mercoledì 30 maggio 2012

Monti e calcio scommesse

La dichiarazione paradossale di Monti sul calcio, e cioè di sospendere per un po' il campionato, ha un suo senso, se agganciata ad altri settori, altrettanto compromessi. C'è un'evidente sperequazione tra tenore di vita di chi accede a determinati posti e chi no. È certamente vero che, nel caso degli sportivi, spesso il loro guadagno è proporzionato a ciò che "muovono" in termini di profitto; ma non sempre è così, e soprattutto non nella proporzione cui assistiamo. E allora come si spiega? E in quali altri ambiti c'è una tale sproporzione? E inoltre, cui prodest? L'elemento che più mi impressiona, è quanto la gente comune, sempre pronta a scagliarsi contro le ingiustizie e gli scandali- più per avere un argomento da bar, che nei fatti-, adori questi giovanotti fighetti, incapaci di formulare una frase che ne denunci l'intelligenza e l'autonomia di pensiero, ma abilissimi a prendere a calci un pallone. Risale a millenni fa l'intuizione che a tener buone le masse, basta dargli qualcosa da mangiare e offrirgli qualche grassa risata. Se aggiungiamo a questo l'altro elemento, un po' metafisico, ma anche molto terreno, che è il tifo, o la fede, o la passione che dir si voglia, si capisce tutto: ci si aggrappa a qualcosa per non sentirsi soli, per dare un senso, per condividere. Il collante sociale è pronto. Il tutto, se posto in termini planetari, ha un suo costo. Ma ha anche un suo ritorno. Assurgere un talento a possibilità diffusa, mostrare che può ripagare potenzialmente chiunque, che produce felicità, che fa diventare personaggi, e la bava Pavloviana è assicurata. Questa supposta democrazia di fondo, attenua anche le evidenti ingiustizie salariali, abbatte la possibilità di protesta a monte, fa tollerare qualsiasi passo falso. La retorica poi condisce il resto: lo sportivo diventa eroe, salvatore dei popoli, idolo di massa. E si sa che quando la passione prende, annulla anche l'intelligenza e l'obiettività e spinge fini pensatori e professionisti ben pagati, a tesserne le lodi, ad alimentarne l'epica. Insomma, lo trasforma in anestetico, in piacere, in sublime godimento. La proposta di Monti, sfogo strategico o incazzatura morale che sia, ha il merito di rubare due-minuti-due alla certezza consolidata degli status quo con cui conviviamo da sempre, e avrà probabilmente il merito di consolidarne la certezza: tutto, ma questo no! Il calcio non si tocca! Tocchiamoci invece attributi più importanti, che tra poco iniziano gli europei, poi le olimpiadi e quei poveri terremotati, potranno almeno consolarsi. C'è da scommetterne. Che si sia zingari o giocatori o allenatori o manager o meno. Cristiano Prakash Dorigo

sabato 26 maggio 2012

Opinioni e critiche sul libro

A volte ricevo opinioni o critiche sul libro. Finora quelle arrivate sono positive, forse perché chi non ne pensa bene, non lo scrive. In certi casi mi sarebbe piaciuto condividerle. In questo caso, col permesso della persona che l'ha scritta, che non indicherò, ho deciso di postarla sul blog. Grazie, C Brevi appunti sparsi, e disorganizzati, molto disorganizzati... su “Supermaket  nord est “ Stati d’animo e stati umorali di espansione e di dilatazione, contrapposti ad altri di contrazione, condensazione e riduzione. Il movimento dagli uni agli altri, mi sembra, che fluisca attraverso gli spazi, che sia influenzato, quasi determinato, a volte, da essi. Sin dall’inizio, sin dal risveglio: penso per esempio agli spazi ampi della casa e della cucina da un lato e allo spazio esiguo del bagno dall’altro. Nell’estensione ampia dello spazio può liberarsi  il pensiero, la riflessione, l’intuizione della “comprensione pura della verità”. Negli spazi stretti, o negli spazi rigorosamente organizzati del supermercato il corpo si muove all’interno di sequenze gestuali, abitudinarie, automatiche. Si sposta lungo coordinate spaziali e temporali  prestabilite, svolgendo azioni ripetitive e meccaniche. Questa scansione rigida dell’agire quasi sottrae vita al pensiero, alla riflessione, alla consapevolezza. [Mi sento spesso così. Non è il lavoro in sé, la catalogazione, la causa, ma la precarietà  contrattuale, la fretta imposta, la difficoltà di vivere la biblioteca con un approccio che non sia solo quello dello svolgimento della propria mansione. Arrivo, catalogo, e vado via. Vengo pagata per eseguire un compito, non per  vivere e riflettere sul senso e sulla realtà complessiva della biblioteca in cui lavoro. Mi sembra molto riduttivo e poco stimolante, sono un automa anch’io a volte :-)] Di questo racconto mi piace molto il suo essere circolare, questo svolgersi dal “preludio di bellezza” dell’alba fino alla chiusura della sera, con “la saggezza e la quiete del buio”. L’alba e la sera si congiungono sulla bellezza dell’attesa di una comprensione che nasce dal silenzio, dall’espansione del tempo in un tempo senza scansione, dall’abbandonarsi all’oscurità del buio che si stende sopra i contorni delle cose, smarginandole e rivelandole nitidamente nello stesso tempo. Questo cerchio che descrivi sembra poter essere in “espansione infinita”. L’homo sapiens di supermaket nord est nonostante sia costretto e, nello stesso tempo, abituato a rispondere al dovere di un lavoro in cui la logica che lo regola è quella dell’artificio, delle gerarchie, del fare carriera, del marketing, ne soffre anche, per fortuna, e, così, quando riesce, tenta di ritrovare la propria totalità; ha la necessità, quasi fisica mi pare, di sentire  il proprio corpo immerso in un ordine naturale (le fughe in collina) che nulla ha a che vedere con quello avvilente, demoralizzante e artificiale del supermaket. Pur nella consapevolezza, tuttavia, di essere parte e responsabile lui stesso di una perdita già avvenuta e irrimediabile. Da poter colmare solo con la ricerca e la carezza del silenzio e dell’ascolto. [E a proposito di intuizioni te ne descrivo una personale: Ieri all’imbrunire tornavo a casa, guidavo e sentivo l’aria calda entrare e colpire dolcemente il viso, il verde degli alberi e l’azzurro scuro del cielo fin dentro il mio sguardo, attraverso  i vetri della macchina e attraverso le lacrime che scendevano incontenibili: mi sembrava in quel momento, come altre volte, che tutti questi colori, e la bellezza  che in essi vive, mi siano preclusi per non so quale ragione a me sconosciuta.]  

venerdì 25 maggio 2012

Cara A, eravamo solo nick

Cara A, Ti invio questo pezzo di racconto che ho estrapolato da un mio vecchio racconto ancora inedito. È un racconto che parla di un tizio che poco alla volta cambia vita; l'avevo scritto quando ancora fb non esisteva e la rete era soprattutto blog, ancora avanguardia, all'epoca. Fa sorridere parlare di epoca, quando in realtà si tratta di una decina di anni fa o poco meno. La cosa che stride di più per quelli che come me frequentano la rete da un po', è che in quegli anni eravamo tutti dei nomi o dei nick, ma senza volto, senza corporeità. Alcuni li ho ritrovati poi in FB, apprezzando la possibilità di guardarsi finalmente in faccia, benché l'anonimato corporeo, al tempo, aveva il suo fascino. Il racconto giocava proprio su questo: due si conoscono in rete, e senza essersi mai visti, decidono di osare e cambiare. Credo forse troverai affinità tra la mail che mi hai inviato- di cui ti ringrazio, molto-, e il brano estratto. A presto, Cristiano "... Stasera sono uscito con i colleghi; alcuni hanno dato il meglio di sé con barzellette, confidenze, cattiverie. Non so come appaio dal di fuori; quel che di certo so, è che non corrisponde al di dentro; mai. Fatica a sostenere un’avvilente messinscena; tentativi di salvare rapporti inesistenti, circostanziati e riferibili alla sola professione. Tornando a casa in macchina da solo, sento dentro una sensazione paragonabile ad una necessità. E’ una voce muta, un nodo che vuol essere sciolto e sta per scoppiare. Accendo la radio e decido, seppur stanco, di fare un giro di notte. Lo sguardo vaga. Persone dentro auto che sfrecciano ovunque. Autolavaggi self-service pieni; bisogna far bella figura, l’auto ci rappresenta, parla per noi. Dev’essere pulita, igienizzata, che magari-stasera-si-scopa. Puttane, travestiti, camionisti; bar affollati, sembra di sentirne il chiacchiericcio abituale. Tutti cercano compagnia, per non avere freddo, per non sentirsi soli e inutili. Il nodo irrompe e senza ragioni logiche scoppio in un fragoroso pianto liberatorio. Davanti ad un semaforo mi si affianca una macchina con due ragazze che mi guardano; perplesse si consultano e mi chiedono a gesti se ho bisogno d’aiuto. Rifiuto e ringrazio con il cuore colmo di gratitudine. Provo vergogna e leggerezza. Adesso sto meglio però; adesso ho compreso. Ora so che devo andare avanti. ..."

