venerdì 27 luglio 2012

Report di uno stupore: lettura al Marinoni

Volevo cercare di fare in breve resoconto sulla serata al Marinoni, al Lido. Sarebbe possibile, se si tralasciasse il "breve". Eppure tocca: tocca non stufare chi legge; legge non scritta dei post: ci si censura un po', non tanto per una rincorsa all'essenza, quanto per un'economia di gestione delle supposte capacità altrui, di essere capaci di leggere in rete. Quando si entra nel boulevard di quello che era l'ospedale al mare, si rimane impietriti: da ambo i lati le casette che erano reparti, con finestre rotte, macerie, vecchi ausili: tutto buttato là, come "ci fosse stata un'epidemia, una fuga improvvisa, di corsa, rantolante, con la fretta che fa dimenticare i particolari inutili", dice una delle amiche al ritorno, a notte fonda, quando le impressioni sono sedimentate, e tornano a galla, in gola, immaginifiche, epiche, coraggiosamente cariche di colore. Prima di raggiungere il teatro, i discorsi convergono sull'italianità del desolante paesaggio: fossimo a Berlino, a Londra, ad Amsterdam, a Parigi, questo sarebbe un quartiere di artisti: orti, arte, vicinanza, creatività, colore. E invece siamo a Venezia, in Italia: un presente che prefigura abbandono, devianza, desolazione, topi; in attesa di imbellettamento formale, affari da milioni di euro, felicità private a diecimila euro al metro quadro. Entriamo e lo spettacolo toglie il fiato: tutto è contraddittorio, è fatiscente e poetico, è bellissimo e spettrale. Pensavo alle riviste, alle commedie, al teatro nella sua funzione originaria di intrattenimento e sapere, di interazione di emozione, allegria, pianto, umori, sudori, calore. Pensavo a ciò che era, che eravamo, che è, che siamo: e che qui, questo posto, scaturisce tutto ciò, per sua natura, per missione, per vocazione. Mentre prepariamo la scena e la platea, fuori, nello spazio tra il teatro e la spiaggia, un mercatino dell'usato che diventa, col calare del buio, uno spettacolo di per sé: un ritaglio senza tempo di attività antiche, di scambio, di dare e avere più da istinto di sopravvivenza che da ragioneria. Il sound-check procede con un'efficienza tranquilla, senza fretta. Il fatto che non ci sia corrente elettrica viene dimenticato dall'efficacia del generatore, che sopperisce in toto a tutto. Luci, amplificatori, mixer. Non c'è l'asta per il mio microfono, ma la si inventa con due aste buttate nei magazzini di questo commovente e infinito spazio che ha dimenticato il tempo, trasformandolo in parentesi temporale sospesa tra mare e laguna, tra imminente speculazione e subitaneo bisogno di contrapposizione alla stessa. Poi è cronaca spicciola: presentano il progetto Marinoni; presentiamo il libro e il progetto che sta attorno al libro. Inizia la lettura ( ma di questo vorrei parlare in altri post). Dopo la lettura c'è un intenso scambio di stupore, molto simile a quello che ti colpisce quando entri in questo posto. La sensazione che mi sembra di aver colto, è stata quella di aver condiviso un'ora di sospensione, di intensa relazione, di incontro tra le parole, la musica, l'ascolto. È molto difficile per me parlarne senza sentirmi superbo, tenendo a bada l'ego, cercando di fare una cronaca di un qualcosa di impalpabile e inconsistente, e se lo faccio, è solo per il ritorno che ne abbiamo avuto. Tentando di fare una cronaca di un piccolo evento, in una sera di mezza estate, la regola vorrebbe che chiunque, tranne me, dovrebbe svolgere questa funzione. Di solito si racconta ciò a cui si assiste, non il vissuto di ciò che viene proposto a chi assiste; ma il presupposto, enunciato all'inizio di questo post, è l'infrazione delle leggi non scritte. Il comitato che gestisce il posto ci ha invitato a tornare, e penso che così faremo, a partire da settembre, quando ricominceremo col giro di presentazioni di questo libro e questo progetto così anomali e fieramente indipendenti. Vorremmo fare quello che ci piace, come ci piace, dove ci va, con chi scegliamo. Il costo in termini di fatica e di ritorni economici ha il suo prezzo, e scoraggia e demoralizza, eppure. Il Lido di notte, Venezia, il lento ritorno verso casa coi pochi mezzi a disposizione. In vaporetto i turisti e i residenti si distinguono per i diversi stati d'animo, per la propensione, o meno, ad attraversare la notte in una città che dopo una certa ora muore, cedendo posto al silenzio, al buio. Gli occhi guardano, ma quello che vedono, dipende dall'osservatore. Mentre il vaporetto scivolava in canal grande, vedevo la promessa mancata, la magnificenza decadente, la bellezza eterna venduta al miglior offerente, che spesso si rivela il peggiore degli spergiuri. Non so cosa si dice quando si parla dell'anima delle città. So però per certo che qui mi sento a casa, almeno per quanto concerne l'aspetto interiore. Non ci abito più da molti anni, anche se mio padre e molti dei miei parenti sono qui. Io non me la posso più permettere; o forse non mi posso permettere di smettere di amare, concedendomi il lusso di non essere condizionato dal coinvolgimento appiccicoso dell'amante. Cristiano prakash dorigo

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