domenica 26 gennaio 2014

corpo in affitto

Ieri sera sono stato al Teatro alla Murata di Mestre.
Ho già parlato diffusamente della Murata, esprimendo il mio apprezzamento e affetto nei confronti di questa realtà che da più di quarant’anni si ostina a esistere, senza mai cedere in merito alla scelta qualitativa delle sue proposte culturali. E’ forse l’unico e ultimo “teatro off”, in una città che predilige decisamente “on”.
Ma abbiamo già detto e dato.
Il teatro contiene una cinquantina di posti e separa chi recita da chi assiste, di un metro quando va bene. Insomma, si è là a condividere un unico flusso energetico che quando funziona, travolge.
Ieri ha funzionato, molto.
Lo spettacolo si intitola: corpo in affitto.
L’attrice, Evarossella Biolo, è bravissima: in mutande e reggiseno, ci racconta la storia di una ragazza che fin dalle elementari offre se stessa, in termini di prestazione sessuale, a chi paga. Riesce a essere disinvolta, seducente, simpatica, pur interpretando un personaggio difficile.

Il regista, Marco Artuso, dirige sapientemente la scena, spoglia all’inizio - un divano e una serie di scatole poste sul fondo del palco -, man mano si riempie di scatole aperte da cui l’attrice estrae vestiti con cui, di volta in volta, si veste e si toglie, mentre procede col racconto.
L’autore, Vincenzo Ercole, scrive un testo coinvolgente e diligente, seppur a mio avviso criticabile in certi punti, in cui diventa didascalico e moralista, benché il tema non sia di facile svolgimento.
Come e perché si diventa puttane, senza per altro accorgersene? Qual’è il valore intrinseco della morale comunemente introiettata, accettata, continuamente predicata? Fino a dove ci spingeremo pur di riuscire ad accumulare merce? Cosa è giusto e cosa sbagliato?
Queste alcune delle domande che l’autore pone allo spettatore. Domande non nuove ma sempre attuali.
Il sesso, il potere, la ricchezza hanno caratterizzato da sempre la storia delle civiltà antiche e moderne, svilendo così, forse, questi due ultimi vocaboli.
La protagonista pur di dimostrare che non è “vuota dentro”, accetterà un atto estremo che “il vecchio” le proporrà in cambio di una quantità enorme di denaro, di cui non ha per altro bisogno.
Ci chiederà ancora “perché sia sbagliata”, senza ricevere alcuna risposta.

martedì 14 gennaio 2014

Romain Gary, la vita davanti a sé

Ci sono libri che riescono a contenere semplicità e grazia, pur affrontando argomenti non propriamente facili.
Immaginate di essere un ragazzino, figlio di una puttana che non può tenervi con sé a causa del suo lavoro, di vivere negli anni cinquanta a Belleville -prima di Pennac -, musulmano, accudito e cresciuto in un appartamento del sesto piano da una ex mestierante ebrea, calva, obesa, che tiene il ritratto di Hitler sotto al letto e che sobbalza ad ogni suonata di campanello per paura dei nazisti: ecco, sareste Momò, e raccontereste la vita a modo vostro.
Romain Gary, autore di “la vita davanti a sé”, è riuscito nell’intento di trasformare un inferno apparente, in spassosa accettazione del proprio destino.
Momò ci accompagna teneramente a spasso per il suo quartiere, a tratti per la Parigi che sappiamo; più spesso ci descrive la vita in un appartamento che è una miscellanea di razze, religioni, credenze formali o tribali, con  paradossale naturalezza.
Il linguaggio è scoppiettante, volutamente involuto  ( bravissimo il traduttore ), ma credibile e brillante.
Notevoli anche le riflessioni del protagonista: la vita può essere vissuta e pensata in molti modi, e il suo mo-n-do è acuto, intelligente, mai giudicante.
Chiudo con un aneddoto.
Il libro mi è stato consigliato da Barbara, titolare ( con la socia Stefanie ) della libreria Ulisse, di via Querini a Mestre.
Un giorno si parlava di libri e autori che ci piacevano, e molti di quelli che le piacciono, li apprezzo anch’io. Ma alcuni nomi e titoli che mi ha citato, non li conoscevo; ci si diceva che non si può conoscere tutti, pur essendo lettori forti. E’ vero, dicevo non senza un minimo di imbarazzo ( sono abituato a rispondere alle richieste di amici e conoscenti che chiedono consiglio a me… ); così come lo è il fatto che il mestiere di un vero libraio ci aiuta anche in questo: ad ampliare la visuale della nostra conoscenza.
Immagino che leggerò altri libri dello stesso autore, e che accetterò sempre, e volentieri, i consigli dei librai.
Non esco quasi mai da una libreria senza averne comprato uno, senza averne discusso, senza sentirmi meglio di quando sono entrato.
In questo specifico caso, ho risolto il problema di cosa regalare agli amici per il loro compleanno: Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza. 

