lunedì 16 dicembre 2013

morte, bontà, scrittura

Questi giorni sono caratterizzati dall’attesa di imminenti lutti: ben tre, ad allietare questo dicembre.
Non so se sia giusto parlare di sé, rivelare nomi, circostanze, fatti. Conosco del resto solo un paio scrittori che sappiano farlo dominando le parole; e io non sono ovviamente tra questi ( mi riferisco a Busi e Moresco ).
Dirò solo che sono della mia famiglia, che due di questi sono da collegarsi all’età e uno alla malattia: e che in tutti e tre, il denominatore comune è la certezza della fine, e il sollievo per un’esistenza che non è più tale da qualche tempo.

La morte non è mai ben accolta, e molte persone trascorrono l’intera esistenza temendola, che è quantomeno un errore strategico cui difficilmente si potrà rimediare.
La vita è piena di momenti eterni, salvifici, incantevoli; e parimenti di schifo, dolore, pena: sono appunto momenti, e quindi passeggeri.
Solo la consapevolezza, l’attenzione possono salvarci dallo spreco di quest’occasione unica. Un’attenzione che insegna che c’è una qualità, una verità altra, alta, che non è quel momento, bello o brutto che sia.
Mi piacerebbe concludere parlando della bontà, che ho incontrato poco nelle molte persone che ho conosciuto. Una bontà che può essere confusa con la debolezza, l’arrendevolezza, l’indifferenza, la sottomissione, e che è invece comprensione e compassione, nell’accezione non strettamente cattolica con cui siamo abituati a usarle.
Ecco, nei confronti di queste poche persone, provo un grande senso di pace e di gratitudine, e sento di aver imparato forse molto più di quello che merito.
Posto un racconto che forse non lo è ( tecnicamente racconto ), ma che invito comunque a leggere.



dedicato a mia madre Carla e a Giorgio

SOLE RISCALDAMI

Quando apro gli occhi il torpore si attenua e una spinta vitale mi riporta alla realtà. È una spinta leggera, più simile a una carezza che a un gesto violento.
Ogni volta sento che questo è una sorta di piccolo miracolo quotidiano.
Lo sentivo anche prima, anche quando non ci facevo caso, quando tutto pareva scontato; solo che non badavo a niente: né a me, né al resto. Tutto era un automatismo continuo cui io partecipavo in forma separata, come ci fossi ma anche no, alternando presenza ed assenza, senza scegliere.

Per alzarmi mi metto sul fianco destro e contemporaneamente pianto le braccia sul materasso e spingo le gambe fuori dal letto, ruotando fino a raggiungere la posizione seduta.
Il prezzo delle ore passate quasi immobile nel sonno lo pago subito, appena desto, appena occhi, collo, schiena, stomaco si devono riallineare alla posizione verticale.

Guadagno a fatica la tuta da ginnastica che avevo appoggiata alla sedia e stando attento a non forzare la schiena, la indosso.
È mattina, mi dico.
È mattina e sono ancora qui, penso.
Sono vivo, respiro, e già mi basta.
Basta poco ormai per arrivare alla sufficienza: basta il soffio leggero dell'esistenza, il battito del cuore, la luce del giorno, il profumo dell'aria.

Questa mattina il sole mi accarezza.

Con il suo calore, scioglie la tensione, donandomi una sensazione di pace e serenità.
Ho un rapporto molto attento con il corpo adesso: prima, quasi non mi accorgevo esistesse; mi ci facevo ospitare, lo abitavo, gli donavo momenti di bellezza, in cambio della sua fedeltà. Lo nutrivo e assecondavo i suoi bisogni primari, partecipando distrattamente a questa convivenza paritaria, implicita.
Un rapporto formale, quasi di separazione, di non ingerenza: “ tu non disturbi, corpo donatomi in dotazione dal destino; in cambio io ti accetto e curo la tua manutenzione”.
Ora invece lo accolgo e lo ascolto; mi ci sono affezionato: gentile, disponibile e spontaneo com'è. Ora siamo un unico essere, momentaneamente vivente.
Ho ridimensionato la gerarchia del valore (corpo-mente-anima) in senso orizzontale; facendone un tutt'uno, un'unità che esiste in sincrono, con una dolcezza e un'armonia che mai avevo provato prima.
Convivo con la stravaganza esistenziale secondo cui più si sta male, più ci si accorge di quanto sia bello e prezioso stare bene.
E così la mia storia di adesso si fonda e vive su una contraddizione: sono risorto dall'ottundimento insapore di una vita assente, grazie alla presenza del male.

