Ieri
sera mentre passeggiavo con cagnona e guardavo il bellissimo cielo
pieno di stelle, sentivo che la parte di me fuori dal controllo delle
mie sentinelle, pensava a Dalla, e la parte razionale giudicava quei
pensieri retorici, scontati, piagnoni.
Pensavo
esattamente, con la vaghezza di chi non tiene sotto controllo, che
chi ha scritto canzoni come le sue, doveva per forza essere uno che
vede e sente quel che guarda.
Chiunque
abbia a che fare con una qualsiasi forma espressiva artistica, sa che
ci sono dei rari momenti buoni, che si devono cogliere, abbracciare,
tradurre. Così come succede con la vita di tutti i giorni, dove le
abitudini, la noia, l'obbligo, la formalità, convivono con momenti
di straripante felicità, con gli insight, con parentesi decisive
all'ispirazione.
Ebbene,
lo spettacolo di un cielo notturno strapieno di stelle, può essere
uno di quei momenti. Lo possono essere anche molti altri, non
necessariamente belli o classicamente evocativi: l'importante è
avere uno sguardo, un posto dove mettere quel che vede, la fortuna di
avere il talento di trasformarlo in qualcosa che può essere
comunicato.
Il
ricordo più forte legato a Dalla, riguarda il periodo in cui vivevo
in Germania, a Colonia, dove ho lavorato un breve periodo in una
gelateria. Eravamo io e una coppia stramba, nella loro auto
coattissima: lei era una ragazza di Milano, minuta, nervosa, tutta a
scatti, capace di voler bene all'infinito, se ti aveva scelto; il
moroso era della provincia di Treviso, alto, dinoccolato, incapace di
esprimere a parole l'oceano di sentimenti che lo abitava. La sera,
ogni tanto, quando non eravamo stroncati dalle ore di lavoro,
andavamo in centro città e ascoltavamo, dall'impianto ipertrofico
dell'auto, “Washington”, in versione live, e lo cantavamo fino a
bruciarci le corde vocali, ubriachi di nostalgia, felicità,
tristezza, gioventù.
Ha
scritto una quantità incredibile di bellissime canzoni, ma questa mi
strappa il cuore più di tutte.
Nessun commento:
Posta un commento