domenica 29 dicembre 2013

gli insulti alla ragazza e la mancanza di consapevolezza

Leggo con imbarazzo e tristezza degli insulti alla giovane ragazza malata, la quale ha detto e scritto di essere in vita grazie agli esperimenti sugli animali.
Premetto che da circa vent’anni sono vegetariano, e che da due e mezzo lo è anche mia figlia quasi sedicenne. La mia scelta, allora, è riassumibile nel seguente concetto: non voglio più mangiare esseri viventi. E così ho fatto, faccio, e credo farò per il resto della mia vita.
Non so se questo mi dà l'autorizzazione a dirne qualcosa; rimane inoltre il fatto che non ne ho mai avuto bisogno - di patentini - per dire la mia.
Credo che la ragazza in questione - non aggiungo altro sul suo stato di salute: ne han parlato in molti - abbia il diritto quello che pensa, anche se questo pensare contrasta con molte sensibilità che vedono la difesa degli animali come fondamento della propria esistenza. Molte delle persone che conosco hanno forme di radicalità su certi argomenti: la fame nel mondo, la religione,la letteratura, la violenza d genere, l'ambientalismo, la salute mentale, la politica, l'immigrazione, i diritti delle minoranze, eccetera.
Penso che ciascuno di loro abbia buone ragioni e buoni torti, e che nessuno di loro superi nella computa di questi, nessun altro.
E' forse giusto avere degli ideali, purché si sappia bene quanto ci possono allontanare dall'equilibrio, dalla realtà, dall'impedirci di vedere le ragioni altrui.  
Disapprovo perciò la deficienza di vedute di quei microcefali che l'hanno insultata adducendo le loro misere ragioni, che in questo caso si trasformano in miseri torti.
Non posso concludere senza dire qual'è la mia, di estremità. Sarei al contrario il solito fighetto di turno che guarda le cose dalla parte giusta e sentenzia sulle debolezze degli altri, dando quasi a intendere che lui - io, in questo caso, se non mi dichiarassi - non ne abbia.
Ebbene, io credo che il mondo sia diventato un posto di merda, e che io stesso ne ho responsabilità, nella misura in cui ognuno di noi ne ha. Credo che sarebbe un posto più pulito e amabile se tutti noi praticassimo la meditazione con regolarità. Lo dico perché l'ho praticata per anni, e grazie a questo, ho potuto scoprire quanto fossi intasato, inquinato, farcito, colmo di sovrastrutture, di "mentalità", di ego tracotante, di paure. Non che ne sia esente, adesso; anzi. Ma ne sono pienamente consapevole, senza più infingimenti.
Ecco dunque qual'è il punto, secondo me: la consapevolezza.
Dovremmo esserne tutti consapevoli.
Cristiano

lunedì 16 dicembre 2013

morte, bontà, scrittura

Questi giorni sono caratterizzati dall’attesa di imminenti lutti: ben tre, ad allietare questo dicembre.
Non so se sia giusto parlare di sé, rivelare nomi, circostanze, fatti. Conosco del resto solo un paio scrittori che sappiano farlo dominando le parole; e io non sono ovviamente tra questi ( mi riferisco a Busi e Moresco ).
Dirò solo che sono della mia famiglia, che due di questi sono da collegarsi all’età e uno alla malattia: e che in tutti e tre, il denominatore comune è la certezza della fine, e il sollievo per un’esistenza che non è più tale da qualche tempo.

La morte non è mai ben accolta, e molte persone trascorrono l’intera esistenza temendola, che è quantomeno un errore strategico cui difficilmente si potrà rimediare.
La vita è piena di momenti eterni, salvifici, incantevoli; e parimenti di schifo, dolore, pena: sono appunto momenti, e quindi passeggeri.
Solo la consapevolezza, l’attenzione possono salvarci dallo spreco di quest’occasione unica. Un’attenzione che insegna che c’è una qualità, una verità altra, alta, che non è quel momento, bello o brutto che sia.
Mi piacerebbe concludere parlando della bontà, che ho incontrato poco nelle molte persone che ho conosciuto. Una bontà che può essere confusa con la debolezza, l’arrendevolezza, l’indifferenza, la sottomissione, e che è invece comprensione e compassione, nell’accezione non strettamente cattolica con cui siamo abituati a usarle.
Ecco, nei confronti di queste poche persone, provo un grande senso di pace e di gratitudine, e sento di aver imparato forse molto più di quello che merito.
Posto un racconto che forse non lo è ( tecnicamente racconto ), ma che invito comunque a leggere.



dedicato a mia madre Carla e a Giorgio

SOLE RISCALDAMI

Quando apro gli occhi il torpore si attenua e una spinta vitale mi riporta alla realtà. È una spinta leggera, più simile a una carezza che a un gesto violento.
Ogni volta sento che questo è una sorta di piccolo miracolo quotidiano.
Lo sentivo anche prima, anche quando non ci facevo caso, quando tutto pareva scontato; solo che non badavo a niente: né a me, né al resto. Tutto era un automatismo continuo cui io partecipavo in forma separata, come ci fossi ma anche no, alternando presenza ed assenza, senza scegliere.

Per alzarmi mi metto sul fianco destro e contemporaneamente pianto le braccia sul materasso e spingo le gambe fuori dal letto, ruotando fino a raggiungere la posizione seduta.
Il prezzo delle ore passate quasi immobile nel sonno lo pago subito, appena desto, appena occhi, collo, schiena, stomaco si devono riallineare alla posizione verticale.

