martedì 26 marzo 2013

Orlando, teatro, pioggia, parole e piccole felicità

Sabato sera sono andato a teatro, il teatro della Murata di Mestre, uno dei pochissimi cosiddetti  "teatri off" della città.
Ne ho parlato più volte, e rischio di ripetermi, ma, citando il mio amico Lorenzo, "è il più bel teatro della città"; e per città si intenda comune, e quindi Venezia, dove la concorrenza è forte.
Lo spettacolo "Orlando Orlando" ha vinto dei premi, meritati a mio avviso: non sono esperto di teatro- non sono esperto di niente, io, a dire il vero-, per cui baso il mio giudizio su pochi elementi basilari. Uno di questi, ad esempio, in un teatrino minuscolo con il palco a due metri dalla prima fila, è che un'ora e venti di monologo liberamente tratto da un testo della Woolf, è stato un tempo giusto, calibrato alla perfezione, per non annoiare, ma nemmeno per lasciarti col rammarico della brevità; oppure che un giovane attore molto bravo, gli espedienti della regia e dello scenografo, nonché di chi ha pensato la colonna sonora, sono riusciti nell'intento di raccontare una trama, stravolgerla il giusto, arricchirla con qualche osservazione, a volte acuta, altre ammiccante ma mai ruffiana.
Ma la misura vera, la verifica autentica, la raccolgo alla fine, per strada, mentre ascolto la pioggia che batte sull'ombrello, il silenzio della sera, il movimento interiore che corrisponde all'eco di quello cui ho assistito. E sabato, mentre il vento piegava l'ombrello, il freddo ghiacciava la mano, io stavo bene e mi sentivo centrato.
Per metà spettacolo l’attore rimane in mutande, avvolto a tratti dalla coperta che usa come vestito della neo donna Orlando, trasformatasi da maschio a femmina, causa amore perduto.
Leggendo “Limonov”, nella parte di libro che racconta la sua permanenza newyorkese, viene descritto il suo periodo omosessuale, in cui ha dei rapporti sessuali con dei neri, da cui si fa inculare, come lui stesso racconta in un libro autobiografico. Secondo l’autore, fa questo perché era stato lasciato dall’amatissima moglie, che lui inculava con grande gioia, e che per sublimare il suo tormento, in qualche modo si immagina di essere lei durante l’atto sodomita.

Pensavo a questo sabato, uscito da teatro, sotto l’ombrello, con le mani ghiacciate, con le oscure sagome notturne che vedevo lontane, camminare come me da sole, immaginandole coinvolte, com’ero io, da uno stato d’animo gentile, ma al contempo tumultuoso.
Pensavo che la scrittura, e ancor più la lettura, siano un atto che predispone alla rivoluzione interiore, che siano necessarie alla comprensione, ma questo lo sappiamo tutti.
Se invece si ha la fortuna e il coraggio di incontrare certi scrittori, diventa un atto più prorompente, squarciante, e può condurre in dimensioni che non si conoscevano, che non si immaginavano.
Sono arrivato a casa bagnato e infreddolito, ma felice. Lo ero perché quel ragazzo in mutande, che ha recitato a memoria per un’ora e venti, che all’inizio era un uomo, poi una donna, poi un giovane scrittore rifiutato che cita e ascolta gli Smiths, mi aveva accompagnato attraverso un testo che confermava quanto ho appena scritto.

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