Mercoledì.
È
passato carnevale.
Ieri
era la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.
Per
terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, bottiglie rotte, vomito.
Venezia
è morta da tanto, e vive solo grazie alla decadente bellezza dei ricordi
immortali, a cui non si può non perdonare tutto. Anche la volontà politica di
una svendita ignobile. Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi
mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, universitari protempore, poca
gioventù, soggiogata dall’isolamento.
Uno
sguardo attento a vedere, senza pensieri che ottundono la semplice verità, e
confondono ciò che è, con ciò che io credo che sia.
La
strada straripa di donne e uomini ridotti allo status di turista, sviliti dalla
sagacia immorale di commercianti
di souvenir della vuota nostalgia meretricia.
Maschere,
vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina
tradizionale, cinese, araba.
Cammino
zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.
Rido
e canto canzoni finte che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono
alcun suono, ma che limitano l’invadenza di quel parlare idiomi incomprensibili
dai toni stanchi.
Cinesi
avanzano a grumi e si distinguono per questo rimanere compatti, e per i vestiti
di chi latita dalla fantasia.
Giapponesi
a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e
vestiti da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano cartoni
animati da bambini che lanciano urletti isterici e sostituiscono in senso
onomatopeico il nulla del loro non ragionare. Non guardano mai negli occhi.
Americani
si distinguono tra obesi e muscolosi iper tonici. Arrotondano le parole con dei
versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti,
sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice alla pedante complessità.
Sono evidentemente quel che sembrano e il mondo li guarda sconcertati.
Bengalesi
pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.
Inglesi
pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata dai più giovani che non
nascondono una disperazione penetrata fin dentro le ossa. Sanno di pioggia,
cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro
uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.
Tedeschi
a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e
affidabile.
Francesi
che sembrano italiani con l’erre moscia, con la stronzaggine intrinseca di chi
passeggia in centro.
Spagnoli
che sembrano italiani che se ne fregano di essere sempre e comunque vestiti
alla moda e parlano ancora ad alta voce e ridono.
Olandesi
biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro
altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.
Coreani
che sorridono, e che sono in modo evidente la prossima modernità.
Ai
lati, neri robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra
loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.
Altri
vendono altro.
Zingari
rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.
Veneziani
vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti commissionati in
Cina e Vietnam.
Io
sono il mondo, anche.
Il
primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.
Contengo
tutti i mondi, in scala gerarchica.
Mondi
che coesistono detestandosi, scaricando sull’amministratore di condominio
l’onere di tante contraddizioni.
Tutti
hanno le stesse scarpe da ginnastica. Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni
di scarpe. Altri i sandali.
Maglie
e camicie sudate. Piumini, pellicce, cappotti.
M’han
rotto i coglioni, penso.
Mi
metto ad un lato della strada, tra un negozio di scarpe e una libreria da
turisti.
Fingo
di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino
che si muove a scatti.
Poi
fingo di raccontarmi e ascoltare una barzelletta e rido a voce altissima, il
tutto col silenzio del mimo.
Poi
mi stendo fingendo di essere colpito da una spada invisibile e accuso il colpo
rinculando vistosamente.
Poi
mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione dove ho spazio a disposizione e
comincio a roteare su me stesso; prima piano poi sempre più veloce sino a non
distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.
Roteo
danzando come i dervisci.
Dopo
qualche minuto mi fermo.
La
testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.
Mi
si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una
camicia leggera.
Mi
appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.
Mi
guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di
venticinque anni.
Mi
sussurra ad un orecchio: “ I understand you”, e se ne va, dopo avermi leccato
l’orecchio destro.
Mi
rialzo.
Mi
spazzolo i vestiti senza polvere.
Vedo
un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.
Sulla
borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte
che non ho manifestato.
La
prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano.
Squilla
il telefonino.
“sì,
pronto”
“dottor
Persepolis, sono Giaquinto. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso
venire oggi?”
“Giaquinto,
sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Anna gli
appuntamenti, e se ho un buco la ricevo.
Se
non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto?
Sì, bene. Ci sentiamo più tardi”
“
Anna, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi
sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.
Cristiano
Prakash Dorigo
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