domenica prossima i super market nord est ed Elena, tornano in scena in occasione della presentazione del libro di Alice Banfi "sottovuoto". posto indirizzo, data, ora e testo che ho scritto per l'occasione.
San Donà di Piave, domenica 1 aprile alle ore 18.00, nell’auditorium del Centro delle
Associazioni, via Svezia 2
Quando
abbiamo formato il gruppo, pensato alla trasmissione “spifferi”, eravamo
partiti da uno slogan un po’ pomposo, un po’ retorico, pretenzioso: “dare un
senso alla vita”: come se la domanda che ci portiamo dentro, a cui non sappiamo
rispondere, quel “chi sono io?” che da millenni ci tormenta, non esistesse. Ma
eravamo un gruppo di adulti frastornati da una serie di suicidi di giovani
ragazzi e pensavamo di assumerci la responsabilità di non essere tra quelli che
si girano dall’altra parte, che fan finta di non vedere; volevamo poter
ammettere che non riuscivamo a capire.
E
allora abbiamo pensato che l’unico approccio fosse quello di provare a
interagire coi giovani, chiedere a loro quali domande avessero, cosa avrebbero
voluto, desiderato, che fosse magari appena un po’ più in là delle apparenze,
così forti e stringenti in occidente, e in particolare in quella immensa
provincia diffusa che è il nord est.
Io
non conosco Alice, o meglio, l’ho incontrata di sfuggita al festival dei matti
di Venezia. Non la conosco, ma l’ho conosciuta leggendo i suoi due testi che
raccontano parte della sua vita.
Il
libro in forma di diario può essere una rivoluzione: lo è se, come nel suo
caso, racconta quel che è senza filtri, omissioni, giri di parole. Lo è quando
smaschera la realtà: a maggior ragione e con struggente forza, quando questa è
il prodotto di cattive abitudini, protratte più per convenzione che per
convincimento.
Leggendo
i suoi libri non si diventa più colti o più saputi: si esplora un universo
oscuro, un abisso che sembra non avere una dimensione: ci si avvicina
all’insopportabilità.
La
libertà di scrivere quello che si pensa, che si ricorda, che si è vissuto,
senza freni, senza pudore di circostanza o di maniera: siamo in grado di accettare
tutto, finanche le più squallide bugie, tranne la versione precisa di un
resoconto, che riguarda i servizi che ci dovrebbero accogliere in determinati
momenti di fragilità.
Alice
invece ci racconta una realtà mostruosa, lontana da tutto quello che crediamo
sia la vita per come noi ce la rappresentiamo: lei si è flagellata la carne con
le lamette, gli organi interni con ogni tipo di veleno, pur di sparire, di
allontanarsi da un dolore che scoppia e da cui fuggire, superandolo: sembra
pensare che se un nuovo dolore è abbastanza forte, coprirà l’altro, divenuto
ormai insopportabile. Ma ci ricorda anche che non si può fuggire da sé; al
massimo conviverci, abituarcisi.
Bisognerebbe
leggere Alice, starle accanto, ascoltare, dirsi che non si hanno sempre risposte
pronte, e che chi predica facili soluzioni, lo fa in malafede, o in ignoranza,
o per la paura dei propri limiti.
Alice
ci racconta il suo dolore non celandolo, offrendolo nudo e osceno, eppure così
vero, così autentico, da diventare riconoscibile, quasi affrontabile. E ci dice
che il sistema, e cioè nel caso della sofferenza mentale, la psichiatria, dà
spesso risposte stereotipate, seriali: a tale sintomo, tale trattamento. Ma
dimentica troppo spesso che dietro al sintomo c’è una persona, e spesso, che si
tratta di una persona sofferente.
Alice
ci racconta di lamette che strappano la pelle, di cibo divorato e poi vomitato,
di provocazioni al limite della sopportazione, alzando sempre più il tiro,
buttandoci addosso la sua angoscia, il suo male, senza spiegarceli. L’unica
consolazione a questi suoi gesti estremi, sono sì le terapie, ma soprattutto le
persone: quelle che ti ascoltano, che ti guardano, e stanno là con te perché
hanno capito che in certi casi, solo così si può; se non risolvere, almeno condividere.
Non
vorrei però che questo fosse scambiato per catechismo o ingenuità: sono
vent’anni che faccio l’operatore sociale, e mentre leggevo mi chiedevo se sarei
riuscito a sopportarla una persona come lei. Ma poi capivo che quello era solo
un movimento di superficie, di difesa: la domanda che Alice mi muoveva era
un’altra, e cioè se riesco a non nascondermi dietro al potere che ho nei
confronti delle persone con cui lavoro; se sono in grado di guardarmi dentro e
dirmi che, poco o tanto che sia, sono sempre capace di dare quello che posso in
quel momento; se so accettare l’impotenza e se ho il coraggio di dichiararla a
chi si aspetta da me un qualche sapere, una soluzione, un alleggerimento della
pesantezza che la schiaccia.
Credo
che Alice chieda solo onestà, autenticità, talvolta un abbraccio, oltre alla
certezza, indispensabile, di avere vicino uno che sa fare il suo mestiere.
E
concluderei aggiungendo poche altre brevi suggestioni.
La
mia vita è stata a lungo un continuo sbandamento alla ricerca di qualcosa che
sentivo mi mancava. Ho avuto la fortuna di scavare fino a consumarmi le unghie:
certo, in modo diverso e molto meno doloroso di Alice, ma credo di capirla.
Una
delle forme di autolesionismo, magari non palese ed evidente come quello di
Alice, consiste nella distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo
essere, o ancor peggio per come pensiamo gli altri ci vorrebbero.
La
vita ha certamente risvolti dolorosi, ma anche stupende meraviglie: se si
capisce che stare male o stare bene è comunque transitorio, impermanente,
allora si è capaci di vivere.
Io
l’ho capito forse tardi, ma non è mai tardi in realtà: bisogna accettare tutto,
e solo così facendo, la vita prende nuovi colori e assume nuove forme. Ma non
vorrei essere frainteso: per accettazione non intendo dire che si debba essere
passivi, subire soprusi, non cercare giustizia o non cercare di cambiare quello
che non va.
No,
non intendo proprio questo: intendo il non rifiutare, non eludere, non
nascondersi. Intendo l’accettazione di quello che si è.
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