Oggi per la prima volta ho visto una persona leggere il mio libro.
Ero in autobus e presumo che anche lei lo fosse, perché appena partiti dalla fermata, lei era là, che camminava lentamente, con il libro in mano, assorta.
La prima reazione è stata di verificare che fosse proprio il mio: mi sono flesso sulle gambe, curvato un po' per cogliere la copertina, avendone la conferma. Cercavo anche di cogliere a che punto fosse; più o meno a che pagina, per dare a quella camminata lenta, a quella sospensione- che mi pareva di cogliere, o che forse ho solo forzatamente colto-, la giusta comprensione.
Ad un certo punto ho perfino pensato di scendere, di seguirla, di capire chi era, dove abitava, come si chiamava, darle un'identità, una storia; concreta e letteraria.
Ma ho desistito e sono rimasto al mio posto.
Ho pensato alla ristampa del libro, al suo formato elettronico- l'editore mi ha confermato che, nonostante tutto, procederà-.
Ho pensato alla condizione solitaria della scrittura e della lettura.
Ho pensato che scrivere un libro prevede condizioni e sentimenti epici: fatica, vanità, desiderio, isolamento, volontà, generosità, mestiere, verità.
Ho pensato che, a parte qualche stupenda eccezione, la maggior parte dei libri potrebbero essere non scritti, senza che questo provochi danni all'umanità.
Ho pensato anche, però, che un libro rappresenta un atto comunicativo che, se va bene, modifica un po' le nostre certezze, le idee, i convincimenti, gli orizzonti.
Ho pensato che se continuavo a pensare, alla prossima frenata sarei finito steso in mezzo al bus.
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