venerdì 24 febbraio 2012

prefazione catalogo dell'amico Pino D'Ambrosio


…Ho ritrovato l’eternità: è il sole in comunione con il mare
…Non serve dare risposte, ma spronare gli uomini alla ricerca della verità

Per arrivare allo studio di Pino, che è anche la sua casa, ci si deve addentrare tra le calli di Cannaregio, rischiando di perdersi. Si trova il civico, si suona il campanello, lui scende ad aprire il portoncino; si salgono le scale e si accede al sottotetto dove vive, medita, dipinge. Ci si trova di fronte ad una sorta di caotica quiete, come se non si potesse far altro che convivere con entrambe. Si inizia a chiacchierare, a guardare le opere, raccontarle senza spiegarle, perché non si può verbalizzare la sacralità del gesto pittorico, e non si possono usare parole che includano l’immaginifica immersione nel quadro, che è un insieme di gesti interiori che non dicono, ma si limitano a mostrare l’inconosciuto onirico, anziché l’intenzione. 
Quando si guardano le opere di Pino D’ambrosio si convive da subito con sentimenti contrastanti: si prova repulsione e attrazione, ci si vorrebbe allontanare perché ci si sente avvolti, partecipi, perduti.
La chiave di lettura è la contraddizione che si vive, anche soltanto vivendo; quando si pensa al mistero, all’abisso, alla spinta vitale, alla forza che diventa fragilità e accettazione dell’incomprensibile.
Quando si guardano i volti stilizzati, gli occhi enormi che non guardano ma sembrano vedere quello che c’è, ma non si vede. E cosa vede un artista quando guarda il mondo, lo scorrere della vita, la sua perfezione difettosa, i meccanismi della meccanica delle abitudini, dei riti, degli equilibri che oscillano di qua- nel tempo finito-, e di là, nell’infinito?
Parlando con lui, confidandosi le reciproche ossessioni, le convinzioni sulla centralità dell’essere umano, del suo essere necessario, e al tempo stesso inutile, del suo confrontarsi con un’eternità frettolosa, costretta da bisogni leggeri eppure fondamentali, dall’essere disposti a tutto, per trasformare il nulla in culla su cui trovare riposo.
La mente, allora, per inerzia, usa parole casuali, buttate nella mischia confusa delle nostre esistenze segnate da un destino tremendamente banale, scarnificate da trascendenze terrene.
Si guardano i nasi, triangoli sconnessi, linee che si incontrano e proseguono fino a definire una funzione estetica doverosa, sacrificata alla forma per necessità; eppure, al contempo, se ne nota la disposizione asimmetrica, la volontà di mostrarli simili ma unici. Si pensa allora alla memoria percettiva dell’olfatto, che s’incista nel profondo, che aspetta che ritroviamo similitudini, per farci notare le differenze. I profumi, gli odori, sono la memoria, volti, occasioni, avvenimenti. E loro ci sono, sotto quegli occhi giganti che occupano lo spazio superiore, a ricordarci che i sensi che volteggiano all’interno, sono serviti e continuamente sollecitati dagli organi esterni.
E le bocche, usate per nutrirci e per parlare, sono sempre chiuse, immobili, in attesa. Non hanno parole che possano esprimere l’inesprimibile, quasi appartenessero ad un oltre, o si vedessero allo specchio e pensassero che il silenzio, è a suo agio col mistero impenetrabile dell’esistenza, dell’eternità.
C’è uno stile riconoscibile, un marchio, un tratto, scarno, essenziale, naif.
Pare esserci un potente bisogno comunicativo, un messaggio che non si compone di parole, ma di segni, di immagini nette, e al contempo simboliche.  
Insomma, il gioco è volutamente velato, volontariamente semplificato, perché l’abisso, la redenzione, l’attualità, l’eternità non sono simboli, parole, che si possano contemplare e comprendere di fretta, in velocità: non si accontentano della tragica vittoria dell’apparenza, ma richiedono uno sforzo cognitivo, ma soprattutto emotivo.
Il confine tra ciò che è e ciò che pare che sia, va attraversato, va vissuto, va sentito.
E non si parli di colori, di potenza estetica: troppo facile, semplice, come brutalizzare la complessità, banalizzandola.
Ci si fermi piuttosto, e si stia davanti all’opera immobili, silenti, ascoltando i tumulti interiori, le accelerazioni, l’estasi.
Ci si faccia coraggio, ci si abbandoni all’apocalisse del gesto artistico, all’ascesi del messaggio religioso e mistico che la vita ci offre.
Ultraterreno, angeli, volti, braccia, alberi, uccelli, colorano e presenziano in paesaggi paradossali, mescolando scene quotidiane, senza sorprese, ad altre stratificate, multiformi.
Perché la verità, il suo nucleo centrale, è nascosto, e vi si accede, forse, soltanto dopo aver immaginato, aver perduto, aver ceduto, aver creduto, aver subìto. E ogni volta, non è mai definitiva. 
Ci sono messaggi da decodificare, visioni da vedere, simboli da svelare.
Ci sono tanti mondi, tanti significati, tante interpretazioni. Ma non sarà il borbottare della mente a rivelarci perché siamo qui.
Sarà forse l’abbandono, l’ascolto, la visione.
Sarà forse uno sguardo innocente, che non attribuisce senso, ma che accetta quel che è.
Sarà forse che l’eternità è qui, ora, con noi, in noi.
Sarà forse che l’artista, lo ha sempre saputo.

Cristiano Prakash Dorigo

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