martedì 18 febbraio 2014

conseguenza del riscaldamento globale

Ci sentiamo via skype.
Il mio schermo mi fa vedere la mia faccia e la sua, in formati diversi; oltre ai nostri volti, di contorno, le stanze dove abbiamo i computer.
Da circa un anno ho cambiato residenza; lui solo da pochi giorni.
Prima la mia stanza, dove leggevo e scrivevo, era più stretta e lunga, con le travi del sottotetto che scendevano da due metri e venti a un metro e dieci; ora è quasi quadrata, più ordinata, con scaffali di libri che non stanno nelle librerie in soggiorno, e che dovrei riordinare senza riuscire a farlo mai.
La stanza che vedo attorno a lui invece, è ancora precaria, fresca di trasloco; riconosco scatoloni, con scritte in inglese, con forme e colori diverse da quelli italiani.
Mi capita di chiedermi se siamo noi a distinguerci da loro o viceversa.
Nel periodo post-globalizzazione sono tornate in auge le forti caratterizzazioni nazionali, per chi può permetterselo.

Skype ci costringe a primi piani che a tratti mi mettono in imbarazzo: nessuno dei due ci è abituato.
Ricordo certi film che tentavano di ipotizzare il futuro, e che tra le tecnologie futuribili, c’erano videotelefoni; ricordo che mi chiedevo, allora, come sarebbe stato chiamare qualcuno e vederlo: ora che è possibile, da decenni, addirittura in 4D,  capisco che il sapore tra come si immagina qualcosa di futuribile, e quando l’immaginazione diventa concreta, cambia, e di molto.
L’abitudine accelera e corrompe ogni novità.

Piove, tanto.
Qui e là.
Più là di qua.
La pioggia scroscia talmente forte che dobbiamo alzare il tono della voce.
Ad un certo punto il rumore invade ogni pensiero e ci lascia interdetti. Sento delle voci provenire da un’altra stanza.
Lui si scusa, mi dice che lo chiamano, che lascia un momento la chiamata. Si alza, lascia la postazione, mi fa un gesto con la mano, come a dire che torna subito.

Osservo lo spazio lasciato libero: vedo scatoloni, la sedia sopra cui sedeva, la luce della lampada da tavolo, poco altro, in penombra.
Lo scroscio aumenta di intensità, diventa furioso.
Lo schermo emette scariche elettriche, sembra un vecchio televisore che non trova il canale.
Il rumore diventa un rombo che si alterna al suono artificiale delle scariche grigionere dello schermo, e sembra preludere alla catastrofe.
Sento frasi concitate provenire da altre stanze, voci che diventano improvvisamente urla e imprecazioni multilingue.
Riconosco la voce del mio amico che grida “ le bambine, le bambine, forza usciamo, svelte”.

Prima che lo schermo diventi nero, mi pare di vedere porte e finestre che rinculano, costrette da una massa d'acqua potente e definitiva.
Poi più niente.
Deduco che la corrente è saltata, e che la vita del mio amico, in questo preciso momento, è pura emergenza vitale.

Anche qui piove a dirotto, e la temperatura, pur con la tara di umido, è primaverile.
Sono almeno tre decenni che non torna l'inverno, e il mio corpo ormai vecchio, benché ancora totalmente immune da qualsivoglia malattia, ne risente.
C'è stata la revisione del calendario, che ha ridotto le stagioni da quattro a due, e i miei nipoti sono nati e cresciuti in questa dimensione che considerano naturale e ovvia.
Ma il mio corpo ricorda e soffre di una sorta di nostalgia biologica.
Ricordo vagamente l’odore dell’aria fredda: puro, perfetto.

Si è tanto discusso di riscaldamento del pianeta, senza agire di conseguenza; ci si era divisi, tra chi voleva il contenimento dell'inquinamento ambientale, e chi lo negava, adducendo idee di progresso tecnologico, il quale avrebbe fermato il progressivo ed evidente disfacimento climatico del pianeta.
E mentre il futuro avanzava sempre più in fretta, l'imputridimento terrestre procedeva accelerando anch'esso.
E così, dei pochi testimoni del mondo che fu, siamo rimasti solo noi, vecchi tacciati di nostalgia, nutriti da futurviagra 4.0, da antidepressivi con effetto antistress, rappresentati politicamente da leader ininfluenti, messi all'angolo dal ricatto delle comfort-community residenziali, obbligatorie per chi supera i settant'anni.

E non preoccupatevi per il mio amico.
È già successo altre volte che la sua casa sia stata invasa dalle piene fluviali e dalle piogge incessanti.
Nel giro di un paio di giorni mi chiamerà, ci rimetteremo in videoconferenza con gli amici, e finiremo la partita di scopone scientifico che abbiamo interrotto causa forza maggiore.
Tanto, con i nuovi farmaci antireumatici che ci somministrano qui assieme a quell'altra medicina che ci mantiene sessualmente attivi e mai depressi, rischiamo l'immortalità.
Per fortuna siamo attrezzati, e chi non ne ha più voglia, di vivere, l'eutanasia legalizzata la si può scegliere tra diverse modalità di applicazione: sono tutte indolori, ovviamente, e si differenziano soltanto per la durata.

Ora però devo lasciarvi.
Stanno arrivando i miei due nipoti, che staranno con me le tre ore settimanali, utili a raccontare il mondo che fu, consentendo lo sviluppo della memoria affettiva, diventata ormai pedagogia riconosciuta.
La cosa più difficile è quando parlo loro della neve: non riescono, se non in termini di fantasia favolistica, o di ologrammi, o di parchi a tema, a credere che esisteva in natura.
Del resto, mi viene da aggiungere, perfino io e il mio amico, un tempo, siamo esistiti.

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