E ora, quando penso a me, penso ad un me intero, integro. Non sono più un assemblato di componenti diverse messe assieme dal caso biologico.
Ogni giorno è scandito da ritualità necessarie: mi prendo cura di questo corpo ferito, provato. Ogni giorno la mia preghiera, ingiuriosa e blasfema, guidata dalla mistica della necessità, è rappresentata dalle cure attente che mi rivolgo: la mia mano dolce, delicata, va attorno alle ferite, agli herpes, e spalma con meticolosa pazienza la pomata, l'unguento.
Ho oramai la precisione del chirurgo che opera, la pazienza dell'asceta che medita.
Io, sciamano improvvisato dell'autoguarigione, lavoro a cerchi concentrici, zigzagando attorno, vicino o lontano, in periferia o al centro, con i cerotti, le fasce, le bende bianche, morbide.
E in tutto questo, ho ritrovato l'amore non narcisistico.
E' la scoperta del gesto attento, sottile: è il contrario dell'autoflagellazione: è carezza benevola. E quest'amore risiede nel momento presente, nell'attenzione.

Niente più inutili deviazioni: attenzione, semplice attenzione.

La lezione imparata: sì, l'amore è possibile, l'attenzione è possibile.
E però mi chiedo perché non riesca ad esserlo sempre, attento e amorevole.
Spesso, infatti, non lo sono. Spesso sono nervoso, ansioso, irascibile, come quando stavo apparentemente bene.
Ma poi subito mi dico che no, no: non devo ricominciare con le domande, ricadendo di continuo nelle trappole del giudizio, della certezza logica.
Le domande richiedono risposte, che riaprono altre domande, in moto perpetuo, all'infinito. Sembra un inutile esercizio filosofico che offre palliativi patetici, sicurezze incerte, che talvolta quieta la spasmodica ricerca di un senso, ma che in realtà non dà sostanza a niente.
Per come abbiamo ridotto la filosofia - noi esseri umani, genitori degeneri-, questa è diventata la sconfitta della felicità.
Sì, perché il pensiero, il continuo ruminare pensieri, si contrappone all'esistere.
Domande e risposte e domande: l'inerzia si contrappone al fluire.
Non sappiamo più guardare e vedere, senza catalogare l'osservazione stessa; non sappiamo più ascoltare il silenzio, senza sporcarlo con inutili e impossibili definizioni.
Vogliamo definire l'indefinito, dire l'indicibile, rappresentare il mistero. Abbiamo perfino la pretesa, superbi come siamo, di parlare del silenzio.

Mi viene in mente il giorno in cui ho saputo; quando ho ritirato il referto medico nel quale si annunciava la sentenza.
Una frase secca, perentoria e al tempo stesso asettica, neutra, mi definiva con l'aggettivo derivante dalla patologia da cui ero affetto. Sarei rimasto in compagnia di quell'aggettivo per la vita che mi rimaneva.
Ricordo lo stordimento; ero stupefatto, con un foglio di carta in mano, prossimo alla tragedia, allo svenimento, all'annullamento di tutto.
Io, perché?
Perché proprio a me?
E giù in picchiata velocissima. Giù, giù, giù.

Sempre più in basso, fino a vedere, a toccare il nero del mio dramma.
Senza appigli, senza difese, una discesa all'inferno, nel buio ovattato della deprivazione sensoriale di chi rifiuta, non accetta, non trova giusto e non vuol sentire, sapere.
E più cadevo, più le vertigini mi facevano vorticare a spirale come in un incubo, in una visione allucinata, in un film in cui si voglia rappresentare il percorso che porta all'oblio di sé. Lo stesso principio dello svenimento: quando si raggiunge uno stato intollerabile il corpo si difende togliendo intensità, lasciando un vuoto che renda sopportabile l'insopportabile.
E quindi.

Stato depressivo, convivenza forzata col proprio personale lutto.

A lungo, molto a lungo.

