Davo
un'occhiata veloce, senza approfondire troppo ai post di Nori "il mondo è
pieno di gente che sta a casa". Stessa cosa con quelli di Mozzi
"ricordi d'infanzia". E aggiungo quello di Lagioia Su minima &
moralia. Per non parlare della martellante campagna di giornali e radio e
televisioni sulla crisi che ci sta stritolando. Se poi aggiungiamo che qui a
nord est, patria delle partite Iva, delle micro aziende, ecc., questa sta
facendo sfracelli, mi corre l'obbligo di parlare della mia estate senza vacanza.
Va
detto che soffro molto la mancanza di vacanza. Sin da bambino, fino ai
diciotto, sono sempre andato in montagna almeno due mesi all'anno. D'estate,
finita la scuola, si caricava la macchina- i miei ricordi ne fissano due in
particolare: una fiat 124, una citroen gs-, e si partiva, destinazione
altopiano di Piné, trentino. Gli ultimi anni, a dire il vero, ci si
era spostati in Cadore, provincia di Belluno. Non ricordo bene i particolari,
ma presumo sia stato a causa della morte di mio nonno materno, cui mia madre
era molto affezionata; a tal punto, aggiungo io, da non riuscire a tornare
nella stessa casa dove, per molti anni, avevamo passato un sesto della nostra
vita, per molte estati.
Scorrendo
i titoli in rete, si evince che sei famiglie su dieci non vanno in vacanza.
Ebbene, io appartengo statisticamente a questa maggioranza.
Per
diverse ragioni che provo a raccontare in breve.
La
prima, così banale, è la crisi. Questa crisi così
stronza, crudele, che sta lentamente rosicchiando la possibilità
di vivere, un po' alla volta, in modo che ci si possa abituare senza traumi
improvvisi. Smangia come una tarma il "potere d'acquisto", aumentando
tutto, fuorché lo stipendio, nel mio caso di dipendente pubblico.
Qui
avrei fatto esempi pratici prendendo in esame il prezzo demenziale della
benzina, ma ho cancellato.
La
crisi è dovuta a molti fattori, ed è
in gran parte inaccessibile al mio modesto sapere in materia. Non azzardo
teorie o discorsi di cui non ho competenza, ma sono sicuro di non poter essere
smentito se affermo che la crisi è dovuta alla spavalderia della finanza; la finanza
non esiste in termini concreti, ma solo fantasmatici: è
un'insulsa accozzaglia di teorie ad uso e consumo degli speculatori, che ha
evidentemente assunto dimensioni e importanza, oltre ogni immaginazione e
controllo.
Se
qualcuno può smentire senza esibire teorie troppo complicate,
gli sarei grato: sarei ben felice di esserlo, di farmi convincere che la
finanza è una cosa buona e giusta, o quantomeno necessaria, o
almeno accettabile. Vorrei mi si spiegasse perché dovrei accettare
l’idea che una scienza economica subisce sbalzi
umorali, perchè se si sa che ci sono degli speculatori, nomi e
cognomi, non li si può fermare. Vorrei capire perché,
se le cose stanno così, dobbiamo pagare noi. Saranno forse domande
ingenue, ma vorrei trovare risposte adeguate.
Di
fatto, senza perdercisi troppo tempo, correndo il concreto rischio di cadere,
causa manifesta incompetenza, chiudo qui questo capitoletto, riassumibile in
due concetti: tutto aumenta; tutto tranne i salari; se tutto aumenta, tranne i
salari, questi non potranno più star dietro agli aumenti.
Molte
persone, a causa di questo sillogismo o equazione elementare che dir si voglia,
consumano meno. Il minor consumo si ripercuote su chi produce e vende beni di
consumo, dai primari agli effimeri, creando di fatto una crisi generalizzata.
Questo
produrrà insoddisfazione, frustrazione, atteggiamenti
depressivi, favorirà scompensi umorali e psicologici, determinerà
infelicità concrete e consumistiche. Non si sa cosa succederà,
ma si teme che sia niente di buono
e positivo.