mercoledì 23 maggio 2012

Annusare le parole a nord est

Questo che segue è un brano tratto da uno dei racconti di " homo sapiens nord est". Quando ho pensato di postarlo sul blog, mi sono chiesto perché. L'unica risposta che mi è venuta è stata: perché no? Quando uno si fa delle domande e si risponde così, meglio lasciar perdere. "... Ripensa a quella volta che quasi stavano per cadere l'una nelle braccia dell'altro. Era passato del tempo e da allora non ne avevano più riparlato. Lui stava ancora con Pul ( Clara, tre anni meno di lui, designer presso un'azienda di pubblicità, intelligente, pelle chiara, pelo pubico rossiccio, sua ossessione sessuale per tutto il tempo che sono stati insieme: vera?) e lei con Bit ( Eugenia, 37 anni, manager e co-fondatrice di un'azienda cresciuta in internet e quotata oramai in borsa, tonda con un bel viso, lesbica da sempre con naturalezza: normale?). Era nel periodo omo-simpatico e stava provando a se stessa che non faceva distinzioni sessuali. Alla fine s'era convinta di essere bi-sessuale, monogama, libertina. Gli raccontava senza pudore delle tecniche d'amore lesbico che aveva imparato da Bit; diceva che con lui si sentiva libera di confidarsi, anche perché era felicemente accoppiato con una ragazza perfetta sotto ogni punto di vista. Una notte uscivano da un concerto, lei aveva parcheggiata la macchina sotto casa di Bit, che l'aveva accompagnata ma poi non era potuta entrare, eccetera. Lui si era offerto di portarla; pioveva e non voleva si prendesse un malanno vista l'ora e il freddo che stringeva i loro corpi abituati al caldo della sala. Pul aveva troppo sonno e, visto che abitavano a due minuti da lì, aveva accompagnato prima lei a casa, e poi Cor alla macchina. Durante il tragitto stava ricominciando con la sequela di acrobazie erotiche ma lui, un po' il concerto, un po' la libido, un po' chissà cosa, le ha chiesto gentilmente se poteva interrompere e passare ad altri argomenti. Senza scomporsi iniziò a raccontare di quando, armata di dizionario di inglese, tradusse tutte le canzoni degli Smiths. Quella volta aveva scoperto la debolezza e la soggettività delle traduzioni e fece una dissertazione sui traduttori di mestiere e di come certe case editrici siano molto attente al lavoro di questi e di come, invece, certe altre se ne fottessero allegramente. Arrivati all'auto, prima di scendere, si volta verso di lui e con una mano gli prende il viso rivolgendolo decisa verso i suoi occhi. Prak rimane sorpreso da quel gesto e strabuzza gli occhi come farebbe uno scemo. Dopo una decina di secondi, gli chiede perché aveva voluto che smettesse di parlare, prima. Sta per rispondere ma lei lo ferma; gli chiede di non usare parole ma di pensarle soltanto; senza imbrogliare, però. Lui comincia a pensarci per davvero e inevitabilmente inizia a eccitarsi. Gli sembra di leggere nei suoi occhi la delusione per la prevedibilità dei maschi in generale, e di come anche lui confermasse quella teoria. invece non dice niente e comincia a muovere la testa in movimenti lenti e regolari; senza mai mollare lo sguardo, avvicina le labbra alle sue, sfiorandole ad appena un millimetro; il naso si appoggia alla sua bocca e sembra voler sentire che odore abbiano le parole che non ha detto. Con le sue bellissime mani lo accarezza sfiorando tutto il corpo, come stesse sentendone il calore più che la forma. Lui chiude gli occhi e sente di riflesso il suo calore e sembra quasi si stiano scambiando energia vitale. Poi improvvisamente lascia la presa impalpabile e lo saluta con un bacio sulla fronte e uno sguardo che lo fa sentire nudo e in balia della sua comprensione. Tornato a casa, Pul dormiva e lui non ci riuscì se non dopo aver passato una buona mezz'ora in divano con la tivù accesa su canali che trasmettevano ragazze dell'est neanche tanto belle che fingevano senza entusiasmo rapporti sessuali con voci telefoniche ansimanti dall’atroce accento veneto. ..."

lunedì 21 maggio 2012

Brescia, Sant'Agostino, il destino

Brescia. Il lunedì mattina era piovoso. Strade e cielo, stesso grigio, pensavi. Andavi in bagno, ti specchiavi, pisciavi, non pensavi. Poi in cucina, preparavi la moka da due, una fetta di pane fatto in casa con la macchina apposita vinta coi punti del supermercato, marmellata di fragola. Svegliavi tua moglie alle sei e un quarto, il caffè e il pane pronti anche per lei sul tavolo. Lei faceva colazione, tu ascoltavi la radio in bagno, mentre ti facevi la barba. Poi uscivi, entrava lei. Alle sei e cinquantatre usciva da casa. Sant'Agostino, FE Il turno del sabato notte, pensava, era pesante. Era pur vero che alzava lo stipendio, e che i suoi sabati avevano smesso di essere euforia, e quindi rimpianto, ma sarebbe stato meglio a casa sua. Doveva andare in pensione ma la nuova normativa aveva allontanato la meta. Aveva girato tutti i concessionari di camper di Ferrara e Bologna. Con il TFR se ne sarebbe comprato uno e avrebbe girato per tutta Italia. Sarebbe tornato verso Napoli, come primo viaggio; poi avrebbe continuato, chilometro su chilometro. Sarebbe passato anche per Brindisi, dove la ragazzina era stata ammazzata davanti alla scuola. Avrebbe rimandato di qualche anno, pazienza. A questo pensava a quasi fine turno, quando aveva sentito il primo rombo profondo, sordo, che sembrava provenire dalle viscere della terra. Contemporaneamente, la fonderia aveva tremato, come fosse stata investita da un brivido. Brescia Eravate riusciti a non parlarvi anche stamattina. Ti eri fatto un altro caffè e l'avevi bevuto guardando le estrazioni del Superenalotto sul televideo. Questa volta avevi fatto 1. Ti eri vestito con i jeans, la camicia bianca, messo i mocassini, eri andato in camera dei bambini e ti eri fermato un momento a pensare. Dormivano sereni, l'aria odorava di tenerezza. Avevi il dubbio su chi avresti scelto per primo. Eri rimasto in piedi, appoggiato appena allo stipite della porta a guardare il respiro lento del dormire, e per un attimo avevi dimenticato la stanchezza. Eri tornato in cucina, avevi preso la lettera che avevi preparato il giorno prima: poche parole che parlavano di stanchezza, paura, tradimento, fine. Prima di tornare in camera dei bambini avevi verificato che nel cortile condominiale non ci fosse nessuno. Fuori la città iniziava a svegliarsi, a secernere la sua puzza, a invadere coi suoi rumori. Non c'era nessuno. Bene, era il momento. Andavi da Luca, due anni, che ti aveva guardato un attimo e poi aveva chiuso di nuovo gli occhi, fiducioso. Gli avevi fatto sshh con la bocca, come a dire che non era niente, che eri tu, suo papà. Aprivi la finestra, guardavi i sei piani di sotto e facesti un movimento come di ninna nanna mentre le braccia lo lasciavano andare. Poi Piero, sei mesi. Gli avevi baciato il volto, in particolare gli occhi, l'avevi annusato e ti eri voltato per non guardare mentre non sentivi più il suo poco peso nelle mani. Ti eri aiutato con le mani sulle finestre per alzarti, stando attento a non fare danni. Mentre cadevi, pensavi che finalmente era finita. Sant'Agostino, FE Non si capisce subito che è un terremoto, ci si mette sempre un pò. Qualcuno aveva urlato, lui aveva infine realizzato. Era il capoturno, il più anziano; uscite, uscite subito aveva urlato. Il forno tremava, come avesse freddo, pensava mentre si voltava per uscire. Era caduta una trave dal soffitto, l'aveva colpito sulla testa, era caduto. Sarà durato un attimo, forse: ma un attimo è comunque tempo. Tra la rottura della scatola cranica e l'incoscienza, era riuscito a percepire lo scricchiolio delle ossa che si frantumano sotto il peso del tetto. Non sentiva dolore, non aveva paura. Pensava al destino che lo aveva privato della soddisfazione di girare in camper, all'Irpinia, all'Aquila, alla finale di coppa Italia, alla sua famiglia, alla fine.

