…Ho ritrovato l’eternità: è il sole in comunione
con il mare…
…Non serve dare risposte, ma spronare gli uomini
alla ricerca della verità…
Per
arrivare allo studio di Pino, che è anche la sua casa, ci si deve addentrare
tra le calli di Cannaregio, rischiando di perdersi. Si trova il civico, si
suona il campanello, lui scende ad aprire il portoncino; si salgono le scale e
si accede al sottotetto dove vive, medita, dipinge. Ci si trova di fronte ad
una sorta di caotica quiete, come se non si potesse far altro che convivere con
entrambe. Si inizia a chiacchierare, a guardare le opere, raccontarle senza
spiegarle, perché non si può verbalizzare la sacralità del gesto pittorico, e
non si possono usare parole che includano l’immaginifica immersione nel quadro,
che è un insieme di gesti interiori che non dicono, ma si limitano a mostrare
l’inconosciuto onirico, anziché l’intenzione.
Quando
si guardano le opere di Pino D’ambrosio si convive da subito con sentimenti
contrastanti: si prova repulsione e attrazione, ci si vorrebbe allontanare
perché ci si sente avvolti, partecipi, perduti.
La
chiave di lettura è la contraddizione che si vive, anche soltanto vivendo;
quando si pensa al mistero, all’abisso, alla spinta vitale, alla forza che
diventa fragilità e accettazione dell’incomprensibile.
Quando
si guardano i volti stilizzati, gli occhi enormi che non guardano ma sembrano
vedere quello che c’è, ma non si vede. E cosa vede un artista quando guarda il
mondo, lo scorrere della vita, la sua perfezione difettosa, i meccanismi della
meccanica delle abitudini, dei riti, degli equilibri che oscillano di qua- nel
tempo finito-, e di là, nell’infinito?
Parlando
con lui, confidandosi le reciproche ossessioni, le convinzioni sulla centralità
dell’essere umano, del suo essere necessario, e al tempo stesso inutile, del
suo confrontarsi con un’eternità frettolosa, costretta da bisogni leggeri
eppure fondamentali, dall’essere disposti a tutto, per trasformare il nulla in
culla su cui trovare riposo.
La
mente, allora, per inerzia, usa parole casuali, buttate nella mischia confusa
delle nostre esistenze segnate da un destino tremendamente banale, scarnificate
da trascendenze terrene.
Si
guardano i nasi, triangoli sconnessi, linee che si incontrano e proseguono fino
a definire una funzione estetica doverosa, sacrificata alla forma per
necessità; eppure, al contempo, se ne nota la disposizione asimmetrica, la
volontà di mostrarli simili ma unici. Si pensa allora alla memoria percettiva
dell’olfatto, che s’incista nel profondo, che aspetta che ritroviamo
similitudini, per farci notare le differenze. I profumi, gli odori, sono la
memoria, volti, occasioni, avvenimenti. E loro ci sono, sotto quegli occhi
giganti che occupano lo spazio superiore, a ricordarci che i sensi che
volteggiano all’interno, sono serviti e continuamente sollecitati dagli organi
esterni.
E
le bocche, usate per nutrirci e per parlare, sono sempre chiuse, immobili, in
attesa. Non hanno parole che possano esprimere l’inesprimibile, quasi
appartenessero ad un oltre, o si vedessero allo specchio e pensassero che il
silenzio, è a suo agio col mistero impenetrabile dell’esistenza, dell’eternità.
C’è
uno stile riconoscibile, un marchio, un tratto, scarno, essenziale, naif.
Pare
esserci un potente bisogno comunicativo, un messaggio che non si compone di
parole, ma di segni, di immagini nette, e al contempo simboliche.
Insomma,
il gioco è volutamente velato, volontariamente semplificato, perché l’abisso,
la redenzione, l’attualità, l’eternità non sono simboli, parole, che si possano
contemplare e comprendere di fretta, in velocità: non si accontentano della
tragica vittoria dell’apparenza, ma richiedono uno sforzo cognitivo, ma soprattutto
emotivo.
Il
confine tra ciò che è e ciò che pare che sia, va attraversato, va vissuto, va
sentito.
E
non si parli di colori, di potenza estetica: troppo facile, semplice, come
brutalizzare la complessità, banalizzandola.
Ci
si fermi piuttosto, e si stia davanti all’opera immobili, silenti, ascoltando i
tumulti interiori, le accelerazioni, l’estasi.
Ci
si faccia coraggio, ci si abbandoni all’apocalisse del gesto artistico,
all’ascesi del messaggio religioso e mistico che la vita ci offre.
Ultraterreno,
angeli, volti, braccia, alberi, uccelli, colorano e presenziano in paesaggi
paradossali, mescolando scene quotidiane, senza sorprese, ad altre
stratificate, multiformi.
Perché
la verità, il suo nucleo centrale, è nascosto, e vi si accede, forse, soltanto
dopo aver immaginato, aver perduto, aver ceduto, aver creduto, aver subìto. E
ogni volta, non è mai definitiva.
Ci
sono messaggi da decodificare, visioni da vedere, simboli da svelare.
Ci
sono tanti mondi, tanti significati, tante interpretazioni. Ma non sarà il
borbottare della mente a rivelarci perché siamo qui.
Sarà
forse l’abbandono, l’ascolto, la visione.
Sarà
forse uno sguardo innocente, che non attribuisce senso, ma che accetta quel che
è.
Sarà
forse che l’eternità è qui, ora, con noi, in noi.
Sarà
forse che l’artista, lo ha sempre saputo.
Cristiano
Prakash Dorigo
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