giovedì 25 aprile 2013

25 aprile, un mio racconto intitolato "vista"

vista
Ciao amore,
ti scrivo da questo buco da cui non so mai se uscirò vivo, e che riesco a sopportare solo grazie al pensiero che se ce la farò, ritroverò te.
In questo momento sono steso a terra.
La piccola trincea che sono riuscito a ricavare scavando è molto bassa e tetra; sto quasi tutto il tempo disteso, con l'odore di terra e muschio che m'invade le narici, con i vestiti intrisi di umidità, con le membra anchilosate, in compagnia di insetti e di vermi con cui ormai ho stretto amicizia,  ai quali parlo, senza bisogno della voce: comunico attraverso il pensiero, come un folle  e cede all'illusione di non essere solo.
Si vince anche così l'ansia e la sensazione di essere sepolti vivi.
Mi muovo solo per i bisogni fisiologici che comunque devo cercare di ridurre all'essenziale.     Quando lo faccio, ogni piccolo gesto è una benedizione.
Il mio compito, mi si dice, è molto importante.
Io sono un poeta, e talvolta la parola è più efficace delle armi, dicono.
Aggiungono, come a persuadermi con le loro ragioni, che il rischio di non aver testimonianza di quanto succede qui è troppo elevato.
E molti tra i partigiani della mia squadra, sanno scrivere appena il loro nome.
Loro usino le armi; io, in dotazione, ho carta e matita. Ho inoltre una piccola pistola da usare nel caso mi scoprano: prima che mi facciano confessare il poco che so e riveli dov'è il comando sul Pizzoc, da cui si domina tutta la vallata di Vittorio Veneto.
È una postazione troppo importante per essere messa in pericolo dalla mia  incapacità di resistenza alle torture cui verrei sottoposto.
Li conoscono i loro metodi e, nel caso venissi scoperto, mi dicono con tono confidenziale,  essendo io uomo di grande sensibilità, non potrei sopportare la scientifica brutalità del loro agire.
Perciò, dovesse succedere, un attimo prima che mi catturino, devo mettere la canna in bocca, appoggiarla al palato e premere il piccolo grilletto.
Mi hanno assicurato che non sentirò alcun dolore, che tra il gesto del premere e il sordo nulla della morte, non farei in tempo a contare fino a uno.
Sono appostato sopra in posizione strategica.
Riesco a vedere il grande orribile buco senza esser visto grazie a piccolissime fessure che fanno passare aria e luce.
Ogni tanto arrivano con una camionetta col cassone posteriore coperto da un telo, usato per il trasporto dei corpi.
Di solito ci sono quattro soldati e un ufficiale che dirige le azioni.
I due soldati all'interno del cassone passano un corpo alla volta ai due che sono a terra;     questi altri due si dirigono verso il cratere e lo gettano nelle viscere della montagna attraverso questa enorme bocca  spalancata, che li digerisce dopo averli inghiottiti.
Questo mese sono stato qui dieci giorni in tutto.
Copriamo turni di un giorno e una notte ciascuno.
Siamo in tre a svolgere questo incarico: io, un maestro elementare e uno studente universitario.


Al cambio turno che avviene in un bosco a un'ora di cammino da qui, ci salutiamo abbracciandoci, augurandoci buona fortuna, passandoci di mano la piccola pistola.
Poi si risale, percorrendo il lungo tragitto tra i boschi, con la leggerezza di chi si sente in debito col destino soltanto perché è ancora vivo.
Finora ho assistito a quattro incursioni.
Gettavano cadaveri di partigiani, di civili, di donne e di animali. Una volta sono stato testimone dell'esecuzione di un uomo sui trent'anni.
Messo in ginocchio, pistola d'ordinanza puntata sulla fronte, ha ammesso di aver ospitato nella sua stalla tre uomini che conosceva da prima della guerra.
L'ufficiale tedesco chiedeva con voce molto pacata al camerata, che traduceva le domande urlando all'umiliato ostaggio, come un esaltato. Intervallava parole pertinenti a insulti sputati nello stretto dialetto dei monti del Cansiglio.
Gli hanno sparato in testa, si è accasciato come un sacco vuoto.
L'ufficiale che ha usato l'arma non ha aperto bocca; ha fatto solo un cenno con la testa a due soldati che l'hanno preso per braccia e gambe e l'hanno buttato di sotto.
Mi è sembrato di sentire il suono ovattato del suo corpo che sbatteva sulla parete rocciosa.
Immaginavo i brandelli di carne attaccati alle rocce taglienti, le ossa che si frantumavano, la postura scomposta, del corpo che precipitava nel buio denso della grotta verticale come fosse una bambola di pezza.
E così, affaticato, tutto indolenzito, fradicio di terra umida, per resistere alla noia, al torpore e al terrore, penso a te.
Penso a come sarà quando sentirò il calore del tuo corpo accanto al mio, al tuo sorriso di sole, al tuo sguardo di luna, al suono della tua voce, alla tua pelle liscia e morbida, al fiato di miele delle tue parole.
Nel frattempo osservo e ascolto il bosco.
Gli alberi sono infinita meraviglia, gli uccelli musica sublime.
Sono riuscito a prendere questo foglio che uso solo per te, Gino.
E ho scritto queste parole pensando al tuo nome che è la sola forza che mi rimane.
Ciao,    tuo Cristiano

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