venerdì 25 ottobre 2013

Report di un'esperienza collaterale alla biennale 2013

Report progetto "libera tutti", sede Caritas, Arsenale, Venezia, nei giorni della Biennale 2013 1 L’appuntamento è alle 14 alla Biennale dell’Arsenale. Arrivo, dopo una mattinata di corsa: un concorso a premi per studenti, cui sono stato invitato a testimoniare l’esistenza corporea di uno scrittore, a raccontare brevemente l’esperienza di “Venezia città di lettori”, a dire la mia sulla passione per la lettura e la scrittura, a leggere una poesia di Carver. Tra questi due eventi, un panino con le olive, formaggio stravecchio, mortadella biologica vegetale; l’attraversamento di una città media, con tempi di percorrenza da metropoli ( la terraferma e Venezia sono amministrativamente una, ma urbanisticamente molte). Per strada almeno una dozzina di Yachts - e forse anche di più - degni di Montecarlo; una marea di gente che se la gode prefigurandosi già il ritorno a casa, dove potrà dire di essere stata a Venezia, città folle di folla, di arte e artisti, di bancarelle made in china, di rumeni vestiti da carnevale per farsi fotografare con obolo, di venditori di ogni dove, di trecento idiomi in pochi metri quadri. Arrivo, Camilla è già là con Andrea, il capo, e i suoi collaboratori - o soci - italiani e francesi, con espressioni e modi di chi pratica il mestiere dell’arte. Entro nella sede in cui si svolgerà l’incontro con gli abitanti del dormitorio Caritas, che faranno con noi questo progetto, in cui l’arte servirà come tramite per una maggior consapevolezza di sé, di come si muovono in città, di cosa vogliono, cosa fanno, chi sono. Sì, certo; ma non posso nascondermi il pensiero che si possa ribaltare il concetto, e che l’arte abbia bisogno di sempre nuovi soggetti per svilupparsi, ampliarsi, penetrare nuovi ambiti, scuotere nuove coscienze, vendere stupore con forme incomprensibili. Un nutrimento reciproco, un mutuo aiuto muto. In realtà, già dal primo approccio, si capisce che qui, di muto, non c’è nessuno. Tutto è frizzante, eccitato, pregno dell’euforia che anima le esistenze che sfiorano la biennale di arte più importante del pianeta terra. E nemmeno gli oggetti, sono muti: la mensa è una stanza verde, i tavoli in legno, gli sgabelli dove sediamo, il cortiletto, la cucina, l’ufficio dove deposito lo zaino pesante ( che ho portato con me per non sentirmi sguarnito, solo, nell'incomprensibile abbaglio); tutto pulsa di restauro, di resurrezione, di superfici rimesse a nuovo, di sudore e di confidenze che i restauratori, gli ospiti del dormitorio, hanno concesso loro, nell’irrefrenabile logorrea che da lì a poco avrei tastato col corpo, coi sensi, con un sottile piacere dovuto al contatto relazionale. Andrea è ebbro di felicità, non si ferma mai, parla tre-quattro lingue, interrompendo i discorsi, per riprenderli nel punto esatto in cui li aveva lasciati per interloquire con il nuovo visitatore. Tesse le lodi del suo progetto come solo gli addetti stampa sanno fare: facendo iperboli, gonfiando il senso, facendo compiere alle parole capriole estetiche, sottintendendo plurimi significanti. E’ allegro e simpatico, intelligente, e presumo che dopo, concluso il tutto, l’energia spesa produrrà un down abissale. Lo dico non per banale giudizio, ma perché conosco quel tipo di eccitazione adrenalinica che sorregge corpo e spirito, che si conclude con lo schianto, del corpo e dello spirito, nella sbadigliante normalità quotidiana. We can be heroes, just for one day. E per oggi dovrei, assieme a Maurizio, il giornalista in ritardo per cause professionali, fare lo scrittore che traduce in parole, un clima e un’esperienza, con i simpatici ospiti del dormitorio, che uno alla volta si stanno presentando. Tutto è un flusso energetico eccitato; tutto è contagiato dalla palese follia artistica; tutto è ciò che qui, ora, dev’essere: siamo alla biennale di arte di