Guadagno a fatica la tuta da ginnastica che avevo appoggiata alla sedia e stando attento a non forzare la schiena, la indosso.
È mattina, mi dico.
È mattina e sono ancora qui, penso.
Sono vivo, respiro, e già mi basta.
Basta poco ormai per arrivare alla sufficienza: basta il soffio leggero dell'esistenza, il battito del cuore, la luce del giorno, il profumo dell'aria.

Questa mattina il sole mi accarezza.

Con il suo calore, scioglie la tensione, donandomi una sensazione di pace e serenità.
Ho un rapporto molto attento con il corpo adesso: prima, quasi non mi accorgevo esistesse; mi ci facevo ospitare, lo abitavo, gli donavo momenti di bellezza, in cambio della sua fedeltà. Lo nutrivo e assecondavo i suoi bisogni primari, partecipando distrattamente a questa convivenza paritaria, implicita.
Un rapporto formale, quasi di separazione, di non ingerenza: “ tu non disturbi, corpo donatomi in dotazione dal destino; in cambio io ti accetto e curo la tua manutenzione”.
Ora invece lo accolgo e lo ascolto; mi ci sono affezionato: gentile, disponibile e spontaneo com'è. Ora siamo un unico essere, momentaneamente vivente.
Ho ridimensionato la gerarchia del valore (corpo-mente-anima) in senso orizzontale; facendone un tutt'uno, un'unità che esiste in sincrono, con una dolcezza e un'armonia che mai avevo provato prima.
Convivo con la stravaganza esistenziale secondo cui più si sta male, più ci si accorge di quanto sia bello e prezioso stare bene.
E così la mia storia di adesso si fonda e vive su una contraddizione: sono risorto dall'ottundimento insapore di una vita assente, grazie alla presenza del male.

E ora, quando penso a me, penso ad un me intero, integro. Non sono più un assemblato di componenti diverse messe assieme dal caso biologico.
Ogni giorno è scandito da ritualità necessarie: mi prendo cura di questo corpo ferito, provato. Ogni giorno la mia preghiera, ingiuriosa e blasfema, guidata dalla mistica della necessità, è rappresentata dalle cure attente che mi rivolgo: la mia mano dolce, delicata, va attorno alle ferite, agli herpes, e spalma con meticolosa pazienza la pomata, l'unguento.
Ho oramai la precisione del chirurgo che opera, la pazienza dell'asceta che medita.
Io, sciamano improvvisato dell'autoguarigione, lavoro a cerchi concentrici, zigzagando attorno, vicino o lontano, in periferia o al centro, con i cerotti, le fasce, le bende bianche, morbide.
E in tutto questo, ho ritrovato l'amore non narcisistico.
E' la scoperta del gesto attento, sottile: è il contrario dell'autoflagellazione: è carezza benevola. E quest'amore risiede nel momento presente, nell'attenzione.

Niente più inutili deviazioni: attenzione, semplice attenzione.

La lezione imparata: sì, l'amore è possibile, l'attenzione è possibile.
E però mi chiedo perché non riesca ad esserlo sempre, attento e amorevole.
Spesso, infatti, non lo sono. Spesso sono nervoso, ansioso, irascibile, come quando stavo apparentemente bene.
Ma poi subito mi dico che no, no: non devo ricominciare con le domande, ricadendo di continuo nelle trappole del giudizio, della certezza logica.
Le domande richiedono risposte, che riaprono altre domande, in moto perpetuo, all'infinito. Sembra un inutile esercizio filosofico che offre palliativi patetici, sicurezze incerte, che talvolta quieta la spasmodica ricerca di un senso, ma che in realtà non dà sostanza a niente.
Per come abbiamo ridotto la filosofia - noi esseri umani, genitori degeneri-, questa è diventata la sconfitta della felicità.
Sì, perché il pensiero, il continuo ruminare pensieri, si contrappone all'esistere.
Domande e risposte e domande: l'inerzia si contrappone al fluire.
Non sappiamo più guardare e vedere, senza catalogare l'osservazione stessa; non sappiamo più ascoltare il silenzio, senza sporcarlo con inutili e impossibili definizioni.
Vogliamo definire l'indefinito, dire l'indicibile, rappresentare il mistero. Abbiamo perfino la pretesa, superbi come siamo, di parlare del silenzio.

Mi viene in mente il giorno in cui ho saputo; quando ho ritirato il referto medico nel quale si annunciava la sentenza.
Una frase secca, perentoria e al tempo stesso asettica, neutra, mi definiva con l'aggettivo derivante dalla patologia da cui ero affetto. Sarei rimasto in compagnia di quell'aggettivo per la vita che mi rimaneva.
Ricordo lo stordimento; ero stupefatto, con un foglio di carta in mano, prossimo alla tragedia, allo svenimento, all'annullamento di tutto.
Io, perché?
Perché proprio a me?
E giù in picchiata velocissima. Giù, giù, giù.

