Arrivo
alla stazione col treno dei pendolari.
A
Mestre sale e si siede di fronte a me una ragazza che viene da un
campo rom, credo. Sopra l’occhio sinistro ha un grande e vistoso
cerotto.
Le
mani, sporche, si toccano nervose.
È
seduta da sola. Estrae un cellulare, cerca in rubrica un nome,
chiama, nessuno risponde. Rinuncia e continua a muovere le mani
nervosamente per tutto il viaggio.
Età
indefinita, ma giovane, sotto i trenta; forse di tanto, anche.
Il
Ponte degli Scalzi pare un bazar: si vendono borse, occhiali da sole,
venduti da africani, e palle colorate che si spappolano su pezzi di
cartone, dei bengalesi.
M’avvio
verso S.Polo girando a destra.
Dopo
il ponte che collega p.le Roma ai giardini Papadopoli, come ogni
giorno, c’è una che chiede la carità in posa genuflessa. Sembra
una zeta “Z”: le braccia dritte come sulla zeta, con il piattino
sulle mani.
Ponte, a sinistra, lascio l’IUAV sulla destra,
sottoportico, passato il quale, un altro mendicante, di quelli
seduti, stavolta.
Proseguo
diritto, faccio il ponte, cammino, giro a destra, poi a sinistra.
Proprio all’altezza della piccola fontanella, sulla sinistra, una
vecchia di quelle col santino sul piattino.
Trenta
metri più avanti, la Scuola Grande di S. Rocco, bianca di marmo
perlaceo. Sul campo adiacente hanno messo dei tendoni rossi,
facendone una sorta di galleria temporanea. Sotto, seduti sui gradini
della scuola e della chiesa, un pubblico eterogeneo di turisti
ascolta, incantato dalla magia del posto, una cantante di strada che
improvvisa un’aria tratta da un’opera lirica: base musicale,
microfono e in-canto.
Sui
gradini della chiesa una ragazza vende delle foto bellissime
dialogando in inglese con altri turisti.
Sempre
là, proprio in mezzo al passaggio dei pedoni, un tavolo di una onlus
e un ragazzo e una ragazza che invitano i passanti a firmare e a
lasciar loro un obolo.
Proseguo,
giro a sinistra, passo davanti alla chiesa dei Frari dove c’è una
vecchia col piattino tutta piegata a destra; sembra immobile in
quella posa innaturale. Una turista di colore lascia qualche moneta.
La
chiesa è immensa, immobile, eretta. Da dentro esce un suono
d’organo.
Continuo
fino ad arrivare a S. Polo. Qui trovo un gruppo di musicanti che si
esibisce con fisarmonica, chitarra, violino. Sono bravi, musicisti
veri, penso.
Prendo
una calletta dove son sicuro di non incontrare turisti ma, a S.
Croce, ai piedi di un ponte di cui non ricordo il nome, chiede carità
una giovane cui manca l’occhio sinistro. Al suo posto, una levigata
cicatrice e il nulla: sulla destra, l’altro occhio rotea vivo. E’
quella del treno.
Alla
sera piove.
Tra
le calli, silenzio.
Sull’ombrello
lo scroscio picchietta a ritmo afrocubano.
Piscine
ovunque, pantaloni bagnati fino alle ginocchia.
Ma
chissenefrega, penso: è marzo, un po’ di bagnato non farà poi
così male.
Sorrido
a chiunque, per strada, e sono contraccambiato.
C’è
un’allegria senza ragione, un buio dolce.
In
stazione tutti ad attendere il proprio treno, al riparo
dell'imponente tettoia squadrata dall'evidente stile fascista. Decine
di persone rendono viva e dinamica, come fosse un organismo, quella
tettoia in cemento, con il loro andirivieni, con gli sguardi
vagamente ansiosi rivolti al tabellone degli orari.
Arriva
il mio treno, appena in ritardo, al binario quattordici.
Tra
quaranta minuti sono a casa.
Tra
i passeggeri umidi, noto anche lei, quella col cerotto.
Anche
per oggi, penso, abbiamo finito di lavorare.
Cristiano
prakash dorigo
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