Brindisi, terremoto, voto, suicidi

Caro amico, Non so più cosa succede, anche se, lo sai, non è una novità che io non capisca. Il rischio più grande che si corre è quello di non distinguere più niente e di mettere tutto insieme, come fosse un'entità a sé stante, tutto quello che succede al di fuori di noi. In questi giorni due eventi sono al centro delle cronache: un attentato davanti a una scuola professionale di Brindisi- una ragazza di sedici anni è morta, altre cinque ferite-; e poi il terremoto anomalo in Emilia- 7 morti e migliaia di sfollati-; le votazioni amministrative, il cui dato evidente è non tanto chi ha vinto o chi ha perso, ma chi non è andato a votare, consentendo alla minoranza che l'ha fatto, di aver deciso anche per loro. E poi notizie che non lo saranno perché mangiate da queste prime, come ad esempio quella del padre che prende i suoi due figli piccoli, li butta dal sesto piano e poi si butta a sua volta- avevo scritto un breve e asciutto raccontino, ma poi ho pensato di non pubblicarlo, che non era giusto nei confronti della madre-moglie rimasta-. Di fronte a tutte queste tragedie, emerge la grande capacità degli esseri umani, di essere appunto umani, capaci di condividere, di stare assieme. E al contempo emerge anche il lato paternalistico e schifoso, per esempio quello dei giornalisti. Frasi come " la mamma è in ospedale, il papà va a messa e piange lacrime per il suo angelo scomparso"; oppure il prete che dice che era una ragazza buona perché frequentava la parrocchia e aveva ricevuto tutte le eucarestie. Per fortuna non hanno ancora avuto il coraggio di chieder " cosa prova?", ma temo lo faranno a breve. Magari proprio a quel papà o a quella mamma di quell'angelo volato in cielo insieme ad altri angeli. Purtroppo non sto facendo una macchietta: succede davvero, parlano ancora così. Ti confesso che questi fatti hanno fatto emergere in molti, spettri che si credevano spariti dalla coscienza, e invece erano solo dormienti. La caccia al colpevole,che pare prenderanno a ore, e che fa scappare quegli spettri di cui ti accennavo: non ci fossero colpevoli, torneremmo all'Italia dei misteri, quelli che giungono puntuali nelle grandi occasioni. Guarda caso le elezioni amministrative, la caduta dei partiti tradizionali, la venuta di nuove figure destabilizzanti il sistema consolidato. Ti invio un brano tratto da un racconto breve che non c'entra con quanto appena detto, ma che c'entra sempre. Perché la massa è formata da individui. "... Distogliesti lo sguardo focalizzandolo su di te; pensavi al mistero della natura e ai miracoli della cosmesi moderna; dopo mezz'ora il tuo aspetto sarebbe cambiato e avrebbe assunto i canoni usuali, quelli che tutti vedevano incrociandoti ogni giorno. Ti contorcevi in strane espressioni, cercando minuziosamente dei segni sul viso; cercavi lievi imperfezioni che potessero minarne la compatta credibilità, come fossero minacciosi nemici nascosti tra le rughe d'espressione che percorrevano in verticale e in orizzontale la tua faccia. Compivi quei gesti con le dita che tiravano la pelle, trasformando i tratti somatici in improbabili maschere, forse per far risaltare la regolarità dei lineamenti, una volta terminato quel gioco da tiramolla senz'allegria.   Tornasti in bagno per il tocco finale e ti accorgesti di non riuscire a sostenere il tuo stesso sguardo, quasi appartenesse ad un altro, ad un essere estraneo che ti fissava severo. Non riuscivi a sopportarne la posa, la sicurezza. Ti chiedesti se anche gli altri provavano lo stesso guardandoti negli occhi. Pur facendo di tutto per riuscirci, non potevi  cancellare il tormento di quel  pensiero. Era pesante da portarsi appresso; rappresentava una forma di dipendenza dagli altri, quando invece, spesso, definivi qualità indispensabile, l'assoluta libertà di pensiero e d'espressione. ..." La scelta di come sentirti ti pareva un diritto inalienabile, che esigevi trasformandolo in solida realtà. La tua, almeno.  

venerdì 18 maggio 2012

Cà Tron, equilibri e capri espiatori

Leggo dai giornali che ci sarebbe un'accusa nei confronti del collettivo di Cà Tron, di appartenere, o appoggiare, il movimento anarchico, in particolare quello FAI. Dall'articolo si evince che sarebbero in qualche misura legati a quell'area che teorizza l'uso della violenza terroristica. Volevo raccontare in breve la mia esperienza con il collettivo sopracitato che, per quanto poco io possa saperne, è ben lontano da pensare che le questioni importanti si possano risolvere gambizzando. Il gruppo che ho conosciuto io è un gruppo eterogeneo, accogliente, che aspira a diventare un ponte tra cultura diffusa e cultura ufficiale: ospita varie associazioni, studenti dello Iuav, ex studenti. Organizza eventi culturali- nel mio caso ho presentato il mio libro e proposto delle letture tratte dallo stesso-, magari anche di dichiarata aspirazione " barricadiera", come i no-tav, ma tutto, appunto, come sottolineato dagli stessi, alla luce del sole. E anzi, come dicevo, con lo scopo di diventare un gruppo capace di modificarsi, ampliarsi, confrontarsi. E questo in una città tradizionalmente aperta alla cultura altra, che forse però, rischia di diventare concessionaria di istanze altrettanto estreme, ma più consone e inquadrabili, e rappresentate politicamente. Non scrivo quello che scrivo con leggerezza, con spirito ingenuo, ma bensì con la consapevolezza di rischiare di urtare suscettibilità. E pur tuttavia credo che certe volte bisogna dire le parole che pungono, che ingombrano, che disturbano. Memori di quella bella favola in cui l'unico ad avere il coraggio dell'innocenza, a dire che il re era nudo, era un bambino. Non so se ho capito bene l'articolo, e non sono nemmeno così presuntuoso da pensare di conoscere la verità. Di certo, questo sì, sento di poter dire che la maggior parte del collettivo Cà Tron è composto da persone animate da buoni propositi. Affermazione che non si può certo applicare a chi pensa che il terrorismo sia una soluzione. Concludo dicendo che, come sappiamo tutti, in tempi difficili, in cui tutti siamo costretti a modificare le nostre esistenze, con il conseguente aumento di frustrazione e rabbia, ci sarebbe il bisogno di capire, di confrontarsi, di farsi compagnia, anziché trovare subitaneamente colpevoli, che forse non lo sono, giusto per scaricare quelle tensioni e frustrazioni verso persone e idee che sono anche discutibili, ma legittime e libere. Cristiano Prakash Dorigo