Sempre più in basso, fino a vedere, a toccare il nero del mio dramma.
Senza appigli, senza difese, una discesa all'inferno, nel buio ovattato della deprivazione sensoriale di chi rifiuta, non accetta, non trova giusto e non vuol sentire, sapere.
E più cadevo, più le vertigini mi facevano vorticare a spirale come in un incubo, in una visione allucinata, in un film in cui si voglia rappresentare il percorso che porta all'oblio di sé. Lo stesso principio dello svenimento: quando si raggiunge uno stato intollerabile il corpo si difende togliendo intensità, lasciando un vuoto che renda sopportabile l'insopportabile.
E quindi.

Stato depressivo, convivenza forzata col proprio personale lutto.

A lungo, molto a lungo.

Trasformazione dilatata del tempo che si allunga fino al parossismo.
In quello stato ogni istante è lungo perché inutile; qualsiasi cosa è inutile perché senza significato, qualsiasi persona è fonte di invidia: perché lei no e io sì?
Perché l'ingiustizia si vendica con cieca e gratuita crudeltà nei miei confronti?
E poi, se si riesce a sopravvivere allo squarcio delle illusioni, anche questo lentamente passa, concede spazio alla consapevolezza che bisogna farsi aiutare.
Questo, quando funziona, innesca un lento processo necessario all’acquisizione della fiducia: bisogna affidare il proprio corpo, la propria vita, al sapere scientifico: pur sapendo che la scienza è per definizione inesatta, che la conoscenza è transitoria e destinata per sua intrinseca natura al tradimento, dalla successiva scoperta che non sarà mai definitiva, ma sempre un'eterna approssimazione.
Apertura, rinascita, ricostruzione.
Ho iniziato ad accettare, a stare meglio.
Ci si chiede, io l'ho fatto, cosa sia la morte, quanto tempo resta, cosa ci si perderà di questa vita imperfetta a cui ci si attacca come agonizzanti sopravvissuti.
Ci si trova morbosamente attaccati a qualcosa che prima nemmeno ci si accorgeva di avere.
Si è costretti a sbagliare bersaglio, argomento, obiettivo.
Sì: ci si pone le domande sbagliate, si capovolge il senso naturale della prospettiva.
Infine ho intrapreso un cammino assieme ad altre persone - un lungo cammino-, in cui ho associato medicine a parole, pensieri a fatti, sentimenti messi a nudo a dichiarazioni di debolezza e di forza.
Ho capito che dovevo ammettere di avere paura; sentivo di doverci convivere, di doverla giocoforza abitare.
Ho intimamente compreso che l'ammissione della propria debolezza è in realtà l'esordio della propria forza: solo chi ammette e accetta ciò che è, interamente, senza escludere una sola cellula di sé, può dirsi totale, completo, unito.
È un'unione sbilenca, lo so; è precaria, instabile, ma ha il sapore della verità, provata sulla mia pelle.
Unisce in un unico contenitore la parte sana a quella malata, da cui sorge una nuova forma vivente vicina al tanto agognato, in quanto assente, equilibrio.
E allora ho cambiato di nuovo presupposto e mi sono posto altre domande. Non più cos'è la morte, ma cos'è la vita.

Non mi sono più chiesto quanto mi rimaneva da vivere, ma come potevo dare finalmente qualità, vitalità al tempo che mi restava.
Pian piano, passo dopo passo, senza esserne immediatamente cosciente, sono entrato in uno stato che assomiglia alla grazia, un po' forzata e posticcia, dell'accettazione.
Il tempo, le cose, le emozioni, le sensazioni, hanno iniziato ad avere un gusto nuovo.
I miei occhi hanno iniziato a vedere in modo diverso, a percepire nuovi colori, nuove sfumature.
Le mie orecchie, il mio naso, tutti i sensi sono come risorti e hanno cominciato a cogliere la straordinaria, e al tempo stesso semplice e banale, potenza e meraviglia della realtà.
Una realtà scaturita dalla coscienza che quella creduta fino a quel momento, non era la realtà, ma una comoda illusione fondata sull'accumulazione culturale, politica, psicologica.
Il segreto interiore di chi si risveglia dal lungo sonno è la capacità di vedere con rinnovato spirito ciò che esiste, senza deformazioni o interpretazioni.
Vivere quel che la vita è, non quello che dovrebbe essere.
Questa la storia che mi porta all'oggi, al difficile percorso di chi deve affrontare una storia terribile, ma che comunque, palese o incomprensibile, ha un suo senso intrinseco.
Non so se potrei dichiarare di essere contento così; anzi, sicuramente no, avrei preferito accostarmi in altro modo a me stesso, ma ho imparato che questo è uno dei modi possibili. Adesso sto al mondo con leggiadria e scioltezza, come viene, senza pensare a ciò che per gli altri possa significare.
E so che devo migliorare il mio saper stare con gli altri.
So che quando giudico, mi arrabbio, mi chiudo, non posso incolparli: devo fare i conti con la mia diretta responsabilità.
Porto a spasso i segni di quello che sono senza più disagio, stando attento a non ostentare, ma neanche a nascondere a tutti i costi.

