonarmici e precipitare dentro le sue storie, dentro il suo mondo di infinite digressioni, dentro la sua stessa passione per la lettura, che l’ha indotto a scrivere, e quindi a concludere il processo comunicativo; scrivendo a sua volta, consentendoci di leggerlo.
Poi sono passato attraverso l’ultimo capolavoro moderno che mi è capitato di leggere: 2666.
Non è stato semplice affrontarlo, sciogliermici, aderirvi, perdermici: le prime pagine non sono un invito esplicito a quello che succederà in seguito. Ricordo le mie numerose letture dei mistici, laddove il cammino verso il risveglio, è descritto come insidioso, faticoso, pieno di tranelli, ripensamenti, tradimenti, abbandoni.

Ricordo che avevo da poco concluso un altro bel tomo: Shantaram.
Un libro che lascia il segno, che rimpiangi di aver concluso; non certo un capolavoro di letteratura, ma un’avventura totale sì: un viaggio in India - e non solo - come non ne leggevo da un pezzo. Quando finisco romanzi così belli, so che l’unica consolazione è un classico; un libro che sai non ti deluderà, che ti aiuterà a tornare alle faccende quotidiane con la generosità di cui necessitiamo per non morire di noia.
Ricordo che ero andato in libreria a Venezia, che avevo preso la prima parte - Adelphi all’inizio aveva fatto questa scelta commerciale - dopo il classico - non mi si chieda quale: forse “Anna Karenina” ? - che mi aveva costretto a chiedermi se vale ancora la pena di scrivere, dopo Tolstoj.

Ecco un punto nodale: quando leggo libri fondamentali - non so come altro definirli -, mi chiedo sempre se abbia ancora senso, per me, ma non solo, continuare a scrivere. Certi libri contengono tutto, e lo esprimono in modo assoluto: non si potrà che scrivere, peggio, quello che è già stato scritto.
Con Bolano, invece, mi succede il contrario: mi viene la voglia di compiere l’atto della scrittura, di prendere le parole che mi girano dentro e di raccontarle; fosse anche soltanto perché, appunto,  mi sento di farlo ( cito Carver, altro scrittore che mi regala questo:  “ ...Ed era semplicemente meraviglioso scriverle: non c’era niente di più bello. E lo facevo perché ne avevo voglia, che mi sembra la migliore ragione possibile per fare una cosa ...“ ).

I suoi libri, il suo stile, sono per me un mistero.
Ho spesso sostenuto, e lo credo tuttora, di non essere capace di recensire libri; fatico anche a raccontarli, a spiegare le ragioni per cui un testo mi piace o non mi piace. Devo però confessare in tutta onestà, che credo di saper distinguere quando un testo è un buon testo, e quando non lo è.
Questo vale per me, per il mio modo di percepirne il senso, la forma, la necessità.
Leggo con continuità e piacere, e col tempo credo di aver affinato la capacità di cogliere le stratificazioni, che sono presenti in tutti i testi.
Leggere 2666, è stato un continuo scoprire un livello dopo l’altro, una storia dietro l’altra: ho avuto l’impressione vertiginosa che quel libro potesse non finire mai, non smettere mai di raccontare, che fosse un abisso vorticoso e potenzialmente infinito.

Mi sono anche chiesto, scrivendo questo breve testo, se non si trattasse di una sorta di transfert, di un’attrazione derivante dalla vita dell’autore: sono molto affascinato dall’idea di uno scrittore che ha fatto mille lavori, che ha vissuto molto, che si è fatto da sé senza l’ausilio di accademie, amici, conoscenti. Uno che ha scritto e letto più che poteva, che ha  in tal senso abitato molte esistenze.
Non lo so: davvero. Quello che so, è che mi ha reso felice e grato di averlo letto.
Quest’estate lo rileggerò, e se capirò qualcosa di più, lo scriverò.

venerdì 12 luglio 2013

A Valter Binaghi

Ho saputo oggi della morte di Valter Binaghi.
La notizia mi ha molto colpito, mi ha fatto male, in modo diverso e nuovo.
Chi frequenta la rete da anni, mi potrà forse capire, credo. Prima dei social ci si conosceva per nome, ci si leggeva, non si sapeva che facce avessero i nomi che comparivano nei post o nei commenti: eravamo unicamente le nostre parole.
Con Valter ci siamo scambiati qualche mail, ci siamo letti - più io, lui, che non viceversa -, e tanto è bastato per creare un legame.
Mi sono fatto l’idea che fosse una brava persona, uno scrittore a tratti travolgente: uno che conosceva il dolore e la gioia della beatitudine, che aveva sofferto e amato, che diceva la sua con orgoglio.
Sono molto contento di averlo incrociato.
Sono molto dispiaciuto per la sua scomparsa.