giovedì 17 maggio 2012

anonima e cerchio



Se immagino il tempo, la forma che mi viene è un cerchio.
Se penso per esempio alla fine dell’anno, cui ne seguirà un altro, il prossimo, anche volendolo guardare, non ne vedo che un piccolo pezzo. L’orizzonte arriva fino a dove il cerchio s’incurva; oltre, l’ignoto.
La maggior parte del futuro, accettando questa convenzione – quella cui sopra che descrive la curva continua del tempo – è perciò un divenire sconosciuto.
Il cerchio è una figura adatta a rappresentare il tempo in quanto inizia e finisce in qualsiasi punto. E credo sia per questo che lo immagino così.
Si comincia nascendo, e da subito ci si incammina verso.
La dimensione del cerchio però non la si conosce: si sa soltanto che è un percorso da intraprendere.
E camminando verso l’ignoto conviene affidarsi al cammino stesso, senza tanto perdersi in sofismi e animosità, che tanto nessuno sa cosa ci sia, oltre la curva.
Il tempo che è stato è passato; cosa mai ne abbiamo fatto, è un nostro cruccio, un pentimento o una piena soddisfazione che però non appartiene più al nostro presente. S’è probabilmente accasato nell’inconscio e verrà talvolta a manifestarsi attraverso qualche bizzarria, o sogno, o incubo, o gastrite.
E anch’esso era nel cerchio, oltre quel che possiamo vedere seppur voltandoci, rischiando peraltro il torcicollo.
Quello che sarà appartiene all’immaginazione, all’harem dei desideri, al venire misterioso oltre la curva. Possiamo ipotecare energie e voglie, posticipare qualcosa che ora non vogliamo o sappiamo fare, ma sarà solo uno sterile procrastinare.
Quello che invece è, nell’ottica del qui e ora, è tutto. Non esiste altra dimensione che ci possa interessare se non sfruttare questa benedizione. Noi gli apparteniamo ed esso ci appartiene; fusi e intimi, ci preoccupiamo soltanto di occuparcene. Domani però sarà una giornata dura? Domani, quando verrà, ce ne occuperemo; ora siamo impegnati nell’adesso.
Le curve che venivano, e quelle che verranno, saranno vissute al loro momento.

No, non ti preoccupare, non mi sono convertita ad alcuna fede. Cercavo, questo sì, di descrivere la dimensione cui aspiro. E scrivendo riesco a stare qui, senza pensare a tutto il resto che non sia invece pertinente e contingente a quello che ti voglio dire.
È una forma di trance per cui, davvero, riesco a fare quel che voglio senza preoccuparmi troppo del resto del mondo: quello grande, enorme, e quello più piccolo, il mio personale.
E vi aspiro perché davvero, provare per credere, se sto, semplicemente, non sono sommersa dai soliti rimpianti, dolori, passioni, desideri, afflizioni, di cui non avrei bisogno, ma che caratterizzano, costantemente, il mio vissuto.
La scoperta è che il male e il bene che sento, e che credo provenga da altri, nasce invece in me. E la stima, l’odio, la noia, il ribrezzo e l’amore, sono forse proiezioni di quell’interiorità che si preoccupa solo di preoccuparsi.
Sto girando in tondo. Mi sto ubriacando di parole per riuscire a spiegare un concetto che mi è ormai chiaro, e che vorrei raccontare per condividerlo.
Ma no, in fondo raccontare l’esperienza, la svilirebbe e, a contatto con la luce e l’aria, provenendo da caverne nascoste, si ossiderebbe; come fa il burro o la mela, che presa un po’ d’aria, si scurisce.

Rileggo queste righe dopo qualche giorno.
Ho dovuto aspettare qualche giorno, appunto, per riprender il ritmo che ci vuole.
La mattina m’alzo ad una certa ora, e tutta la giornata è ad una cert’ora.
Ritmi cadenzati.
Oggi però è una giornata diversa.
La sto vivendo con pienezza, osservando la religiosità di ogni piccola cosa. Come con una lente vedo i particolari; e così facendo tutto ha un senso.
Tutto ha un senso significa ordine.
Quando tutto invece lo perde, il senso, allora vige il disordine.
La fretta è la matrigna della nostra vita e non ci fa vedere ma solo guardare.
Oggi vedo i gesti e le ragioni degli stessi.
Sono perfettamente attenta ad ogni piccolo gesto che, ad esempio, in questo momento si manifesta in dita che ballano sui simboli della tastiera.
Partono gli ordini dal cervello che pensa ad una parola; l’ordine corre giù attraverso i canali del sistema nervoso; che si muovono con prontezza compiendo un percorso logico e repentinamente giungono ai polpastrelli delle dita; queste, dopo che l’occhio individua il posto preciso, toccano morbidamente la superficie dei tasti.
Quando sono attenta sono un essere religioso.
Perfettamente a mio agio con tutto.

Vorrei finire qui. Magari riprendo con la prossima.
Nel frattempo, se stiamo ancora giocando entrambi, risponderai.
Un pudico ciao a te e a chi leggerà.

anonima

lunedì 14 maggio 2012

i dispiaceri dle vero poliziotto


Ieri ho finito l’ultimo di Bolano, “i dispiaceri del vero poliziotto”.
Mi riesce difficile parlare di libri, soprattutto in termini formali, lucidi, intelligenti. Quest’ultimo romanzo, quando lo inizi, sai già che non si concluderà: è stato messo insieme attingendo dall’archivio personale dello scrittore, morto giovane, lontano dal Sudamerica, ancor prima di diventare quello che è adesso: un autore di culto, che vende un’infinità di libri, che è diventato “obbligatorio” leggere, se si vuol stare in certi salotti.
Dopo 2666 sembrava impossibile ritrovare certe atmosfere, digressioni, profondità e leggerezza insieme. E invece non lo è, impossibile. Si ritrova quello che si era dolorosamente concluso senza finire- uno di quei libri che non si vorrebbe finire, che lasciano una scia luttuosa perché sai che dopo ti devi aggrappare alla fede per trovare qualcosa che gli si accosti senza stonare-, che ti ha accompagnato per mano nelle zone più oscure, e in quelle più limpide, della condizione esistenziale, che ha sfondato limiti, barriere, che ha lasciato un segno, delicatamente.
Stanotte ho sognato la poesia: non in termini classici, non rime, metriche, regole; no, quella che scava nella carne, che apre gli occhi e fa vedere: che senza capire come e perché, si fa sognare la notte, quando sei vulnerabile, quando non puoi controllare, quando lasci che quel che dev’essere, sia.
Ecco, lui mi fa questo effetto: aggira senza che me ne accorga il gusto estetico, la logica, il rigore; mi fa andare dentro, un po’ alla volta, senza fretta, col sorriso di chi ha fiducia nell’altro, e mi fa vedere lo sforzo umano, la passione, l’inutile tentativo di capire l’infinità.