Alcune volte passeggiando incontro conoscenti, e capita spesso che queste mi rivolgano complimenti particolari: “ ti vedo bene: cioè molto magro ma sereno, con uno sguardo diverso, rilassato”.
Queste persone mi riportano alla contraddizione del mio status, mi aiutano senza saperlo a ritornare al presente, al benessere semplice, alla malattia salvifica.

Domattina faccio gli esami del sangue e ritiro gli esiti di quelli della scorsa settimana.
Come uno che ha una dipendenza da gioco, fremo per i miei numeri; quei numeri dai quali dipenderà il mio essere sereno, o depresso, nei prossimi giorni.
E anche se vivo ogni nuovo giorno con gratitudine, come chi assiste ad un miracolo, c'è l'ansia di scoprire se questo durerà ancora a lungo o se si sta esaurendo; se dovrò aumentare i farmaci che, veleno, stordiscono stomaco e fegato.

Il mio culo, spesso piagato dalle conseguenze della terapia, ha bisogno di calma, di pause lunghe, di intervalli che gli consentano di rimarginare le ferite.
Sangue, tessuti, viscere, carne, ossa, il frullato perfetto di cui è composto il mio corpo paga, risponde a quei numeri, a quei valori.
Ormai sono un guardiano accorto e, come un addetto alle trasmissioni in tempo di guerra, capto e traduco qualsiasi segnale in anticipo: so cosa succederà e come dovrò agire di conseguenza.

Il dolore carnale mi è servito ad imparare lezioni concrete.
Le reazioni rabbiose degli organi offesi servono a segnalare, attraverso il malessere, un chiaro monito alla moderazione, alle sane abitudini.

E' singolare come lo stare bene, quando si sta male, crei nuove dipendenze, nuovi bisogni: ho totalmente eliminato qualsiasi fonte di disequilibrio, tendendo, spesso rigidamente, alla disciplina.
Certe volte mi chiedo come possa essere vista, da fuori, la mia malconcia estetica malata.
Mi capita, quando mi curo, di osservare con maniacalità un pezzo di carne rinsecchito, il colore opaco e scuro di un ematoma, la fluorescenza rossastra di una ferita; mi accorgo di amare quello che vedo perché è una parte di me, un segno del mio vissuto.
Quando ero ragazzo le brutture sporcavano la mia sensibilità di perfezionista; nei, lentiggini, peluria, erano un'inaccettabile scortesia nei confronti del bello.
Con l'andar del tempo, invece, mi sono ritrovato a baciare, leccare, ogni forma di “escrescenza” che trovavo nelle persone che ho amato.
Mi ha colpito e quindi la cito, la dichiarazione di una donna che stava con un tizio famoso, la quale alla domanda “ ma cosa ama di lui?”, dopo aver brevemente pensato, ha risposto “ i suoi difetti!”.


Mi guardo allo specchio; nudo, vestito, in mutande, e cerco di carpire dal riflesso, come mi presento, cosa svelano i miei segni, quali storie il mio corpo racconta.
Capisco allora, ogni volta, che dipende soprattutto da chi si ha di fronte, da chi c'è dietro agli occhi che ti guardano; quali esperienze, quale sensibilità abbiano; cosa sappiano vedere, guardando.
Tra poco ci sarà lo scambio di massaggi con mia moglie: io massaggio lei, lei massaggia me. Ci facciamo di frequente questo regalo che rilassa e scioglie le tensioni, i grumi attorcigliati e tirati dei blocchi che, giorno dopo giorno, accumuliamo e mandiamo in zone remote a formare un puzzle che poi diventa malattia.

Anche questo rito è cosa da poco, ma sembra un lusso, una concessione di tempo che ci convinciamo sempre di non avere, e che magari sprechiamo con abitudini stupide ed inutili.
Questa mattina il sole scioglie il freddo del cuore, dello stomaco, e restituisce allegria e gioia. Tra un'ora o forse domani pioverà.
E io voglio solo godere del caldo del sole quando c'è; e quando ci sarà la pioggia voglio goderne il rumore, il ritmo; quando tocca alla nebbia il mistero; e con la neve il candore e la sofficità.

Qualsiasi situazione è destinata a passare, qualsiasi stato d'animo è transitorio; dipende solo da me esserci, notarlo, goderlo, apprezzarlo perché non farà niente per farsi notare: esisterà semplicemente e sarà sempre a disposizione.
Sarò io a renderlo immortale, unico.
Per l'anno a venire prevedo trecentosessantacinque giorni.

Non so se li vedrò tutti, anche se lo vorrei.
Eppure la malattia mi consiglia di guardare l'oggi, di vivere ogni istante con pienezza.
Il futuro è materia ostica, esiste per rimandare ad un indefinito dopo la responsabilità di come si è ora.

Allora concludo dedicando un pensiero proprio a questo : dipende da me ogni singolo, prezioso momento della mia vita.

lunedì 25 novembre 2013

giornata contro la violenza sulle donne

Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Da anni mi occupo di giovani donne, e talvolta anche di donne che hanno subìto o assistito a violenza.
Posto un brano di un mio racconto contenuto in “homo spiens nord est” che mi pare affronti il tema. non è completo, ma già così è abbastanza lungo, per cui corro il rischio della parzialità. 


