lunedì 3 giugno 2013

tana libera tutti, report puntata 1



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L’appuntamento alle 14 alla Biennale dell’Arsenale.
Arrivo, dopo una mattinata di corsa, un concorso a premi per studenti cui sono stato invitato a testimoniare l’esistenza corporea di uno scrittore, a raccontare brevemente l’esperienza di “Venezia città di lettori”, a dire la mia sulla passione per la lettura e la scrittura, a leggere una poesia di Carver.
Tra questi due eventi, un panino con le olive, formaggio stravecchio, mortadella biologica vegetale, l’attraversamento di una città media, con tempi di percorrenza da metropoli ( la terraferma e Venezia sono amministrativamente una, ma urbanisticamente molte).
Per strada, una dozzina almeno di Yachts, ma probabilmente anche di più, degni di Montecarlo, e una marea di gente che si gode in diretta il ritorno a casa, dove potrà dire di essere stata a Venezia, città folle di folla, di arte e artisti, di bancarelle made in china, di rumeni vestiti da carnevale per farsi fotografare con obolo, di venditori di ogni dove, di trecento idiomi in pochi metri quadri.
Arrivo, Camilla è già là con Andrea, il capo, e i suoi collaboratori - o soci - italiani e francesi, con espressioni e modi di chi pratica il mestiere dell’arte.
Entro nella sede in cui si svolgerà l’incontro con gli abitanti del dormitorio Caritas, che faranno con noi questo progetto in cui l’arte servirà come tramite per una maggior consapevolezza di sé, di come si muovono in città, di cosa vogliono, cosa fanno, chi sono. Sì, certo; ma io ho anche il pensiero che si possa ribaltare, e che l’arte abbia bisogno di sempre nuovi soggetti per svilupparsi, ampliarsi, penetrare sempre nuovi ambiti. Un nutrimento reciproco, un mutuo aiuto muto.
In realtà, già dal primo approccio, si capisce che qui, di muto, non c’è nessuno. Tutto è frizzante, eccitato, pregno dell’adrenalina che anima le esistenze che sfiorano la biennale di arte più importante del pianeta terra. E nemmeno gli oggetti, sono muti: la mensa è una stanza verde, i tavoli in legno, gli sgabelli dove sediamo, il cortiletto, la cucina, l’ufficio dove deposito lo zaino pesante ( che ho portato con me per non essere sguarnito, solo); tutto pulsa di restauro, di resurrezione, di superfici rimesse a nuovo, di sudore e di confidenze che i restauratori, gli ospiti del dormitorio, hanno concesso loro, nell’irrefrenabile logorrea che da lì a poco avrei tastato col corpo, coi sensi, con un sottile piacere dovuto al contatto relazionale.
Andrea è ebbro di felicità, non si ferma mai, parla tre-quattro lingue, interrompendo i discorsi, per riprenderli nel punto esatto in cui li aveva lasciati per interloquire con il nuovo visitatore.
Tesse le lodi del suo progetto come solo gli addetti stampa sanno fare: facendo iperboli, gonfiando il senso, facendo compiere alle parole capriole estetiche, sottintendendo plurimi significanti. E’ allegro e simpatico, intelligente, e presumo che dopo, concluso il tutto,  l’energia spesa produrrà un down abissale.
Lo dico non per banale giudizio, ma perché conosco quel tipo di eccitazione adrenalinica che sorregge corpo e spirito, che si conclude con lo schianto, del corpo e dello spirito, nella sbadigliante normalità quotidiana.
We can be heroes, just for one day.
Ma per oggi, giorno in cui dovrei assieme a Maurizio, il giornalista in ritardo per cause professionali, fare lo scrittore che traduce in parole, un clima e un’esperienza, con i simpatici ospiti del dormitorio, che uno alla volta si stanno presentando. Tutto è un flusso energetico eccitato; tutto è contagiato dalla palese follia artistica; tutto è ciò che qui, ora, dev’essere: siamo alla biennale di arte di Venezia, baby, e ce la giochiamo fino in fondo.
Insomma, per essere degli eroi, oggi, ci tocca aspettare le 15.30: un’ora e mezza dopo l’appuntamento. Tutto è relativo, il tempo è un’invenzione umana che non si sposa bene con l’arte di essere artista, il postdatato è un neologismo già caduto in prescrizione.
Le colleghe di Andrea sono molto belle, e hanno l’aria, lo sguardo, le acconciature, l’eloquio, il look di chi, nei vernissage, è un habitué.
Il mio personale ottundimento, invece, rende la mia inadeguatezza alla mondanità, un particolare senza importanza.
Con Camilla e Serena, una giornalista free-lance dell’Eco di Bergamo e del Manifesto, guadagniamo il bar pizzeria che sta nel campo attiguo alla struttura.
Prezzi, trattamento, da grandi occasioni: stai per farti fottere, caro, ma goditi lo spettacolo d’arte varia.
Attorno a noi un flusso inarrestabile di gente. Tutti sono carichi, attentissimi a sembrare indifferenti. Tutti vestono come se l’arte avesse un codice interiore che solo loro conoscono. Accanto a noi una coppia con lineamenti da russi morti di fame ma artisti; lui indossa una giacca lilla, una maglietta forata bianca, una collana degna di Scampia; lei, come lui, è scavata in volto, una frangetta netta, un soprabito sottratto a Wanda Osiris, tacchi altissimi.
Parliamo di Venezia, di Bergamo, di cinema, di arte, di prossemica veneziana, di profitto che tocca sempre agli altri, che per noi la gratuità è la condizione esistenziale.
Il tempo vola, la gente sembra traboccare dal nulla, invade ogni spazio.
L’esercito di bengalesi assunti in nero per fare i camerieri continua a passare a velocità supersonica.
Controlliamo l’ora: è l’ora, ci diciamo; ci alziamo, paghiamo il conto. All’interno del locale il brusio è un’onda sonora poliglotta insopportabile.
E’ pieno di belle ragazze, di bei ragazzi, di bella gente.
C’è un momento in cui tutto tace, tutto si ferma: un silenzio inverosimile ci avvolge, ci fa sentire vivi, vitali, grati di essere lì, in quel preciso momento, al centro del mondo.
Ma non è così: era solo un artificio letterario che ho inventato io, per concludere la prima parte.

http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=40131

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