martedì 4 giugno 2013

tana libera tutti report parte 2

Parte 2

Eccoci seduti attorno al tavolone della sala mensa. Siamo una dozzina, in attesa di rimettere ordine alla rutilante sequenza di eventi subitanei. Andrea ci rispiega come fare, cosa fare, perché fare: lo ascoltiamo devoti, come timidi discepoli, ammirando in silenzio la sua energia vitale. Al tavolo ci sono sei ospiti della struttura, due scrittori, una giornalista, una rappresentante culturale del comune, due suore. Rompe il ghiaccio già rotto da Andrea, Alfio, il più colto matto simpatico estroverso circense del gruppo ospiti.
Il suo esordio (toccando una copia del manifesto che ributta sul tavolo schifato): "i comunisti non li posso vedere".
Compare in piedi Lupo, il poeta creativo vestito in polo, cravatta e giubbino: è l'addetto vendita delle scarpe-giusto-per-tirare-su-il-budget. Capelli bianchi, la sua età, lingua vernacolare (si esprime solo in venexian), dice che non vuole sedersi, che deve fare il suo lavoro, se ne va.

Cronache
Alfio riprende con le massime: " chi non lavora non fa l'amore"; mentre lo dice, ridendo, balbettando leggermente, mette la mano in posizione e fa il gesto su e giù: è seduto davanti alle suore, le quali ridono amabilmente. Prosegue l'andazzo romantico con "quanta mona che ghe xe aea bienal" ( quanta gnocca c'è alla biennale: citazione colta da una celebre canzone dei pitura freska). E giù risa.
Insiste, ormai conquistato il pubblico " l'unica cosa vera dei giornali è la data". Lo ripete più volte, come chi fa una battuta che gli piace. Sorridiamo.
Livio dice ad Andrea di essersi fotografato il tatuaggio, e che possiede una digitale, per cui non ha bisogno dell'usa e getta che fa parte del kit.

Citazioni

Wittgenstein dice “ tutto ciò di cui non si può parlare è maglio tacerlo”;
“con te partirò”;
“so di non sapere”, per cui mi metto nelle condizioni di assorbire ciò che non so, dagli altri;
Socrate diceva “c’è chi sa e c’è chi non sa”;
“I sofisti sono quelli della televisione”;
“la volontà è un’energia che spinge ad agire”;
“Socrate non ha mai scritto una riga”, dice un altro per non mettersi a scrivere; “voglio avere la possibilità di non scrivere tutto, di conservare una parte personale di riservatezza”. Glielo diceva anche lo psicologo, ma lui, per le stesse ragioni, non lo faceva;
“va bene la comunione, il pane, il vino, ma prima vengo io”;
“un bel tacere non fu mai scritto”

Setting

Come sempre, ad un certo punto, i gruppi numerosi seduti attorno ad un tavolo, si separano formando piccoli sottogruppi. Alla mia sinistra le suore con Camilla, Maurizio e un paio di ospiti; con me Alfio e Livio.
Chiedo ad Alfio di spiegare la ragione per cui lui odia i comunisti. Si precipita nel racconto: cresciuto in una famiglia borghese, il padre capo della celere, la madre contessa, gli avevano inculcato che i comunisti sono più o meno merde parassitarie, e a non disdegnare i poveri, ma a denigrare la povertà. Lui riconosce di esserne stato fortemente influenzato, di non essersi mai emancipato da questa tara, che riconosce ingiusta, e tuttavia invasiva. Poi parla del cugino, cui lui ha regalato tutti i suoi libri d’arte, e che adesso è milionario, mentre lui è ospitato dalla caritas. Fa dei gesti espliciti, come chi sa di aver sperperato un patrimonio in agiti poco onorevoli, in vizi costosi; aggiunge che “i gemelli sono idioti geniali”, in riferimento al suo segno zodiacale. Ride beffardo, ride di sé, si riconosce in quella geniale idiozia; ma “idioti come l’idiota di Dostoevskij”. E giù un campionario di descrizioni bignami del maestro e Margherita, di Anna Karenina.
E Livio, che racconta la sua storia di anarchico argentino, figlio di immigrato siciliano, scappato in Italia nell’86, dopo aver vissuto la spaventosa inflazione del 76, ma contento di essersi risparmiato quella del 2001.
Parla di Borges, di Cortazar, di Bolano, di Che Guevara, di Papa Francesco, del Lumfardo (il dialetto di Buenos Aires, all’inizio dipochi, poi diffuso ovunque), di Alreves (il linguaggio per cui pronunciano le parole al contrario per non farsi capire dai non argentini), e mentre Alfio continua a ripetere che “però lui, mica scemo”, lui risponde che “non è scemo, ma solo un disagiato sociale”.

Il tempo passa, le confidenze continuerebbero ad oltranza, ma c’è da andare.
Ci si vorrebbe scambiare più cose, più tempo, più parole. Si sa di aver fatto “arte povera”, mentre quella ricca, ufficiale, in mano ai critici, ai galleristi, ai finanzieri, è solo una sorta di puttana incomprensibile, a volte affascinante, più spesso irritante e indisponente.
Questi si vestono come dei buffoni, e fuori dal contesto sarebbero scambiati per pagliacci. Forse è vero, forse i segreti della biennale sono anche in questi incontri, in queste utopie che oscillano tra il caricaturale e l’esistenziale, tra i barboni e gli artisti, tra i galleristi e gli artisti che vivono con le pezze al culo pur di incarnare eroi puri, nudi, estetici, estatici.
Il progetto prevede che gli ospiti andranno in giro per i padiglioni e fotograferanno e scriveranno cosa pensano dell’arte concettuale avanguardista postmoderna.
Sono sicuro che qualcuno alzerà il dito e dirà che “il re è nudo”, e tutti giù a farsi una grassa risata.

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