“…a Managua, in cambio di uno stipendio miserabile, insegnò Hegel, Feuerbach, Marx, Lenin, ma soprattutto tenne corsi su Platone, Aristotele, Boezio, Abelardo, e capì una cosa che in fondo aveva sempre saputo: che il Tutto è impossibile, che la conoscenza è un modo per classificare frammenti…”

venerdì 11 maggio 2012

un approccio sensoriale al nord est


Ieri sera mentre ero fuori con cagnona, incontrando un signore e un altro cane, mentre ci scambiavamo due convenevoli en passant, non riuscivo a non osservare l’approccio dei due animali. La prima immagine è quella delle code: si incontrano, si nasano, immediatamente le code erette iniziano a roteare. In realtà il movimento somiglia più a quello di un tergicristallo, piuttosto che a un elica, ma talvolta l’intensità del movimento convince l’occhio che si tratta di un movimento completo a trecen                                  tosessanta gradi.
Mentre quel movimento proseguiva, c’è stato il consueto contatto olfattivo: normalmente inizia dagli apparati espulsivi: organo sessuale e orifizio anale. In realtà non so se sia un’azione di ordine sessuale, o piuttosto di riconoscere l’altro da sé, di identificarlo, attraverso l’odore della sua urina e delle sue feci. I cani maschi, ad esempio, urinano un numero impressionante di volte durante il consueto giro coi padroni, e si dice che così facendo “marcano il territorio”. I maschi, dominanti, ingenuamente cialtroni, sostituiscono l’illusoria proprietà privata umana, con la proprietà biologica: questo fino a che non interviene equitalia nel caso degli umani, un altro maschio con le stesse pretese, nel caso canino.
Quando l’incontro si è concluso, ognuno di noi ha proseguito il suo cammino: loro da una parte, noi dall’altra.
La serata era splendida: una temperatura magnifica, un cielo stellato, un’aria quieta, un concerto di grilli, l’odore d’erba tagliata: un festival sensoriale, insomma.
Continuavo a pensare alla modalità dei cani, all’uso dell’olfatto, invece della vista, come guida capace di spiegare gli altri e il mondo; al loro apparente non giudicare gli odori in buoni e cattivi, ma in termini identitari, identificativi. Pensavo a cosa succederebbe se gli umani si affidassero a loro volta a questo modo di vivere e di tradurre l’esistente. Chissà come ci comporteremmo, come svilupperemmo le relazioni. Un pensiero stupido, ingenuo, mi è arrivato improvviso: non esisterebbero guerre.

Ma perché scrivo questo, e perché proprio in occasione della registrazione ( questa volta prima e seconda parte) della lettura al centro culturale Candiani? Non lo so: forse perché il secondo capitolo si intitola “sensi a nord est”, o forse per ragioni più inconsce, più nascoste; forse solo per riempire uno spazio, forse solo perché sono pieno di forse.
Ascoltate comunque, che non c’entra niente con quello che ho fin qui scritto.

Cristiano Prakash Dorigo

podcast lettura centro Culturale Candiani


giovedì 10 maggio 2012

anonima contraddizione


Cara anonima

Oggi c’è un bel fresco.
Di quelli che, fosse inverno, sarebbero puliti, tersi, e farebbero uscire il vapore dalla bocca come si stesse fumando.
Pensavo a questi fenomeni di trasformazione chimica: credo che il vapore sia dovuto alla differenza tra il freddo del fuori e il tepore del dentro.
Il respiro, fonte di vita, impercettibile movimento involontario, si mostra pudicamente attraverso un impalpabile vapore.
Che di suo non ha nessuno scopo.
E che svolge la sua funzione in totale assenza di convenienza diretta.

Ieri parlavo con una persona molto cara, ci raccontavamo questioni personali.
Da quel parlare che fa male e bene insieme, ci si diceva del grado di intimità che ci si concede, nel considerare quel che vivendo, capita. Di come si desidera attraverso il filtro della propria intera vita; della verità vera- quella parte che si è in grado di percepire- che si censura, come si fosse costretti ad accettarne solo una parte.
I pensieri che avrei voluto esprimere, sono arrivati dopo.
Pensavo ad esempio alle difese che mettiamo in atto: le difese che ergiamo a protezione del nucleo centrale, che non si può denudare.
Lo scandalo della nudità.
Giochiamo a vivere in bilico tra l’autenticità e l’opportunità. E bada bene, non mi riferisco alle convenzioni sociali che regolano la convivenza civile.
Quali paure ci trattengono dall’esprimere quel che sentiamo?
Ma quel nucleo vitale lavora e incamera le esperienze, le unisce e rimodella.
Non saremo mai più quel che siamo appena stati: è già passato, subito dopo il suo turno.
Andato, sparito, volato.

 Domenica ero a Caorle.
Camminando sulla passeggiata che porta alla “Madonnina”, caratterizzata dagli scogli-sculture, guardavo cielo e mare.
Dalla parte del levante qualche nuvola, lontana e remota, macchiava una porzione di quel cielo distante.
Sopra e verso ponente, invece, l’azzurro tendente al crepuscolo, lasciava vedere lontano, fino alla linea dell’orizzonte. Dove mare e cielo si congiungono.
Il sole calava proiettando luce sul mare, che galleggiava brillante e viva.
Attorno a me un chiacchiericcio domenicale, indifferente.
Forse vivevano quell’emozione senza bisogno di frapporre silenzio, distanza.
Tutto fuso insieme, senza fatica.
La vita sembrava leggera; o meglio, lo era.
In quella leggerezza alzarsi e lievitare non avrebbe sorpreso nessuno. Chissà dall’alto come sarebbe stato. Un bel fresco come oggi a completare la scena.
Nella tua ultima parlavi di interpretazioni, di circostanze, di impossibilità di mentire a te stessa.
E queste considerazioni le sento molto vicine a quel che anch’io vivo.
A meno che non sia costretto al contrario, sono quel che sono. In qualsiasi circostanza, con chiunque.
In modo ormai naturale, consapevole che pagherò un prezzo, forse, ma che ormai ho scelto: non posso che essere sempre presente: in ogni parola, pensiero, fatto.
E questa vicinanza con la responsabilità diretta nell’agito, mal che vada, m’inquieta, agita, stordisce, ma mai delude.
Sono una contraddizione verticale, un tutt’uno che convive col paradosso incistato nelle ossa.

Oggi è freddo il tempo varia in continuazione da nuvoloso ad assolato.
Ora è sole, poi nuvole, forse pioggia.
E non ci posso far niente; e non voglio nemmeno.
Se fosse sempre sole, che noia.
Non si apprezzerebbe più, diventerebbe scontato, obbligatorio.
E quando si vive dando per scontata ogni azione, e si anticipano parole e pensieri, la vita ha esaurito il suo ciclo.
Conviene fermarsi e ricominciare.

Cara anonima, finisco così.
Attendo la tua risposta, se vorrai.
Ciao

Cristiano Prakash Dorigo

martedì 8 maggio 2012

anonima saporita


Anonima 


Ciao.
Confesso che ero incerta se continuare, se lasciare che questa distrazione nata dalla casualità, invadesse spazi che non le appartengono.
Non dico che non le appartengono perché sono gelosa dei miei spazi, o che niente e nessuno possa entrarvi; in parte è così, ma questo, così come succede a tutti, è normale.
No, stavo ragionando su un altro livello.
Più profondo, incerto, macchiato di sporco e detriti che io stessa produco.
Mi riferisco al livello della verità, quella poca estrinsecabile, almeno.
Sì, perché questa strana dimensione di botta e risposta, o meglio, di scambio di pensieri e considerazioni, sta sostituendo quello spazio di cui ho bisogno: sto diventando più autentica e veritiera qui, che non nella mia vita reale.
Ed è per questo che volevo mandare la mia ultima lettera di saluti e lasciare per sempre questo gioco di specchi a quel che ha già prodotto, senza aggiungere alcunché.
Ma non so come andrà a finire e che piega prenderà questa lettera: sarà lei stessa a decidere la sua stessa sorte.

Vedi cosa intendevo?
Mi sono messa qui, a disposizione di quella me stessa che si esprime attraverso le parole scritte, e addirittura penso e scrivo che sarà lei a decidere in mia vece: come fossi un’altra, che guarda sé stessa da lontano e lascia che sia.
Il tutto senza timore di concedermi alla follia, intendiamoci.
Non che sia scissa; sono semplicemente suddivisa in tante parti, ognuna delle quali perfettamente autonoma ed esistente senza bisogno delle altre.
Se vuoi è un po’ la metafora della maschera che siamo costrette a indossare a seconda della parte che dobbiamo recitare: non parlo di me –ci tengo ad essere anonima in tutto e per tutto- parlo delle donne in generale; mamme, lavoratrici, educatrici, amanti, materne, dure, responsabili, fragili.
A seconda di quel che serve, c’è sempre quella più adatta.
Anche l’anonima scrivana, che scrive parole in libertà.

