Interrompe un attimo i suoi pensieri: arriva Dor (Giulia, impiegata comunale all'ufficio tributi, vera amica da molti anni, bionda ma spesso tinta, occhi azzurri, corpo piacente, mai toccata sotto i vestiti: serena? ) e dice che vuol parlargli.
Le sorride disponibilità, senza allargare troppo il sorriso, sennò s'accorge che deve ancora completare il ponte ai molari, e gli si vede il nero dell'assenza.
Si siedono su un divano scomodo ma bello, classico Ikea pensa.
Dor ha sempre avuto una bellissima tonalità di capelli: questa è già la terza che cambia, ma non sbaglia mai. I riflessi rosso-arancione invadono i suoi occhi che, presi dalla visione di quelle mani affusolate che roteano nell'aria e compiono quei gesti così femminili, stanno probabilmente perdendo credibilità.
Per tornare qui e ora, decide di farsi scoraggiare dall'ascesi della sua presenza concentrandosi sul suo alito, che se è come immagina sia il suo, dev'essere simile al liquame cadaverico.
E invece lei mastica una caramella che sa di menta e brezza di montagna; gliene chiede una, così si sente almeno presentabile ( cocktail e canne hanno ridotto la sua bocca ad un campo di concentramento).
Inalando quel profumo di pino e dolomiti e ossigeno d'alta quota, chiede in cosa possa esserle utile.
Gli racconta che ha il sospetto che Reb ( Eugenio, 40 anni il suo fidanzato pittore astratto che vende fumo per arrotondare, bel ragazzo tipo ombroso affascinante, alto alto: sincero?) sia in depressione.
Non esce più di casa, mangia e parla poco.
Ha dipinto un solo quadro negli ultimi tre mesi.
Lei ogni mattina esce per andare al lavoro che lui ancora dorme, e quando torna lo trova davanti alla tivù, sul divano, con la barba da fare, la doccia da fare, il letto da fare, il pranzo da fare: insomma non fa un cazzo e non reagisce, dice.
“Gli puoi parlare? Ti prego aiutami almeno tu che lo conosci da vent'anni. E' rimasto soltanto il clone del bell'artista utopista esistenzialista che ho conosciuto e di cui mi sono innamorata”.
Mentre glielo dice gli piomba addosso e l'abbraccia forte: sente quella quarta di seno che morbida s'appoggia sul suo petto; il profumo dei capelli; il sussultare di quel semi-pianto. Le sue interiora mandano segnali impazziti in tutto il corpo, la testa gli gira, le fauci sono secche: se ne sta così, a consolarla, a prometterle che cercherà di fare qualcosa, mentre parlando la sua mano destra aperta disegna dei cerchi sulla schiena di lei ancora ricurva.
Ce l'ha duro nonostante il suo volere e l’imbarazzo.
Si alza, s'asciuga le lacrime e per un paio di secondi lo perfora con uno sguardo che non riesce a tradurre razionalmente e che lo conduce nelle zone proibite che quel contatto avuto poc'anzi ( per lei era un amico; lui si sentiva una bestia libido-bavosa), gli aveva messo in circolo.
Devo avere un'espressione che rasenta la paranoia, si dice lui preoccupato.
Smette improvvisamente di guardarlo, le lacrime spariscono.
Lo bacia sulla guancia lasciandogli in eredità una traccia d'umido che vorrebbe leccare, ma non può.
Deve aiutarla e perciò le sorride amichevolmente senza allargare troppo la bocca.
Si piega e le dice all'orecchio, con una voce ridicola che vorrebbe essere suadente, che non si deve preoccupare e che ci proverà.
Lei si allontana e lo saluta dicendo di essergli in debito. S'alza sulle punte di quei piedi fatati e le sue labbra sfiorano la bocca di lui, come si salutavano vent'anni prima, quando erano giovani dentro e fuori.
Questo gli dà la misura di quanto tempo sia passato senza che se ne sia reso conto.
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