“…

La verità taciuta


“  Questa storia è tratta dal diario di una ragazza.
È una ragazza qualunque che ha deciso di dire finalmente la verità che ha nascosto per molti anni.
Di solito tace e lascia che il mondo sia guidato da altri, mentre lei ci si fa condurre.
Ma oggi guida lei, decide lei la direzione; è padrona, e può disporre del suo dire o del suo tacere come meglio desidera. 
E proprio oggi ha deciso di dare luce alle zone d'ombra, di dar voce all'urlo che l'assorda seppur muto.
Parla con un amico di cui si fida.
Sente di poter toccare quel punto duro, scuro, che le fa visita ogni giorno, ogni istante, per avvolgerla e portarla, anche se lei non vorrebbe, con sé. Questo si manifesta con la paura, l'incapacità di credere, di fidarsi, di stare con gli altri, di sopportare la propria ingombrante presenza di donna che sopravvive pur non sapendo vivere.
E così una timidezza vigliacca la soffoca, per poi scatenare una rabbia furibonda con i pochi esseri umani più deboli che incontra, e che la costringe a temere, senza rispettare, tutti gli altri.
Questo parlare somiglia ad una ferrata in montagna: ogni passo è incerto, calcolato, rischioso, e insieme soddisfacente, liberatorio. E piano, con cautela, ci arriva.


Parla di suo padre.
È un uomo cattivo e non c'è nient'altro da dire; ma oggi sì, c'è dell'altro, c'è la verità creduta; e anche se non è detto sia quella vera, è di certo quella che lei percepisce come tale.
Quella su cui ha basato le sue fievoli certezze, sempre pronte a franare.
Lui è cattivo, e poco altro. È un debole e ha sempre bevuto molto, troppo: un binomio perfetto per allearsi con una cattiveria posticcia, gratuita, e perciò prevaricante. 
Pochi giorni prima, insieme all'amico, stava decidendo il da farsi sullo spostamento della madre in cimitero: dopo un tot di anni, è di prassi spostare le salme.
In questo caso, una prassi amministrativa quanto mai sconfinante nell'intimo, nei ricordi, nella speranza che almeno lei, la madre, avesse trovato il meritato, definitivo riposo.

Pochi giorni  prima era col telefono in mano per cercare di capire esattamente cosa dovesse fare.
Oltre ad avere le dettagliate istruzioni del caso, ha fatto un'incredibile scoperta.
Era insieme all'amico, al telefono, che chiedeva informazioni per lei. Parlava a una voce senza volto che rappresentava, in quel caso, una funzione.
Quella voce senza volto, quella funzione li avevano spediti, per poco, in una dimensione di incredulità, come fossero gli attori di un film, o le vittime di uno scherzo di cattivo gusto.
“il signor B********* non è morto. A me risulta abitante in via S******, dove ha sempre abitato”
Quel padre cattivo, beffardo, era risorto. Quel cane rabbioso aveva raggirato perfino la morte. Per alimentare le ansie, per confermare l'immortalità dell'orrore, della paura pura, senza attenuanti e pensieri razionali  consolanti.

Un anno prima, dopo che era stato ricoverato in fin di vita e la ragazza era stata invitata dalla zia, sorella di lui, ad andarlo a trovare: al suo rifiuto, fredde maledizioni. Poco dopo, il giorno successivo, era arrivato un messaggio al telefonino, mittente la stessa zia, che diceva di non preoccuparsi più, che tanto lui era morto.
Un anno prima di quella telefonata.
Quel giorno, diceva all'amico, non riusciva proprio a capacitarsi di come la zia, sorella di quell'uomo, suo padre, quel bastardo cattivo, potesse pretendere che lei lo andasse a trovare dopo anni che non si erano più visti e sentiti, e dopo quello che lui le aveva fatto passare.
L'amico non sapeva con esattezza cosa le aveva fatto passare; sapeva però cosa fanno passare molti padri e madri ai figli. L'aveva letto giorni prima su una rivista di psicologia.
Ed era sempre meno sottile, meno sfumata, meno sofisticata, la violenza. Era ormai manifesta, impudica, priva di sottigliezze psicologiche. Era pura rabbia travasata, trasformata in paura e angoscia, la cui unica scappatoia, è la convivenza consapevole.
Non si guarisce, non c'è possibilità di essere come gli altri; al massimo, si può sembrare come gli altri.
L'articolo finiva in modo da lasciarlo sgomento.
Diceva che questo punto non incontra molti favori in costoro. Era difficile, per le vittime, capire che non esiste un “essere” cui ambire. Ciascuno ha le stesse paure, le stesse angosce, le stesse insicurezze; cambia semmai la capacità di conviverci. Insomma, la tanto ambita uguaglianza, quella che loro pensavano essere incarnata dalle persone normali, che mai avevano subìto violenza, era una convenzione sociale mitizzata.