La
mia estate senza vacanze, dicevo. Devo però dirla tutta: mi sono venute in soccorso diverse
possibilità, che ho rifiutato.
Mi
erano state offerte ospitalità in compagnia, e anche di poter usare case di
persone che conosco. Ci sono delle ragioni intime, che preferisco non
raccontare qui, ora, e altre motivazioni più letterarie, di
cui invece vorrei dar brevemente conto.
Mi
rifaccio a due autori che ritengo molto bravi: Fante e Busi.
Per
entrambi, la vita è anche un'occasione per scriverne. Mi riferisco ad
esempio alla scena in cui il protagonista Arturo sta per essere travolto dalle
onde dell'oceano, e mentre sta per annegare, pensa a come descrivere la scena.
Oppure quando Busi racconta dell'immersione dello scrittore negli episodi più
pesanti e incresciosi, di come se ne possa lasciar travolgere, ma mai del
tutto, di come questi tenga sempre una parte di sé che ne è
testimone e ne scrive. E di come, poi, una volta che ne esce, ne scrive, e
ritorna in qualche misura alla dimensione virginale; perché
uno scrittore può affrontare qualsiasi cosa, ma finché
ne scrive, è sempre alla giusta distanza.
E io
voglio attraversare l'esperienza, anche se mi fa male, anche se mi fa pensare a
me, come a uno che non lo sapeva, ma conservava un rimasuglio piccolo borghese
di concezione di vacanza, come diritto naturale.
E
allora mi arrangio, frequento le spiagge libere, le sagre, i concerti gratuiti,
i cinema all'aperto di periferia con prezzi popolari e mi immergo in quella che
per molto tempo, stupido e ingenuo ignaro, guardavo come fenomeno di cui
scrivere, con cui lavoravo- lavoro in ambito sociale-, di cui non capivo quanto
mi appartenesse.
La
classe operaia un tempo andava in paradiso: ora pare che, in compagnia di
quella che un tempo era la classe media impiegatizia, i separati, i pensionati,
i precari, vada sempre più spesso alle
mense dei poveri.
E ne
scrivo, mi ispiro.
Stanotte
ho sognato che eravamo al mare con un amico che mi raccontava un episodio.
Era
andato in banca per discutere del suo scoperto. Il funzionario di banca, un
trentenne coi capelli lunghi ma non troppo, trentenne in salute, camicia col
collo rigidissimo, cravatta in tinta, scarpe nere scintillanti, vestito gessato
blu, lo redarguiva con educata cattiveria sulla sua scarsità
di risparmiatore, uomo, padre di famiglia. Gli parlava del suo rating
personale- ogni banca ne ha uno per ogni suo cliente, che sale in affidabilità,
tanto quanto lo stesso paga i suoi debiti: se uno non ha mai avuto debiti
rimane nel limbo degli innominati-, e gli diceva che era alto, che lui era un
bravo servo della gleba perché tutto sommato comprava a rate le pagava, e appena
finito di pagarle, comprava subito qualcos’altro.
La
situazione era davvero imbarazzante per entrambi. Avevano finito a fatica, e
lui era uscito con un forte senso di nausea, di impotenza, di rabbia.
Mi
raccontava il tutto con fatica, ma col bisogno di sfogarsi, di dire che non ce
la faceva più.
Gli
proponevo allora un bagno ristoratore, una bella nuotata al largo, lontani da
sto brusio, da sto caldo, da sti pensieri soffocanti.
Ad
un certo punto, mentre stavamo caaminando per acclimatarci, vediamo di spale un
uomo molto alto, magrissimo, che giocava con un bambino. Faceva davvero
impressione, sembrava essere senza massa muscolare. Ad un certo punto si volta
e il mio amico traballa. Lo saluta e passa oltre. Con bracciate vigorose
raggiunge il largo. Quando a fatica lo raggiungo, vedo che sta piangendo: era l’impiegato
della banca, mi dice nascondendo gli occhi rossi.
Il sogno
si concludeva poco dopo, senza alcun dialogo aggiuntivo: quella era l’ultima
frase.
Al risveglio
ho pensato che la crisi che temo di più, è quella dell’ispirazione creativa.
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