Questo cruccio, questa dannata sensazione di essere più autentica quando m’esprimo da anonima piuttosto che no, mi tormenta e apre nuove ferite; su vecchie cicatrici, però, mi verrebbe d’aggiungere. La questione, infatti, non è l’agio di esprimere, qui, una qualche verità; o meglio, non una verità ma un modo di interpretare la realtà, di viverla e subirla, di sublimarla e contenerla.
No, il problema non è qui.
Il problema è quando non sono qui e sono altrove.
Lo so che sono in bilico tra il banale e il riciclato: ma questo esprimere il mio vissuto non è per fare un discorso.
No, è vivo e brucia e accartoccia ogni tentativo di raccontarmela.
Non riesco più a mentire a me, a far finta che, a roteare pollice con pollice, in un verso e nell’altro, mentre esibisco una delle mie “me”, intercambiabili e caricaturali, mentre recito la mia vita.
Non so se riesco a essere chiara.
Sono rinchiusa nella perpetua metamorfosi, nel rutilante affanno di essere qualcuna che sia giusta, al momento giusto.
Di avere un’espressione.
Di pronunciare una parola.
Di indossare una postura.
Di fingere di non fingere.

Parole buttate fuori per non tenerle più dentro.
Questo sono e devo.
Parole che decodificano pensieri che portano messaggi; poi vanno, così come sono venute.
E testimoniarle diventa un dovere che lascia scie, ma che mi disereda dalla loro proprietà.
Mi sto annodando per lo sforzo di dire, e lasciare che quel che dico nell’aria, è l’unica possibilità di ristoro.
Perché sono piena e ho bisogno di vuoto.

Non so come concludere. E alla conclusione ci tengo; così come per l’inizio, che induce alla lettura, il finale lascia un sapore.
E  mi piacerebbe essere saporita, e ricordata, e pensata, e attesa, ed essere qualcuna, il cui nome è anonima.

anonima

lunedì 7 maggio 2012

pendolari a nord est


Il treno corre lungo i binari.
Dal finestrino campagna, in fondo al paesaggio il profilo dei monti, e il solito alternarsi di capannoni- molti dei quali dismessi, fantasmatici-, case, casette, stazioncine, e pornografie paesaggistiche varie.
Dal sedile dietro, un architetto di una certa età, parla con la voce su un tono enfatico, come chi è abituato ad essere ascoltato. Gli fa eco, con qualche trattenuto affondo, la moglie, anch’essa con un tono di fiera, ma decaduta, prosopopea di benestante signora di provincia. Con loro un tipo che li asseconda e li ascolta col rispetto del sottoposto che rispetta il capo, e si accontenta di quello che ha, e che è nel proprio immaginario di gestore di un piccolo potere, felice di goderne. Si trattiene, e sorride ai discorsi vuoti del vecchio che sa come vanno le cose, o almeno come andavano ai suoi tempi, che sanno più di nostalgia che di attualità.
Il vecchio ha la voce misurata, compiaciuta, e discute del restauro di un bagno piccolo, a cui una cliente capricciosa vuole con doccia, pur avendo uno spazio limitato. Lo dice come fosse l’evento più importante della provincia. Aggiunge un aneddoto su un nido di tortore, o forse di un qualche altro uccello, nell’albero del giardino di casa. Quando finisce il racconto c’è un momento di silenzio, come ci andasse un oohh. La moglie corregge la sceneggiatura in tempo, per non farne pesare l’assenza, nel silenzio che segue.

Una signora soprappeso legge una rivista. La legge come se fosse importante farlo, come se fosse necessario capire quel che è “in” e quel che è “out”, quest’anno. Si indovina dai suoi lineamenti, una tendenza al comando, datole dalla sua posizione di capoufficio, di un ufficio qualunque, tra i tenti uffici del terziario avanzato dove tutti sono davanti al computer e rispondono al telefono e si sparla dei colleghi assenti per malattia.

Un gruppetto di avvocate che lavorano per piccoli clienti con pochi soldi, si lamentano dell’aumento dei bolli, dei clienti insolventi, delle ore rubate alla vita, per studiare documenti fino a tardi, che non frutteranno mai reddito.

Alcuni dormono, o fingono di farlo, con le cuffiette. Altre rispondono alle chiamate dei morosi, trasformandosi in trottolini amorosi e dududadada.
Dei trentenni parlano del loro impiego da nuovi schiavi tuttofare informatici, con titolari spericolati e stronzi, forse cocainomani, forse sull’orlo del fallimento.
Una tipa chiama la suocera e le dà precise informazioni su quello che ha lasciato in perfetto ordine, la busta coi soldi sopra il tavolo, la chiave sotto il tappeto, i biscotti in credenza se ha voglia di farsi un tè. Quelli che portano l’armadio nuovo dovrebbero arrivare tra le 9.50 e le 10. È già tutto perfettamente organizzato, e comunque grazie.

Il bigliettaio con l’orecchino discute ad alta voce con un africano che il biglietto da 10 km non è sufficiente per tutta la tratta e lo prega di scendere alla prossima stazione.

Un signore sui settanta si alza dal suo posto, va verso le porte, e mentre il treno raggiunge la massima velocità, tira il freno manuale.
Lo stridore dei freni è insopportabile, acuto e graffiante. Chi è in piedi cade, chi viaggia in senso di marcia finisce addosso a quelli seduti di fronte. Scoppia il caos, qualcuno si fa male, un enorme valigia cade addosso all’architetto, la moglie urla sottovoce, le avvocate mezze acciaccate sono sotto shock, la grossa capoufficio maledice la rottura delle belle calze. Il bigliettaio con l’orecchino è a terra, come l’africano semi-abusivo.
Il settantenne un po’ ride, un po’ urla.
“così imparate ad arrivare sempre in ritardo, bastardi”.

Cristiano Prakash Dorigo

domenica 6 maggio 2012

Siti, un cielo grigio, la domenica mattina, homo sapiens nord est

podcast lettura Centro Culturale Candiani:  http://www.radiosandona.it/wp-content/uploads/2012/04/candiani-1-parte.mp3

( lettura scenica di alcuni brani tratti dal libro "homo sapiens nord est". leggono: Elvira Naccari, Paola Cavallin,  Cristiano Prakash Dorigo; base musicale di Franco Belcastro, chitarra e strumenti vari Umberto De Vicaris ( con i quali formiamo i "supermarket nord est")

Stamattina portando fuori cagnone guardavo il cielo grigio, le sue sfumature, tentavo di calcolare quanto tempo ci avrebbe messo a piovere.
Mentre camminavo, era ancora presto per essere domenica, la gente ancora a letto, ascoltavo gli uccelli, unico suono oltre al nostro avanzare. Pensavo al post che avrei scritto oggi come accompagnamento alla registrazione della prima parte della lettura al Candiani, e mi venivano in mente due temi: il primo, veloce, istintivo, forse macchiato dall’ ideologia, spingeva verso la constatazione della situazione politica italiana, e più in generale, quella occidentale; la seconda, alcune considerazioni che Walter Siti faceva ieri sera da Fazio: purtroppo ho visto solo la parte conclusiva, ma è bastata quella per registrare la differenza tra un grande scrittore, la sua idea di letteratura, e la pochezza del mezzo.
Non so se c’è un nesso tra i due pensieri e il mio libro. Forse in maniera presuntuosa credo invece che ci sia, ma credo anche di non essere in grado di riuscire a spiegarlo in poche righe: non mi compete proprio una tale capacità di sintesi.
Mi limito perciò a buttare là pensieri alla rinfusa, accettando il fatto che probabilmente non so fare di meglio.