Arrivano al cimitero della madre, morta quando lei era ancora bambina piccola.
L'ultima volta che è andata a trovarla, sulla lapide ha trovato un foglio scritto a penna. Diceva che il primo conoscente che passava di là, avrebbe dovuto contattare l'ufficio preposto per le pratiche di riesumazione della salma.
Non ha raccontato al collega che effetto le aveva fatto leggere che sua madre era una salma.
Sua madre non c'era da così tanto che poteva essere soltanto un ricordo idealizzato. Incarnava tutto il bene che non aveva avuto. Rappresentava tutti i sogni finiti quando, incolpevole, era morta.
Era la mamma che tutti sognano.
Non poteva perciò essere la mamma che l'aveva lasciata con quel padre cattivo.
Non poteva essere, eppure lo era. Una contraddizione che scarnifica la pelle, che penetra la superficie e s'infila dove vuole lei, dove fa più male.

In prossimità del casello della città esordisce iniziando la frase con “pensa che”. 
L'amico deve forzarsi di “pensare che”: lei è piccola, poco più di sei anni.
Devono uscire e il padre non trova le chiavi.
Non le trova e s'arrabbia.
Gli monta una rabbia cieca, senza ragioni che non siano la rabbia stessa, che deve uscire come schiuma, e schiuma la bocca e diventa notte sullo sguardo.
Cane rabbioso, lui, vede la vittima, lei.
Lei si è stretta sulle sue spalle, che alza per incassarvi la testa e nasconderla più che può.
Alla sua destra, dietro la schiena, il muro adiacente alla porta d'ingresso del sozzo appartamento.
Lui prende un ombrello col manico di legno e glielo punta alla tempia, dalla parte della testa opposta al muro.
Lei è schiacciata con l'orecchio piegato verso dentro, dalla parte del muro, e con la punta dell'ombrello dall'altra.
Le intima feroce di tirar fuori le chiavi, di dirgli dove cazzo le abbia messe: DI DIRGLIELO PORCA PUTTANA!!
Lei è terrorizzata, muta, in black out.
Anche i pensieri lo sono.
Tranne uno.
L'unico sopravvissuto nella bolla vuota e nera che ha in testa.
Dice “controlla in tasca papà”.
Lui dice “no cazzo non son mica scemo dio can”, ma in quel preciso istante, la mano, autonomamente, lo fa;  fruga in tasca e ne tira fuori le chiavi che tintinnano senz'allegria.
C'è un istante di pura immobilità in cui tutto è fermo, inerte.
Il tempo, i pensieri, il male: tutto sospeso.
Un attimo dopo lui crolla.
Scivola sulle proprie ginocchia e da quella posizione le chiede scusa, strofinandogli la faccia sui vestiti, piangendo un pianto sporco, le cui lacrime odorano di merda e di piscio e di bile e di alcool e di pillole.

Mentre raccontava, lei era regredita fino a ridiventare quella bambina.
Mentre parlava, guardando distante l'orizzonte vicinissimo a causa di una nebbia crescente, aveva il tono di chi non sa collocare quel terrore fuori di sé.
L'amico taceva.
Ascoltava.
Accoglieva disgustato la trasmissione del suo disgusto.
Le chiedeva se in lui ci fosse mai stata una traccia di pentimento.
“Sì, forse c'era”, risponde lei. Ma lo dice con un tono che ne sancisce l'inutilità, il ritardo, l’irrilevanza.

“Era cattivo!
Ho ancora la cicatrice sulla fronte di quando mi ha sbattuto con una spinta distratta contro l'angolo del tavolo da cucina. Lo faceva, e se ne pentiva. E un altro segno che per fortuna non sono costretta a guardare, proprio qui sulla schiena, vicino a dove finisce la colonna vertebrale.
E poi dei segni dentro di me. Come quando mi costringeva a guardare mentre penetrava mia madre. Lei stava già morendo fisicamente, la malattia se la stava mangiando. Mi guardava, lui, perché lei girava la testa dall'altra parte; aveva uno sguardo quasi tenero, come volesse farmi capire che l'amava ancora, anche se lei faceva schifo. Come a dire che potevo fidarmi, che lui amava per sempre”.

L'amico, seppur muto, concordava: era cattivo.
Di una cattiveria che non aveva mai conosciuto. Sapeva, perché lo aveva letto in quell'articolo, che la cattiveria esiste in ognuno di noi. È uno stato naturale, che può anche salvar la vita, cancellato però dalla morale che la nega e la relega all'altro: mai a sé.
Ma non l'aveva mai sfiorato a quelle profondità.
La nebbia si faceva sempre più presente, inghiottendoli.
La città era sparita, nascosta dentro quel vapore freddo.
Ad un certo punto non sapevano più dove fossero.
La nebbia aveva cancellato i confini e, senza preavviso, insieme, avevano iniziato a ridere del fatto che si erano persi.
Perdersi aveva tanti significati, quella mattina.
Ridevano, avevano chiesto informazioni, erano tornati in carreggiata.
Dopo essersi persi, in fin dei conti, non si può ritrovarsi.

Il cimitero era grande.
Immerso nella nebbia il cancello d'entrata  li accoglieva, finalmente.
Sbrigavano le questioni burocratiche efficacemente.
Tornavano in auto leggeri.
Partivano trovando subito la strada.
Uscivano dalla città e lasciavano là il cattivo.
Non disturbava più ormai.
Ora parlavano d'altro e  tacevano, anche, senza più peso.

