martedì 31 luglio 2012

Sogni amniotici di mezza estate

Davanti al mare, seduto, tardo pomeriggio, guardo e ascolto.
Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo, un eterno su e giù.
Sto così un minuto, cinque, dieci.
Rilasso le spalle, che mi accorgo essere tese.
In posizione a gambe incrociate, sciolgo il più possibile i muscoli.

Seduto così a gambe incrociate, ho come l'impressione di sentire sulla nuca il peso leggero dello sguardo degli altri. In un leggero momento di follia transitoria, che accolgo invece di cacciare, immagino un dialogo con i mandanti di quegli sguardi che forse non esistono nemmeno.
“cosa sta facendo così, che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?”
“sto nullando, sto nientendo”, risponderei loro.
“e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungerei.
“sapeste quanto sia ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione”, direi, se avessi voglia di parlare.
E invece taccio.
E ristoro la mente, quieto i pensieri, smusso gli angoli, tradisco la fretta, aborrisco l’inutilità, sposo e bacio e lecco l’essenza.

Poi m’alzo.
Lo faccio quando m’accorgo che quella gioia sta per diventare posa.
Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire, diventa orgoglio.
L’ego non dà tregua.
E mi riporta al sonno delle abitudini.
Sono stato bene con me.
Quando mi sono dimenticato di me, e sono stato in uno stato ignoto e amico.

Raggiungo a passi calmi l'acqua, sento il contrasto del freddo sui piedi accaldati dal sole. Avanzo a passi regolari mentre mi bagno gradualmente la gambe. Ad altezza inguine mi immergo con uno slancio in avanti. L'impatto è piacevole, come fosse un ritorno alle origini, ormai dimenticate, causa inutili occupazioni quotidiane.
Nuoto alternando gli stili, cercando di mantenere uno stile rigoroso ma rilassato.
Raggiungo il largo forzando fiato e muscoli. Ora sono solo, abbastanza distante dalla riva. Il vociare continuo viene sostituito da un brusio lontano, indistinguibile.
Mi metto in posizione del morto: viso in su, braccia e gambe allargate, come l'uomo vitruviano. Gli orecchi sott'acqua condizionano l'udito rendendo ogni rumore sordo, filtrato. Lentamente un onomatopeico blo blo blo mi rilassa, chiudo gli occhi, la presenza lucente del sole s'affievolisce, fino a sparire.
Sento la presenza sovrannaturale di mia madre: oggi sarebbe il suo compleanno.

Sono un cosino grande così. Un esserino che galleggia nel liquido amniotico, che fa le capriole, riposa; è nell'ambiente più perfetto che si riesca ad immaginare: una sorta di paradiso acquatico. Fa buio, ma non c'è il rammarico della mancanza di luce. S'intravede la curva del ventre materno, la sua rotondità sinuosa, la sua dilatazione naturale. Il silenzio è perfetto, interrotto solo da qualche eco lontana. Il tempo è un concetto inutile, un frammento, un particolare ininfluente di questa umida eternità.
Improvvisamente una sorta di gorgo mi attira, mi pone in verticale, a testa in giù.
Il liquido fuoriesce nella stessa direzione verso cui sono attratto, da una forza sovrannaturale.
Passo attraverso un corridoio stretto fino a giungere verso un'apertura che s'allarga poco alla volta. Combatto contro una forza superiore che mi sospinge verso quella cavità pelvica.
Una luce abbagliante oltre la barriera della vulva che s'apre, s"allarga, m'inghiotte.
Non so se sto andando incontro alla vita, o alla morte.

Apro gli occhi, guardo sotto di me, sul fondo sabbioso, in cerca di cavità: niente.
Mi rimetto in moto, muovo braccia e gambe in direzione riva.
Pochi minuti dopo arrivo, gli ultimi passi pesanti sull'acqua bassa.
Mi arriva come uno schiaffo il chiacchiericcio della gente stesa al sole.
Mi irrigidisco, sento tornare in forza le difese verso il mondo ostile, percepisco la scomparsa della dolcezza, l'arroganza dell'istinto di sopravvivenza alle regole.
Mi volto per un ultimo sguardo verso il mare.
Ma vedo solo sabbia e acqua.

cristiano prakash dorigo

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