Trasformazione dilatata del tempo che si allunga fino al parossismo.
In quello stato ogni istante è lungo perché inutile; qualsiasi cosa è inutile perché senza significato, qualsiasi persona è fonte di invidia: perché lei no e io sì?
Perché l'ingiustizia si vendica con cieca e gratuita crudeltà nei miei confronti?
E poi, se si riesce a sopravvivere allo squarcio delle illusioni, anche questo lentamente passa, concede spazio alla consapevolezza che bisogna farsi aiutare.
Questo, quando funziona, innesca un lento processo necessario all’acquisizione della fiducia: bisogna affidare il proprio corpo, la propria vita, al sapere scientifico: pur sapendo che la scienza è per definizione inesatta, che la conoscenza è transitoria e destinata per sua intrinseca natura al tradimento, dalla successiva scoperta che non sarà mai definitiva, ma sempre un'eterna approssimazione.
Apertura, rinascita, ricostruzione.
Ho iniziato ad accettare, a stare meglio.
Ci si chiede, io l'ho fatto, cosa sia la morte, quanto tempo resta, cosa ci si perderà di questa vita imperfetta a cui ci si attacca come agonizzanti sopravvissuti.
Ci si trova morbosamente attaccati a qualcosa che prima nemmeno ci si accorgeva di avere.
Si è costretti a sbagliare bersaglio, argomento, obiettivo.
Sì: ci si pone le domande sbagliate, si capovolge il senso naturale della prospettiva.
Infine ho intrapreso un cammino assieme ad altre persone - un lungo cammino-, in cui ho associato medicine a parole, pensieri a fatti, sentimenti messi a nudo a dichiarazioni di debolezza e di forza.
Ho capito che dovevo ammettere di avere paura; sentivo di doverci convivere, di doverla giocoforza abitare.
Ho intimamente compreso che l'ammissione della propria debolezza è in realtà l'esordio della propria forza: solo chi ammette e accetta ciò che è, interamente, senza escludere una sola cellula di sé, può dirsi totale, completo, unito.
È un'unione sbilenca, lo so; è precaria, instabile, ma ha il sapore della verità, provata sulla mia pelle.
Unisce in un unico contenitore la parte sana a quella malata, da cui sorge una nuova forma vivente vicina al tanto agognato, in quanto assente, equilibrio.
E allora ho cambiato di nuovo presupposto e mi sono posto altre domande. Non più cos'è la morte, ma cos'è la vita.

Non mi sono più chiesto quanto mi rimaneva da vivere, ma come potevo dare finalmente qualità, vitalità al tempo che mi restava.
Pian piano, passo dopo passo, senza esserne immediatamente cosciente, sono entrato in uno stato che assomiglia alla grazia, un po' forzata e posticcia, dell'accettazione.
Il tempo, le cose, le emozioni, le sensazioni, hanno iniziato ad avere un gusto nuovo.
I miei occhi hanno iniziato a vedere in modo diverso, a percepire nuovi colori, nuove sfumature.
Le mie orecchie, il mio naso, tutti i sensi sono come risorti e hanno cominciato a cogliere la straordinaria, e al tempo stesso semplice e banale, potenza e meraviglia della realtà.
Una realtà scaturita dalla coscienza che quella creduta fino a quel momento, non era la realtà, ma una comoda illusione fondata sull'accumulazione culturale, politica, psicologica.
Il segreto interiore di chi si risveglia dal lungo sonno è la capacità di vedere con rinnovato spirito ciò che esiste, senza deformazioni o interpretazioni.
Vivere quel che la vita è, non quello che dovrebbe essere.
Questa la storia che mi porta all'oggi, al difficile percorso di chi deve affrontare una storia terribile, ma che comunque, palese o incomprensibile, ha un suo senso intrinseco.
Non so se potrei dichiarare di essere contento così; anzi, sicuramente no, avrei preferito accostarmi in altro modo a me stesso, ma ho imparato che questo è uno dei modi possibili. Adesso sto al mondo con leggiadria e scioltezza, come viene, senza pensare a ciò che per gli altri possa significare.
E so che devo migliorare il mio saper stare con gli altri.
So che quando giudico, mi arrabbio, mi chiudo, non posso incolparli: devo fare i conti con la mia diretta responsabilità.
Porto a spasso i segni di quello che sono senza più disagio, stando attento a non ostentare, ma neanche a nascondere a tutti i costi.

Alcune volte passeggiando incontro conoscenti, e capita spesso che queste mi rivolgano complimenti particolari: “ ti vedo bene: cioè molto magro ma sereno, con uno sguardo diverso, rilassato”.
Queste persone mi riportano alla contraddizione del mio status, mi aiutano senza saperlo a ritornare al presente, al benessere semplice, alla malattia salvifica.