La mattina sfumava ed era l'ora dei saluti.
Facevano ancora un pezzo di strada insieme e poi ognuno andava per la sua strada.
Quando l'amico era rimasto solo, ripensava a quel che si erano detti.
Una sensazione che non aveva forma stava per diventare una domanda: dove poteva depositare, tutto questo peso?
Non lo sapeva di certo; quel che sapeva, è che doveva in qualche modo digerirlo e trasformarlo in energia.
Dopo un po' ci si abituava all'abisso degli altri, diceva l'articolo.
E però non si smetteva mai di vibrare ad ogni nuova emozione, pena la fine della possibilità di entrare in relazione.

Decideva così di scrivere una lettera alla rivista.
L' articolo suggeriva che uno dei metodi migliori è scriverne. Diceva che la scrittura aveva il potere di trasformare quelle angosce, di alleggerire il carico emotivo di chi ne veniva in contatto.
E così aveva fatto: una bella lettera che però non aveva mai vista pubblicata sulla famosa rivista.

…”

domenica 17 novembre 2013

Franco Arminio a Venezia

Incontro con Franco Arminio

Sabato sera in una libreria gremita - la Marco Polo di Venezia, piena di gente  seduta, in piedi e fuori -, l’incontro con Franco Arminio, poeta e persona straordinaria, contraddittoria, dalla mistica involontaria.
Lo confesso: temevo di rimanere deluso dopo anni quasi mai deludenti di incontri e letture in rete; si sa che le persone e i personaggi che incarnano, quasi mai vanno d’accordo.
In questo caso invece no, la concordanza c’è, e supera le aspettative - si dovrebbe aprire una parentesi sul cinismo e la diffidenza che ci abita a causa dei tempi moderni, dei trasformismi, della finzione cui la vita pare costringerci, a cui ci si può ovviamente ribellare essendo disponibili a pagarne il prezzo -.
L’uomo e il poeta grafomane convivono in un unicum; convivenza resa possibile solo in caso di arresa, di accettazione di quel che si è, di armonia con la propria precarietà.
Tutto il racconto di Arminio - paesologo, non-scienza che vede in lui il maggior e unico esperto, anche se si sta formando un corpo docente di tutto rispetto - segue le direttrici del fare qualcosa per fermare l’assurdità del vivere attuale, per interrogarsi, per stare insieme e mettere le basi di una rivoluzione dello status quo, che nessuno sa come si fa, ma per il solo fatto di stare insieme, si è già iniziato.
Il paesaggio geografico e quello interiore vivono e muoiono in simbiosi: nevrosi, psicosi, bellezza, sofferenza, gioia, dolore viaggiano paralleli dentro e fuori.
Si può fare paesologia andando in un paese, sedersi su una panchina,  passeggiare, guardarsi intorno, ascoltare, parlare, toccare; donando e ricevendo coi sensi e coi sentimenti e con le emozioni ciò che il posto ha e è.
E intessere così relazioni col mondo, con gli esseri umani, con la terra e l’aria e gli animali.
Soli si muore, e in solitudine.
Mi è parso di capire che chieda solo di essere pensato, scritto, disegnato, comunicato, ricordato, e soprattutto abbracciato.
Ecco, la rivoluzione potrebbe iniziare dai sorrisi, dagli abbracci, dal finirla di nascondere le proprie ferite, le debolezze, le fragilità.
Arminio è un monaco che ha bisogno d’amore: ricevuto e donato.
E ne scrive compulsivamente
E non se ne vergogna.
E io lo ringrazio per questo.

venerdì 15 novembre 2013

Librai per un giorno

Iniziativa a Venezia il 30 Novembre

Continua la collaborazione tra librai e scrittori. Dall'evento "Venezia città di lettori" sono scaturite diverse idee: la partecipazione attiva ad "art night" con la staffetta librerie-scrittori, il progetto "piccoli maestri" - vedi link -, e adesso quest'ultima.
Alcuni scrittori saranno in libreria e consiglieranno letture agli avventori.
Io sarò a Mare di carta alla mattina. Ho pensato di proporre, vista la caratteristica della libreria, specializzata in libri di mare - di cui so molto poco, e quel poco è già presente negli scaffali della stessa -, di affrontare il tema del viaggio: sia esso classicamente inteso, oppure nella versione del "viaggio interiore". Scartati appunto i classici, che uno conosce già, ho ritenuto di proporre alcuni dei libri che ho amato, che c'entrano col viaggio, e che magari sono meno richiesti, soprattutto in una libreria specializzata.
Ecco la lista di libri che ho concordato con Cristina Giussani:

- Shantaram David Gregory Roberts Neri Pozza
- Signore delle lacrime Antonio Franchini Marsilio
- La lucina Antonio Moresco Mondadori
- 2666 Roberto Bolano Adelphi
- Middlesex Jeffrey Eugenides Mondadori
- Verso la libertà interiore Jiddu Krishnamurti Guanda
- Il libro dell'inquietudine Fernando Pessoa Feltrinelli