Venezia, baby, e ce la giochiamo fino in fondo. Insomma, per essere degli eroi, oggi, ci tocca aspettare le 15.30: un’ora e mezza dopo l’orario fissato. Tutto è relativo, il tempo è un’invenzione umana che non si sposa bene con l’arte di essere artista, il postdatato è un neologismo già caduto in prescrizione, la puntualità è una minchiata borghese. Le colleghe di Andrea sono molto belle, e hanno l’aria, lo sguardo, le acconciature, l’eloquio, il look di chi, nei vernissage, è un habitué. Il mio personale ottundimento, invece, rende la mia inadeguatezza alla mondanità, un particolare senza importanza. Con Camilla e Serena, una giornalista free-lance dell’Eco di Bergamo e del Manifesto, guadagniamo il bar pizzeria che sta nel campo attiguo alla struttura. Prezzi, trattamento, da grandi occasioni: stai per farti fottere, caro, ma goditi lo spettacolo d’arte varia. Attorno a noi un flusso inarrestabile di gente. Tutti sono carichi, attentissimi a sembrare indifferenti. Tutti vestono come se l’arte avesse un codice interiore che solo loro conoscono. Accanto a noi una coppia con lineamenti da russi morti di fame ma artisti; lui indossa una giacca lilla, una maglietta forata bianca, una collana degna di Scampia; lei, come lui, è scavata in volto, una frangetta netta, un soprabito sottratto a Wanda Osiris, tacchi altissimi. Parliamo di Venezia, di Bergamo, di cinema, di arte, di prossemica veneziana, di profitto che tocca sempre agli altri, che per noi la gratuità è la condizione esistenziale. Il tempo vola, la gente sembra traboccare dal nulla, invade ogni spazio. L’esercito di bengalesi assunti in nero per fare i camerieri continua a passare a velocità supersonica lasciando galleggiare nell'aria idiomi anglosassoni speziati. Controlliamo l’ora: è l’ora, ci diciamo; ci alziamo, paghiamo il conto. All’interno del locale il brusio è un’onda sonora poliglotta insopportabile. E’ pieno di belle ragazze, di bei ragazzi, di bella gente. C’è un momento in cui tutto tace, tutto si ferma: un silenzio inverosimile ci avvolge, ci fa sentire vivi, vitali, grati di essere lì, in quel preciso momento, al centro del mondo. Un mondo in cui l'arte prova a uccidere l'artificio compiendo al contempo un delitto e un suicidio. Ma non è così: era solo un artificio letterario che ho inventato io, per concludere la prima parte. Parte 2 Eccoci seduti attorno al tavolone della sala mensa. Siamo una dozzina, in attesa di rimettere ordine alla rutilante sequenza di eventi subitanei. Andrea ci rispiega come fare, cosa fare, perché fare: lo ascoltiamo devoti, come timidi discepoli, ammirando in silenzio la sua energia vitale. Al tavolo ci sono sei ospiti della struttura, due scrittori, una giornalista, una rappresentante culturale del comune, due suore. Rompe il ghiaccio già rotto da Andrea, Alfio, il più colto matto simpatico estroverso circense del gruppo ospiti. Il suo esordio (toccando una copia del manifesto che ributta sul tavolo schifato): "i comunisti non li posso vedere". Compare in piedi Lupo, il poeta creativo vestito in polo, cravatta e giubbino: è l'addetto vendita delle scarpe-giusto-per-tirare-su-il-budget. Capelli bianchi, la sua età, lingua vernacolare (si esprime solo in venexian), dice che non vuole sedersi, che deve fare il suo lavoro, e se ne va. Cronache Alfio riprende con le massime: " chi non lavora non fa l'amore"; mentre lo dice, ridendo, balbettando leggermente, mette la mano in posizione e fa il gesto su e giù: è seduto davanti alle suore, le quali ridono amabilmente. Prosegue l'andazzo romantico con "quanta mona che ghe xe aea bienal" ( quanta gnocca c'è alla biennale: citazione colta da una celebre canzone dei pitura freska). E giù risa. Insiste, ormai conquistato il pubblico " l'unica cosa vera dei giornali è la data". Lo ripete più volte, come chi fa una battuta che gli piace. Sorridiamo. Livio dice ad Andrea di essersi fotografato il tatuaggio, e