Domattina faccio gli esami del sangue e ritiro gli esiti di quelli della scorsa settimana.
Come uno che ha una dipendenza da gioco, fremo per i miei numeri; quei numeri dai quali dipenderà il mio essere sereno, o depresso, nei prossimi giorni.
E anche se vivo ogni nuovo giorno con gratitudine, come chi assiste ad un miracolo, c'è l'ansia di scoprire se questo durerà ancora a lungo o se si sta esaurendo; se dovrò aumentare i farmaci che, veleno, stordiscono stomaco e fegato.

Il mio culo, spesso piagato dalle conseguenze della terapia, ha bisogno di calma, di pause lunghe, di intervalli che gli consentano di rimarginare le ferite.
Sangue, tessuti, viscere, carne, ossa, il frullato perfetto di cui è composto il mio corpo paga, risponde a quei numeri, a quei valori.
Ormai sono un guardiano accorto e, come un addetto alle trasmissioni in tempo di guerra, capto e traduco qualsiasi segnale in anticipo: so cosa succederà e come dovrò agire di conseguenza.

Il dolore carnale mi è servito ad imparare lezioni concrete.
Le reazioni rabbiose degli organi offesi servono a segnalare, attraverso il malessere, un chiaro monito alla moderazione, alle sane abitudini.

E' singolare come lo stare bene, quando si sta male, crei nuove dipendenze, nuovi bisogni: ho totalmente eliminato qualsiasi fonte di disequilibrio, tendendo, spesso rigidamente, alla disciplina.
Certe volte mi chiedo come possa essere vista, da fuori, la mia malconcia estetica malata.
Mi capita, quando mi curo, di osservare con maniacalità un pezzo di carne rinsecchito, il colore opaco e scuro di un ematoma, la fluorescenza rossastra di una ferita; mi accorgo di amare quello che vedo perché è una parte di me, un segno del mio vissuto.
Quando ero ragazzo le brutture sporcavano la mia sensibilità di perfezionista; nei, lentiggini, peluria, erano un'inaccettabile scortesia nei confronti del bello.
Con l'andar del tempo, invece, mi sono ritrovato a baciare, leccare, ogni forma di “escrescenza” che trovavo nelle persone che ho amato.
Mi ha colpito e quindi la cito, la dichiarazione di una donna che stava con un tizio famoso, la quale alla domanda “ ma cosa ama di lui?”, dopo aver brevemente pensato, ha risposto “ i suoi difetti!”.


Mi guardo allo specchio; nudo, vestito, in mutande, e cerco di carpire dal riflesso, come mi presento, cosa svelano i miei segni, quali storie il mio corpo racconta.
Capisco allora, ogni volta, che dipende soprattutto da chi si ha di fronte, da chi c'è dietro agli occhi che ti guardano; quali esperienze, quale sensibilità abbiano; cosa sappiano vedere, guardando.
Tra poco ci sarà lo scambio di massaggi con mia moglie: io massaggio lei, lei massaggia me. Ci facciamo di frequente questo regalo che rilassa e scioglie le tensioni, i grumi attorcigliati e tirati dei blocchi che, giorno dopo giorno, accumuliamo e mandiamo in zone remote a formare un puzzle che poi diventa malattia.

Anche questo rito è cosa da poco, ma sembra un lusso, una concessione di tempo che ci convinciamo sempre di non avere, e che magari sprechiamo con abitudini stupide ed inutili.
Questa mattina il sole scioglie il freddo del cuore, dello stomaco, e restituisce allegria e gioia. Tra un'ora o forse domani pioverà.
E io voglio solo godere del caldo del sole quando c'è; e quando ci sarà la pioggia voglio goderne il rumore, il ritmo; quando tocca alla nebbia il mistero; e con la neve il candore e la sofficità.

Qualsiasi situazione è destinata a passare, qualsiasi stato d'animo è transitorio; dipende solo da me esserci, notarlo, goderlo, apprezzarlo perché non farà niente per farsi notare: esisterà semplicemente e sarà sempre a disposizione.
Sarò io a renderlo immortale, unico.
Per l'anno a venire prevedo trecentosessantacinque giorni.

Non so se li vedrò tutti, anche se lo vorrei.
Eppure la malattia mi consiglia di guardare l'oggi, di vivere ogni istante con pienezza.
Il futuro è materia ostica, esiste per rimandare ad un indefinito dopo la responsabilità di come si è ora.

Allora concludo dedicando un pensiero proprio a questo : dipende da me ogni singolo, prezioso momento della mia vita.

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