… veniamo da un’epoca recente in cui, di fronte a un cielo grigio come questo, si sarebbe detto che c’era un cielo limpido, che negarlo sarebbe stato da disfattisti, da frocetti, da sfigati. La realtà non era ciò che era reale, bensì il racconto che se ne faceva.
Ci siamo bevuti la finzione della finanza, un’entità impalpabile, inesistente, eppure dotata di super poteri: poteri tali da scatenare, solo per un cambio d’umore, un sospetto, un’indiscrezione, la ricchezza o la povertà di intere nazioni.
Siti esprime concetti universali rinchiusi all’interno di tempi e modi che lo costringono a riassunti minimali, quasi degli aforismi. Dice che l’economia persegue un mito di progresso e benessere, convinta che, se perpetuato, non possa che portare progresso e benessere a tutti. Dice che la letteratura contiene in sé tutto, e che certi grandi libri riescono a raccontare quel tutto come nient’altro può. Che i suoi libri, e in particolare quest’ultimo- che non ho ancora letto, ma che leggerò, memore dei suoi precedenti-, prova a raccontare la realtà attraverso un personaggio che sta dalla parte del “male”, che si autoassolve attraverso una serie di giustificazioni cui siamo, ahinoi, abituati in questi ultimi anni. Dice in sostanza che il bene e il male non sono disgiunti, che si compenetrano, che ci abitano, e che spesso non ne siamo consapevoli, o non riusciamo ad accettarne il peso. E poi dice molto altro, in poco tempo. Ad esempio che la televisione non è causa di tutti i mali, ma è solo una parte del complesso sistema che forma la società. Insiste sulla complessità, sull’impossibilità di risponderne in modo esaustivo in poche parole, con poco tempo, in un luogo così pedagogico e diseducativo insieme, che è la televisione.
Tra l’altro, dopo di lui, ho visto un pezzo di Gramellini, persona invece, a me pare, che immagina di sapere, in buona fede, cos’è giusto e cos’è sbagliato. Purtroppo- e lo dico per l’amore per la letteratura, non per la persona in quanto tale-, vende molti più libri di Siti.

E cosa c’entra il mio libro?
Questa è la parte più difficile da scrivere. Innanzitutto consiglio di ascoltare il podcast- grazie a radio San Donà per aver voluto dedicarvi una trasmissione: questa è la prima parte, la seconda la posto nei prossimi giorni-.
Poi accenno un paio di suggestioni che spero di riuscire a sviluppare nel prossimo post.
La prima è la questione dell’autofiction: mi è capitato di dover rispondere alla domanda: ma è autobiografico? Questo perché, in alcuni racconti,  scrivo di droga, e di sesso, e lo faccio in modo esplicito. Rispetto a questa domanda, mi sono spesso sentito di dover chiarire, raccontare, specificare che quei personaggi non sono io: sono frutto di analisi, racconti, frammenti di storie che ho cucito insieme, ecc. Mi sono cioè ritrovato a difendermi dal mio libro, forse anche a difendere il libro da me, e in modo assolutamente precario, instabile, ansiogeno.
Se avrò tempo, anche se più passa il tempo, meno ne sono convinto, spiegherò che ho voluto raccontare i sintomi che conseguono a cause più profonde, intangibili, inconsce,  forse più universali che territoriali. Il fatto che molti personaggi si chiamino col mio nome, non significa che siano me: questo è solo uno dei modi di raccontare. Un libro poi non si spiega: si legge. L’ho scritto io, ma una volta pubblicato, diventa del lettore, il quale darà le sue spiegazioni, le sue motivazioni, troverà le sue ragioni.

Concludo.
Non volevo paragonarmi a Siti: ho il senso della misura.
Non volevo dire che il mio libro è paradigmatico di un’epoca: ho il senso della misura.
Volevo, forse, dire che il sintomo è solo la superficie, e che andare alla ricerca delle cause e raccontarle è, tra l’altro, uno dei compiti che la letteratura dovrebbe assolvere.

Cristiano Prakash Dorigo

giovedì 3 maggio 2012

anonima con tramonto




Ciao, ti scrivo senza orizzonti, in questo momento, se non questa pagina bianca.
L’idea che più mi piace è quella che con te, inizio ogni volta da zero; senza preoccuparmi né di dove vado, né perché.
E senza il bisogno di essere perfettamente logico o descrivente; mi sembra piuttosto che entrambi stiamo aderendo ad uno standard poco ortodosso che risponde solo al bisogno di comunicare. Comunicare a voce bassa piuttosto che attraverso un urlo possente; scrivere parole comode piuttosto che acide; buttar fuori quel che dentro presto andrebbe in scadenza, formando così grumi tossici.
Questa è l’idea che mi sono fatto. E naturalmente potrebbe anche essere un’idea per niente aderente alle tue, ma che mi sento comunque a mio agio a manifestare.

Domenica sera ero a Belluno per una visita ad una coppia di amici che si sono trasferiti dalla grigia città al colorato mondo montano. Passeggiavamo verso il tramonto nella parte alta della città, da cui si gode ad ogni ora un panorama straordinario.
Per un momento mi sono staccato dalla loro compagnia per avvicinarmi ad un punto da cui si poteva vedere meglio il tramonto.
Ero ammutolito, completamente pervaso da quella magnificenza oltre ogni immaginazione.
Tutto ciò che quel momento chiedeva, voleva era niente.
Occhi che san vedere.
Naso che respira.
Orecchie che ascoltano.
Bocca che tace.
Ma il silenzio era anche stavolta solo una breve parentesi.
Sono stato di nuovo avvolto da pensieri e considerazioni, dal bisogno di definire il momento.
Pensavo a come un artista avrebbe potuto descrivere quell’attimo che era già andato.
Un pittore, un fotografo, forse.
Ma scrivere la bellezza, io no: come avrei potuto?
Come avrei potuto condividere un solo istante che si dilata pur rimanendo fermo immobile?
Comunicare, dicevi tu.
E mi sentivo già sfiorare dalla sensazione di essere capace di raccontare quel solo singolo momento.
Mi sono reso conto che non ci sarei riuscito e che questo non faceva poi così male; succede di non esser capaci. Si aggiunge alla folta schiera delle impossibilità, dei limiti che talvolta, nello sconforto, si sentono come invalidanti.
Ma nei momenti migliori, segnano solo un dato con cui si può anche fare dei compromessi; una sorta di dichiarazione di non belligeranza, che diventa convivenza, a volte perfino simpatica.
Quando ho raggiunto gli amici ho creduto di essere un po’ meglio di come ero appena prima.
Per un tramonto, ho pensato.

Adesso invece è un altro posto, sono a casa.
Computer acceso per non mancare all’appuntamento, la promessa implicita e taciuta, con il mio turno: la risposta, dovere accanto al piacere.
Sarebbe problematico e contraddittorio ritornare a quell’attimo e al tentativo di visualizzarlo a parole. Lo sarebbe perché vorrebbe dire scappare dal tempo di adesso e tornare al passato.
L’impressione che mi aveva dato quel tramonto era di eternità. Era eterno perché sospeso in una dimensione senza tempo: in pratica ero riuscito ad entrare nel presente contingente; non pensavo, per quel breve istante, né a prima né a dopo; sì, per un istante non ho pensato.
E l’ho perduto nel momento stesso in cui ci ho pensato: pensato di doverci pensare.
Per cui anche ora, che vorrei attaccarmici, perderei quel che sono adesso.
E adesso sono in contatto con l’incertezza e la caducità fragile di me, vorrei spaziare; a costo di perdere ancora l’occasione di svelare quella piccola parte di verità che posso percepire tra la frenesia della fuga.
Perché le parole che diciamo differiscono da quelle che scriviamo.
Qualsiasi proposta, insegnamento, ideologia ci venga fatta, ci infarcisce di valori e credenze che diventano poi maschere fuorvianti.
Ci dobbiamo adattare a vivere nella finzione di dover essere costantemente adeguati.
Adeguati: pena la solitudine.
Ma io nella solitudine mi ci cullo.
Propongo il me che non ha vincoli, libero di essere come sono.
Per cui non sono quasi mai come le parole che scrivo.
Sono peggiore se costretto alla sopravvivenza.
In difesa: in attacco, quindi.

Vorrei concludere ora.
In questa bella mattina di sole.
Vorrei che continuassimo a scriverci perché farlo mi dà l’occasione del confronto.
Perché è forse grazie a questo scambio epistolare che ho tentato di descrivere quel che altrimenti avrei tralasciato; e avrei perso un’occasione.
E perché mi piace.
E non ho ragionevolmente dei buoni motivi per non fare quel che mi piace.
E in questa mattina, prosieguo ideale di quel tramonto, lancio il post.
A presto.