che possiede una digitale, per cui non ha bisogno dell'usa e getta che fa parte del kit con cui dovranno raccogliere il materiale diaristico, come prevede il progetto. Citazioni Wittgenstein dice “ tutto ciò di cui non si può parlare è maglio tacerlo”; “con te partirò”; “so di non sapere”, per cui mi metto nelle condizioni di assorbire ciò che non so, dagli altri; Socrate diceva “c’è chi sa e c’è chi non sa”; “I sofisti sono quelli della televisione”; “la volontà è un’energia che spinge ad agire”; “Socrate non ha mai scritto una riga”, dice un altro per non mettersi a scrivere; “voglio avere la possibilità di non scrivere tutto, di conservare una parte personale di riservatezza”. Glielo diceva anche lo psicologo, ma lui, per le stesse ragioni, non lo faceva; “va bene la comunione, il pane, il vino, ma prima vengo io”; “un bel tacere non fu mai scritto” Setting Come sempre, ad un certo punto, i gruppi numerosi seduti attorno ad un tavolo, si separano formando piccoli sottogruppi. Alla mia sinistra le suore con Camilla, Maurizio e un paio di ospiti; con me Alfio e Livio. Chiedo ad Alfio di spiegare la ragione per cui lui odia i comunisti. Si precipita nel racconto: cresciuto in una famiglia borghese, il padre capo della celere, la madre contessa, gli avevano inculcato che i comunisti sono più o meno merde parassitarie, e a non disdegnare i poveri, ma a denigrare la povertà. Lui riconosce di esserne stato fortemente influenzato, di non essersi mai emancipato da questa tara, che riconosce ingiusta, e tuttavia invasiva. Poi parla del cugino, cui lui ha regalato tutti i suoi libri d’arte, e che adesso è milionario, mentre lui è ospitato dalla caritas. Fa dei gesti espliciti, come chi sa di aver sperperato un patrimonio in agiti poco onorevoli, in vizi costosi; aggiunge che “i gemelli sono idioti geniali”, in riferimento al suo segno zodiacale. Ride beffardo, ride di sé, si riconosce in quella geniale idiozia; ma “idioti come l’idiota di Dostoevskij”. E giù un campionario di descrizioni bignami del maestro e Margherita, di Anna Karenina. E Livio, che racconta la sua storia di anarchico argentino, figlio di immigrato siciliano, scappato in Italia nell’86, dopo aver vissuto la spaventosa inflazione del 76, ma contento di essersi risparmiato quella del 2001. Parla di Borges, di Cortazar, di Bolano, di Che Guevara, di Papa Francesco, del Lumfardo (il dialetto di Buenos Aires, all’inizio di pochi, poi diffuso ovunque), di Alreves (il linguaggio per cui pronunciano le parole al contrario per non farsi capire dai non argentini), e mentre Alfio continua a ripetere che “però lui, mica scemo”, lui risponde appunto che “non è scemo, ma solo un disagiato sociale”. Il tempo passa, le confidenze continuerebbero ad oltranza, ma c’è da andare. Ci si vorrebbe scambiare più cose, più tempo, più parole. Si sa di aver fatto “arte povera”, mentre quella ricca, ufficiale, in mano ai critici, ai galleristi, ai finanzieri, è solo una sorta di troia incomprensibile, a volte affascinante, più spesso irritante e indisponente. "Questi si vestono come dei buffoni, e fuori dal contesto sarebbero scambiati per pagliacci". Forse è vero, forse i segreti della biennale sono anche in questi incontri, in queste utopie che oscillano tra il caricaturale e l’esistenziale, tra i barboni e gli artisti, tra i galleristi e gli artisti che vivono con le pezze al culo pur di incarnare eroi puri, nudi, estetici, estatici. Il progetto prevede che gli ospiti andranno in giro per i padiglioni e fotograferanno e scriveranno cosa pensano dell’arte concettuale avanguardista postmoderna. Sono quasi certo che qualcuno alzerà il dito e dirà che “il re è nudo”, e tutti a farsi una grassa risata. La risata di chi ha vissuto l'impermanenza, la relatività, la disgrazia, le gioia di essere ancora vivi, nonostante. Cristiano Prakash Dorigo

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