Uno
psicodramma italiano con protagonista altoatesino.
Vedere
la conferenza stampa, lo tracciamento di vesti, la campagna mediatica nei
confronti di Schwarzer, mi induce a pensare a quanto provinciali siamo.
Nel
paese in cui si combina di tutto e di più, con la quasi certezza dell’impunità,
o dell’insabbiatura, o della scadenza dei termini, il pianto di questo
ragazzetto con le mani da pianista, con l’erre dura degli altoatesini, le
lacrime, la sacra arma dei carabinieri, ecc., risultano talmente populisti da
sfiorare la pornografia.
Tempo
fa, all’epoca della fuoriuscita di B, io, convinto che questi abbia rovinato
almeno un paio di generazioni con le sue lucette, i suoi sorrisoni, i
pizzicotti sul culo, gli ammiccamenti; ebbene, io provavo compassione per quel
vecchio bulletto strapotente e straricco, eppure sconfitto. Uno psicanalista mi
diceva che il mio era il classico atteggiamento cattolico, cui contrapponeva
quello nordico di tipo calvinista, più propenso ad attribuire colpe e meriti
senza infarciture moralistiche.
Tentavo
di controbattere che la mia era solo compassione, e che quasi sempre tendo alla
comprensione. E che nei confronti di qualunque persona, sono convinto che prima
o poi, dovrà fare i conti con la sua coscienza; per cui non provo rabbia o
invidia, ma quasi pena.
Temo
però di non averlo convinto, lo psicanalista, e che continui a considerare la mia pietas, allo stesso modo.
Ma
torno alla questione Schwarzer, al bisogno estivo di seguire qualche scandalo,
inventare casi, mostrare stempiature, corpi con cellulite, capezzoli esibiti,
di certa stampa.
Penso
alla diffusione di riviste con foto, intrecci sentimentali, piccoli scandali da
sala d’attesa. Verifico sgomento che se ne vendono una quantità impressionante,
che c’è chi sa tutto di questa o quella coppietta; che c’è chi vive per
interposta persona, come se fosse troppo faticoso affrontare la realtà, e
quindi passa le giornate in apnea, come tra parentesi, e guarda ciò che succede
attraverso questa visuale.
Oggi
in treno avevo di fronte a me una signora sui cinquanta, molto a modo, con
l’aria della brava insegnante.
Aveva
le cuffiette e ascoltava qualcosa dal telefonino. Ad un certo punto si è sporta
un po’ attraversando la mia visuale, per buttar via una carta nel portaoggetti
del treno dei pendolari. Anch’io avevo le cuffiette, che avevo messo per
smettere di leggere un romanzo che parlava di un padre e di sua figlia
adolescente, in un momento in cui la commozione mi faceva uscire le lacrime, e
non sta bene, in treno, farsi vedere lacrimante.
Mi
passa davanti, dicevo, ed entrambi sorridiamo sillabando qualcosa e accennando
un sorriso.
Ad
un certo punto la signora si asciuga gli occhi, con molta discrezione,
nascondendo dignitosamente delle lacrime che evidentemente non riusciva
a trattenere.
Leggeva
una rivista: con una mano la teneva, e con l’altra s’asciugava gli occhi.
Arrivati
in stazione, con le cuffiette alle orecchie- io stavo ascoltando “S-Low”, uno
degli album più belli dei Marlene Kuntz, forse la miglior band italiana-, la
signora saluta con un cenno di sorriso e s’avvia. Lascia sul sedile la rivista,
aperta sulla pagina che stava leggendo. Il titolo faceva accenno ad
una madre che aveva perso il figlio in un incidente stradale e che, ogni
giorno, andando al lavoro, ascoltava con le cuffiette la
voce dello stesso, che le aveva registrato poco prima dell’incidente, per il
compleanno della madre: una poesia che
Pasolini aveva dedicato alla madre, che il ragazzo sapeva, piacere molto
alla madre. Il giornale diceva che ogni volta si struggeva di dolore e di
commozione, che non poteva non piangere, ma che era il suo modo di tenere vivo
il ricordo.
Ho
preso la rivista, ho cercato tra la folla dei pendolari la signora, mentre Godano cantava “nuotando
nell’aria”.
La
vedo da dietro, le tocco una spalla, la signora si volta e mi guarda sorpresa.
Non
era lei.
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