Cristiano Prakash Dorigo

anonima domestica follia




Eccomi, sono io.
Immagina un salotto con due divani, un tavolo, stereo, libreria ben fornita.
Tende e copri divani suggeriscono una predilezione per lo stile orientale, così come gli oggetti che stazionano qua e là, morbidamente, senza invadere; azzardano il pensiero di un’esistenza diversa, possibile seppur lontana.
Sono seduta con un libro in mano, la voce della tivù accesa galleggia.
In questa ubiquità ho quasi il sollievo di non pensare; mi par di stare in equilibrio tra le due forze: quella auto diretta del libro da una parte; quella etero diretta della tivù dall’altra. E io sospesa come su di una fune, sicura pur nell’ oscillante precarietà.
Arriva una voce, all’improvviso.
È familiare e calma, anche se un po’ gracchiante, come quelle al telefono: “ a cosa pensi ?”

E’ come se un frammento di realtà entrasse, deflorando uno strato invisibile.
Il fatto che sia qui e altrove esige una spiegazione.
Devo avere un’espressione indicativa; da cui si deduce qualcos’altro.
In questo momento penso questo cui sopra.
Vorrei provare a rispondere così come faccio ora: attraverso la parola scritta su di una pagina bianca, con  caratteri neri.
“ Voce”, mi sembra di dire pur pensandolo soltanto, “ puoi cercare la risposta leggendola su questo schermo che ora in meno di tre secondi apparirà. La mia voce riposa con me in questo equilibrio di cui parlavo qualche riga fa”.

Pur non essendo certo pienamente sana, qualche rappresentazione impossibile della realtà, me la concedo.
Se non ho voglia di parlare, queste bizzarrie arrivano. E’ come se aiutassi me stessa a trovare strategie per esserci, anche quando mi consento brevi fughe.
Non so se sono brevi scappatoie per non essere qui, o se sono solo la risposta al bisogno di partire.
Come se, non essere qui, fosse avere più possibilità.
Come se partire fosse ossigeno.
Tutto questo giro di walzer per dire che non mi preoccupo di avere dei pensieri matti. Voglio dire: ci sono! Cosa dovrei fare, far finta che non esistano?
E sono convinta che  servono per salvarmi dalla nauseante rigorosità della logica.
L’ossessione del pensiero corretto.
Non ci fossero, i pensieri matti, sarebbe come non sbagliare mai.
E il dolce sapore di quando si fa la cosa giusta?
Che gusto, che forma avrebbe se non si sbagliasse mai?
La leggerezza di stare nel giusto: quello rivelato dall’istinto, non quello istituzionale.

Il salotto, l’equilibrio e la voce, scompaiono al risveglio.
Non so se ho sognato o pensato.
Non so se era una rappresentazione sognante della realtà o di quello che il reale non è.
Non so nemmeno se non l’abbia inventata adesso per avere un pretesto per scrivere.
Per comunicare.
Con lo pseudonimo che ricorda il mistero di chi non è, se non perché si sa che dietro a quell’anonima, c’è una che ha una vita.
Non so se ci si può accontentare di avere un dialogo con un’ombra.
Ma in rete leggo molti pseudonimi, o nick, come si dice.
E se anch’io devo stare alle regole del gioco, lo faccio attraverso la naturalità: mi si conosce per anonima, e anonima sia.

Sono costernata da come mi sia imbarcata su discorsi che iniziano a non essere più un’esigenza comunicativa, ma una volontà di permanenza.
Forse vorrei essere anch’io là.
Vorrei anch’io godere della compagnia leggera di voci senza suono che seguono la mia vita.
Quello che decido di raccontare della mia vita: la mia vita intrapsichica.
Che anche questa è fatta di carne e sangue, nervi che frustano e rimbalzano con l’agilità di chi non ha padroni cui giustificare la non linearità dei propri movimenti.

Qui sono l’anonima.
Nella mia vita vera sono nota e nominabile.
Quando sono anonima o entro nelle storie degli altri riesco a liberarmi dal peso dell’identità e vivo il trasporto che questo mi consente. È come immaginare di potere tutto, qualsiasi cosa; perché tanto non c’è nulla da difendere, niente che impedisca la libera scelta, anche quella illogica.
Quando sono me, nella vita reale, il sogno, o meglio, la possibilità, si riducono a seconda dei vincoli. Insomma, talvolta mi par d’essere la prima vittima della mia stessa prigione.
E ho invece, davvero, bisogno di lasciar andare, senza paura di ritorsioni, tutto il peso che  m’opprime.

Mi sono adeguata al tuo stile e ho sparato parole a raffica senza un filo conduttore. L’ho fatto forse perché, come dicevo poc’anzi, mi sento oppressa dai doveri, non scritti ma impliciti. E avevo invece voglia di essere libera.
Proprio per questo ti chiedo di leggerla prima di pubblicarla, non vorrei sembrasse un uso improprio della follia.
Di fatto però, scriverla tutta d’un fiato, mi ha svuotata; e non ci speravo davvero.
Infatti, fossi ancora in quel salotto, adesso, risponderei così:
“ A cosa penso? Vieni, siediti qui vicino che ne parliamo”

Anonima 

martedì 1 maggio 2012

dio, padania e famiglia


Mentre se non si trovano rimedi stiamo tutti affondando, poco alla volta, senza quasi accorgercene, o meglio senza che la classe dirigente se ne accorga, piccoli gesti di barbarie si stanno diffondendo in ogni dove a raffica, a ripetizione, accelerando la discesa.
Prendo ad esempio la lega, che cerca di ricostruirsi un’identità smarrita nei segreti di palazzo, quelli dove il potere, con la dolce vita che li contraddistingue- l’ostentazione pacchiana del niente che sono e del molto che hanno, le bave pavloviane dell’avidità a imbiancare gli angoli della bocca-: oggi, primo maggio, San Donà di Piave, festa dello sport, palcoscenico delle scuole da ballo di provincia e palco adatto al comizio dell’assessore di turno, questo stesso ha impedito l’esibizione delle ballerine di danza del ventre. Nonostante le petizioni, le richieste di spiegazioni, questo bell’esempio padano ha bofonchiato che non sarebbero adatte alle famiglie, dimenticando che le stesse, le famiglie intendo, riescono perfino a sopportare i suoi discorsi dio-padania-famiglia, nello slang indigeno.
La sindaca, oltre ad essere anche presidente della provincia di Venezia, e a portare perciò a casa due stipendi, tace in proposito. In compenso fa fuori equitalia, operazione da estetista del popolo oppresso; lo stesso popolo da cui riceve gli stipendi cui sopra, per altro.
Passo ad altri. 
L’altro giorno denunciavo l’editoriale di Camon sulla Nuova Venezia, giornale che non ha evidentemente gradite le mie osservazioni, o non le ha ritenute opportune o degne di pubblicazione. Questi diceva e argomentava che se il ladro in provincia di Padova è stato ucciso, lo è stato a causa dei suoi complici: insomma, l’assassino non è chi ha sparato, e cioè il commerciante, ma i complici di questo. Nessuno fa il tifo per i ladri: non siamo di fronte a un film dove ci sono i buoni e i cattivi, indiani e cow boys: no, siamo nel nord est dei suicidi degli imprenditori, dei disoccupati; un popolo che in poche generazioni, da emigrante, ha ospitato immigrati, e che dovrebbe ricordare bene le lezioni che ha imparato in tutti i nord del mondo, quando gli italiani erano il sud. Un popolo che ora sta tornando a convivere con l’incubo della fine del mese sempre più lunga, delle fatture da pagare, delle aziende insolventi.
E concludo da dove ho iniziato.
Credo, temo e infine spero, per cause elettorali, questo partito stia sfidando logica, buonsenso e radici culturali cristiane, dicendo che la danza del ventre non s’ha da fare. Che rischia di turbare la serenità delle famigliole felici di razza padana.
È con queste piccole barbarie quotidiane che si crea l’isolamento, la lontananza, la paura e la diffidenza.
Ed è così che poi, soli, stretti all’angolo, si rischia di credere davvero che esista il buono e il cattivo.
E il cattivo, fatalmente, è sempre l’altro.

Cristiano Prakash Dorigo