Davanti
al mare, seduto, tardo pomeriggio.
Sto in
piedi e guardo e ascolto.
Sembra
tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo.
Sto
così un minuto, cinque, dieci.
Poi mi
siedo, decido.
Rilasso
le spalle, che mi accorgo essere tese.
In
posizione a gambe incrociate, rilassando il più possibile i muscoli.
Che
non è che si rilassino il più possibile; basta non tenderli.
Seduto
così a gambe incrociate, m’accorgo di non essermi messo comodo
prima perché pensavo agli altri; a cosa avrebbero potuto pensare di
me.
Di
quest’uomo-ragazzo che viene in spiaggia con la figlia e che legge,
sta spesso in silenzio, non socializza come gli altri.
Che ha
perduto da poco persone importanti che non vivono più.
“che
stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?”
“sto
nullando, sto nientendo”, risponderei loro.
“e
dovreste provarci, qualche volta”, aggiungerei.
“sapeste
quanto sia ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di
onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente
eppure mesta, disinteressata all’esibizione”, direi, se avessi
voglia di parlare.
E
invece taccio.
E
ristoro la mente, quieto i pensieri, smusso gli angoli, tradisco la
fretta, aborrisco l’inutilità, sposo e bacio e lecco l’essenza.
Poi
m’alzo.
Lo
faccio quando m’accorgo che quella gioia sta per diventare posa.
Quando
l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire diventa orgoglio.
L’ego
non dà tregua.
E mi
riporta al sonno delle abitudini.
Sono
stato bene con me.
Quando
mi sono dimenticato di me, e sono stato.
Ritorno
con calma verso un gruppo di conoscenti e chiedo se han bisogno
d’aiuto, per riportare alla base, “la capanna” – che
spiegherò cos’è, per chi non è mai stato al Lido di Venezia, un
giorno -, le molte cose che avevano trascinato in riva al mare.
Mi
volto per un ultimo sguardo verso il mare.
Ma
vedo solo sabbia e acqua.
cristiano
prakash dorigo
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