Alla
stazione quanta gente.
E’
pienissimo, stracolmo.
Saluto
Gianna che torna a casa sua, a Bologna.
E’
tardi, fa buio.
Sulle pensiline è chiaro di luci da stazione.
Sul bordo, do un ultimo bacio a Gianna. L’abbraccio anche,
spazzolando la sua schiena con il palmo; come a sottolineare che anche quando
sarà partita, un po’ di me sarà con lei, un po’ di lei sarà con me. Il
prosieguo di un momento che è finito nell’istante in cui il suo piede sinistro
è partito per incontrare il gradino della carrozza.
Guardo
il treno partire. Il suolo trema, il rumore assorda.
Di fronte a me un sacco di
gente di ogni genere, per la maggior parte giovani vestiti da notte e reietti
vestiti da culo.
Vedo
il culo del treno fino a che, un paio di curve dopo il rettilineo preciso dei
binari, scompare. Penso all’allegoria della scomparsa mentre scendo i gradini e
m’avvio verso il sottopassaggio.
Giro
a sinistra, verso Marghera. Delle due possibilità, ho scelto quella con meno
gente, meno finta allegria, più periferica e desolata.
Cammino
solo in quella direzione mentre qualche altro passante, chi saltando, giullare,
per stupire la compagnia, chi abbraccia stretto il suo amore, s’avvia in
direzione contraria.
Salgo
i gradini e sbuco in via Ulloa.
Appena
giunto in zona marciapiede esce dal buio frammentato dai lampioni un ragazzo.
Ha il cappuccio del piumino di nailon modello caritas sopra la testa e mi
chiede, con accento arabo-veneto, se:
- “hai due euro per telefonare, amico!”
- “ no, magari: non ho moneta, mi spiace”
- “ io fame. Io freddo”
- “mi spiace, davvero”
- “fanculo”
Mi
stringo nel cappotto. Forse merito quel fanculo ma, anche oggi, in giro con
Gianna e gli altri a Venezia, ne avrò incrociati almeno una quindicina. Si
dice siano bande organizzate che
si spartiscono il territorio. Abitanti e studenti ci hanno fatto ormai il
callo; i turisti, invece, sganciano.
Non posso far niente per loro: riesco a malapena a elaborare motivazioni decenti per me, per dar colore a una vita grigio asfalto.
Prendo
l’angolo a sinistra e in fondo alla via vedo cinque ragazzoni africani da un
metro e novanta. Avanzano dinoccolati e parlano la loro lingua gutturale,
profonda. E ridono,
come fanno sempre; anche quando, anche loro piccolo esercito, attendono con ansia
poliziotti e vigili, mentre tentano di vendere borsette finto fashion alle
turiste che fiutano l’affare: portare finte Gucci che sembrano vere per pochi
euro, wow!!
Siamo
solo io e loro.
Ci
incrociamo.
Io
guardo il marciapiede e sorrido.
Loro
nemmeno mi vedono.
Non
posso impedirmi di percepire un’agitazione sottile, contraria ai miei pensieri,
ai miei principi, alle mie idee. E se fossi una ragazza, come mi sarei sentita?
Avrei percepito pericolo, panico, terrore, o indifferente abitudine?
Mancano
trenta metri alla macchina e sento dei passi dietro. Dapprima sono cammino, poi
passo veloce, trotto, sempre più veloci fino a diventare corsa. Sono almeno
otto dieci piedi che sbattono sull’asfalto.
Sento
dei pneumatici stridere e un rumore di frenata.
Delle
urla sottovoce e delle voci che intimano a queste di stare ferme e non
muoversi.
Poi
avanzo mentre l’azzurro intermittente colora la notte nera.
Ecco
l’auto.
Infilo
la chiave mentre due, sui cinquanta, con le loro facce dell’est e i fagotti in
plastica, scavalcano un cancello e guadagnano una villetta anni cinquanta
evidentemente chiusa e abbandonata.
Salgo
in macchina, appoggio lo zaino e chiudo subito le sicure che non si sa mai.
Giro
la chiave, le luci dell’abitacolo sfumano, il climatizzatore sussurra mentre
Chet Baker soffia sulla sua tromba.
Gianna
starà leggendo sul treno; o forse starà gustando il sapore della giornata.
Io
parto, i fari fendono il buio.
I
pensieri seguono il sussurro disperato della tromba.
Cristiano
prakash dorigo
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