domenica 31 marzo 2013

Jannacci e Califano, el dutur e er califfo

Quando muore uno famoso, di solito non mi sbilancio emotivamente: è uno che non conosco, se non per interposta persona, per interposto mezzo di comunicazione, sia esso libro, giornale, disco, film, e tutto il resto.
Ma ci sono le eccezioni: ci sono persone che oltre a incarnare il personaggio, si lasciano scoprire per quello che sono. Sono pochi, e spiccano per questa stessa contraddizione: essendo i più, appartenenti al gioco della messa in scena di sé, quelli che non accettano questa regola, si notano.

In questi ultimi due giorni sono morti due artisti diametralmente opposti: Enzo Jannacci e Franco Califano. Uno milanese, l’altro romano, con stili e modi molto prossimi all’essenza di queste due grandi città, se parlando di queste, ci si concede l’idea di “essenza”, di “identità”. Entrambi, ciascuno a suo modo, che non potrebbe essere più diverso dall’altro, hanno cantato e descritto una certa umanità, un certo modo di stare al mondo, il sentimento che ne ricavava lo sguardo, quando mette a fuoco qualcosa di basico.
Nella vita si mangia-si beve-si dorme-si caga e si piscia, e questo vale per tutti. A tratti, tra i bisogni primari e i giochi estetici e morali, variabili col variare dei tempi, c’è qualcuno che nota che c’è qualcosa in più; e qualcun altro che perfino riesce a distinguere dei particolari insignificanti, fuori della storia. Appartengono a quelli che non hanno niente da dire, che non lo sanno raccontare, che annoierebbero subito chi ascolta se anche provassero a farlo. Non è semplice raccontare le non storie, descrivere le non vite, assurgere a trama la noia piatta dei nessuno che appartengono alla massa informe che nemmeno lotta più, che aspetta di finire il turno per andare al bar o in divano a riempire il proprio vuoto con il niente.

Un signore schizzato e borghese, e un borgataro cor pelo sur petto. Uno incomprensibile  e stonato, e perciò poeta: l’altro esplicito e impudico, cor vocione grosso, e perciò altrettanto poetico.
Entrambi però accomunati dall’autenticità di chi lascia entrare in sé la grazia e l’amarezza, perché la vita è così. Entrambi imbevuti di ideologie, tra l’altro formalmente opposte, ma accomunati dal bisogno di stare con gli altri, anche se non la pensano allo stesso modo.
Entrambi unici e al tempo stesso archetipi di un Paese che sta cambiando definitivamente, senza più poesia.

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