lunedì 27 febbraio 2012

sottopassi


Alla stazione quanta gente.
E’ pienissimo, stracolmo.
Saluto Gianna che torna a casa sua, a Bologna.
E’ tardi, fa buio.
Sulle pensiline è chiaro di luci da stazione.
Sul bordo, do un ultimo bacio a Gianna. L’abbraccio anche, spazzolando la sua schiena con il palmo; come a sottolineare che anche quando sarà partita, un po’ di me sarà con lei, un po’ di lei sarà con me. Il prosieguo di un momento che è finito nell’istante in cui il suo piede sinistro è partito per incontrare il gradino della carrozza.
Guardo il treno partire. Il suolo trema, il rumore assorda. 
Di fronte a me un sacco di gente di ogni genere, per la maggior parte giovani vestiti da notte e reietti vestiti da culo.
Vedo il culo del treno fino a che, un paio di curve dopo il rettilineo preciso dei binari, scompare. Penso all’allegoria della scomparsa mentre scendo i gradini e m’avvio verso il sottopassaggio.
Giro a sinistra, verso Marghera. Delle due possibilità, ho scelto quella con meno gente, meno finta allegria, più periferica e desolata.
Cammino solo in quella direzione mentre qualche altro passante, chi saltando, giullare, per stupire la compagnia, chi abbraccia stretto il suo amore, s’avvia in direzione contraria.
Salgo i gradini e sbuco in via Ulloa.
Appena giunto in zona marciapiede esce dal buio frammentato dai lampioni un ragazzo. Ha il cappuccio del piumino di nailon modello caritas sopra la testa e mi chiede, con accento arabo-veneto, se:
      - “hai due euro per telefonare, amico!”
      - “ no, magari: non ho moneta, mi spiace”
-       “ io fame. Io freddo”
-       “mi spiace, davvero”
-       “fanculo”
Mi stringo nel cappotto. Forse merito quel fanculo ma, anche oggi, in giro con Gianna e gli altri a Venezia, ne avrò incrociati almeno una quindicina. Si dice  siano bande organizzate che si spartiscono il territorio. Abitanti e studenti ci hanno fatto ormai il callo; i turisti, invece, sganciano.
Non posso far niente per loro: riesco a malapena a elaborare motivazioni decenti per me, per dar colore a una vita grigio asfalto.
Prendo l’angolo a sinistra e in fondo alla via vedo cinque ragazzoni africani da un metro e novanta. Avanzano dinoccolati e parlano la loro lingua gutturale, profonda. E ridono, 
come fanno sempre; anche quando, anche loro piccolo esercito, attendono con ansia poliziotti e vigili, mentre tentano di vendere borsette finto fashion alle turiste che fiutano l’affare: portare finte Gucci che sembrano vere per pochi euro, wow!!
Siamo solo io e loro.
Ci incrociamo.
Io guardo il marciapiede e sorrido.
Loro nemmeno mi vedono.
Non posso impedirmi di percepire un’agitazione sottile, contraria ai miei pensieri, ai miei principi, alle mie idee. E se fossi una ragazza, come mi sarei sentita? Avrei percepito pericolo, panico, terrore, o indifferente abitudine?
Mancano trenta metri alla macchina e sento dei passi dietro. Dapprima sono cammino, poi passo veloce, trotto, sempre più veloci fino a diventare corsa. Sono almeno otto dieci piedi che sbattono sull’asfalto.
Sento dei pneumatici stridere e un rumore di frenata.
Delle urla sottovoce e delle voci che intimano a queste di stare ferme e non muoversi.
Poi avanzo mentre l’azzurro intermittente colora la notte nera.
Ecco l’auto.
Infilo la chiave mentre due, sui cinquanta, con le loro facce dell’est e i fagotti in plastica, scavalcano un cancello e guadagnano una villetta anni cinquanta evidentemente chiusa e abbandonata.
Salgo in macchina, appoggio lo zaino e chiudo subito le sicure che non si sa mai.
Giro la chiave, le luci dell’abitacolo sfumano, il climatizzatore sussurra mentre Chet Baker soffia sulla sua tromba.
Gianna starà leggendo sul treno; o forse starà gustando il sapore della giornata.
Io parto, i fari fendono il buio.
I pensieri seguono il sussurro disperato della tromba.

Cristiano prakash dorigo 

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