venerdì 6 luglio 2012
Genova 2001. Dubbi
DUBBI
Ho trascritto per un lungo anno quel che mi succedeva: per riconoscere i miglioramenti, cogliere i progressi, come abbia saputo reagire.
Per affrontare lo stato di profondo disequilibrio, mi venne consigliato di scriverne. Così ho fatto; in duplice copia: una per l'analista che mi segue, l'altra per me.
Gli appunti esordiscono così:
“ Giovedì sera, 19 luglio.
Sono in stazione, fra poco arriva il treno e partirò. Io, come molti altri qui, sono solo.
Solo, penso…… Sono sempre stato solo nelle idee, trasversale, tormentato e ho sempre suscitato sentimenti contrastanti; come se l'adesione o meno a certe posizioni, a convincimenti altrui, bastassero a conoscere una persona.
Ho accettato l'invito pur non condividendo le idee di alcun gruppo: idiosincrasia al credo massificato, impacchettato.
Non appartengo a nessuna corrente fideista, a nessun credo istituzionalizzato, e non per scelta ideologica ma per necessità fisica: sono solo con le mie domande, orfane da sempre di risposte.
I miei maestri dicono che non si devono seguire i maestri, che bisogna esperire invece di credere.
Venerdì mattina, 20 luglio.
Arrivo.
Sto cercando gli altri ma nonostante i telefonini, non riusciamo a trovarci tanto è traboccante la fiumana di gente che affolla ogni centimetro di questa città impazzita.
Mi aggrego al corteo che parte con calma, gioioso, curioso, contagiato dal clima euforico, come di festa. Si balla, si canta, improvvisando, come investiti da un inconscio collettivo che annulla ostilità e diffidenza.
Quasi non m'accorgo che ho dimenticato ogni giudizio, ogni domanda: sto bene e basta, senza bisogno di spiegazioni e ragioni logiche.
Iniziano però quasi subito le soste forzate.
Il tam-tam informale del passaparola, diffonde notizie di disastri, di incidenti.
Il corteo, eterogeneo, immenso, viene scosso all'unisono come fosse un unico organismo vivente dal frastuono inconfondibile di spari; tremende visioni di fumate dense, spesse e puzzolenti, rarefatte come allucinazioni, spengono, spezzandolo, grazia e profumo.
Venerdì, pomeriggio.
Sto male. Poco da scrivere: viso e occhi bruciano di violenza chimica e rabbia, subite mio malgrado.
Vista, olfatto, gusto sono compromessi.
Nella sofferenza dei sensi, nulla ha più senso.
Con un gruppetto di 7-8 ci allontaniamo e riguadagniamo la strada.
Percorriamo una via e ci troviamo improvvisamente nel mezzo di uno spettacolo infernale: tutti urlano urla disumane, poliziotti, carabinieri, manifestanti, fotografi, operatori televisivi, passanti colti da panico.
C'è un odore acre di fumo di lacrimogeni, di immondizie che bruciano; la gola a pezzi, gli occhi chiusi, le gambe schizzano e corrono anche se i polmoni urlano, il naso è brace ardente.
Corri, scappa, corri; non importa più dove o lontano da chi.
Venerdì sera.
Sfatto, allo stadio. Angoscia, stupore, solitudine. Impotenza, stordimento, sfinimento.
Venerdì notte.
Di merda.
Sabato mattina, 21 luglio.
Vado senza sapere perché, mi unisco ad altri con un misto di inerzia e volontà.
Dopo un po' arrivano notizie di gruppuscoli radi ma determinati che spaccano tutto senza che la Polizia faccia niente.
Sottolineo: l'estremismo di pochi strumentalizzato ad arte, esteso a tutti.
La rabbia scaturisce gesti, inibisce la ragione.
L'enorme corteo è spaccato e tutti fuggono; l'adrenalina anima le gambe, il sangue pompa sui muscoli; siamo un branco di animali.
Sabato pomeriggio.
Non so più dove sono. Sono assente da me.
Mangio meccanicamente un panino e capisco che siamo tutti sotto shock.
Sono seduto su un muretto e vedo arrivare verso di me un grumo di gente che corre, fugge.
Non realizzo subito e, un attimo dopo, è troppo tardi; un gruppo di poliziotti ci circonda e ci bastona con lo sfollagente.
Cerchiamo di parlare e spiegare che stavamo solo mangiando un boccone, ma per risposta, pestano, pestano, pestano, pestano!!!
Sabato sera.
Ora so dove sono: un commissariato, uno qualsiasi.
Siamo in tanti, per ora in piedi; tutti, uomini e donne, in corridoio.
In quel preciso momento so che sono un fermato e sento nell'aria acida il fetore della paura, e che mi aspettano ore da incubo.
Cerco di farmi spiegare qualcosa, ma quelli urlano, spingono.
Ci trasferiscono in uno stanzone e per un paio d'ore o chissà quanto, stiamo tutti genuflessi, mani sul muro. Le ragazze sono insultate, umiliate, minacciate.
Faccio un altro tentativo, provo a formulare una domanda, ma in tre, fulminei, mi raggiungono da dietro e urlandomi diritto alle orecchie e sputacchiando saliva, mi intimano silenzio.
Con i manganelli spingono ai reni, ai fianchi, sulla spina dorsale. Come fosse un preludio, un rimando al dolore che potrebbero provocare se non ubbidissi.
Quei manganelli di merda non fanno male; non ancora; lo lasciano solo immaginare.
Vorrei guardarli negli occhi, cercare e trovare la conferma della loro umanità, capire cosa ci sia dietro a tanto spregio, come sia possibile ci trattino così.
Ma non me lo permettono, mi girano la testa con le loro mani pesanti, i polsi grossi, il radicato convincimento che loro sono i più forti, i padroni.
Dopo ore gravose, ci fanno stendere, ci lasciano pisciare, ma molti non hanno il coraggio di staccarsi dal gruppo; più semplice chiudere gli sfinteri.
Siamo tutti, ormai, totalmente in balia di questi uomini-bestia allenati a terrorizzare, a ritorcere la volontà, a piegare gli istinti.
Due in divisa, uno per parte, mi sollevano e spingono attraverso un corridoio fino ad un ufficio.
Mi fanno sedere a suon di spinte: devo confermare le mie generalità.
Una volta denudato sono perquisito da mani callose , dure, volgari e incapaci d'amore, che feriscono.
Commentano il mio corpo con ancora maggior volgarità, sputando minacce, violenze, dicendo tra loro che il prossimo ad essere perquisito sarà una ragazza e che se non sarà brava e condiscendente, le ficcheranno il manganello dentro.
Sottintendono, nel clima rarefatto e surreale, che potrebbe succedere anche a me.
Penso ai romanzi sudamericani, ai noir di Ellroy, ai film che mostrano pestaggi e finte esecuzioni.
Finalmente finiscono, mi riportano nello stanzone. Sono un loro oggetto. Nel delirio gli voglio quasi bene, gli sono grato di non avermi annientato.
Molte ore dopo prendo coscienza che l'ambiente è al buio a causa degli scuri chiusi ermeticamente.
E' giorno, lo si capisce quando entrano: una luce più plausibile, vera, penetra repentina dalla porta e ferisce i nostri occhi stanchi.
Tutto si protrae ancora a lungo: tanto da farci chiudere gli occhi dalla spossatezza, per poi farceli spalancare dall'angoscia.
Lunedì mattina.
Sono a casa. Ho chiamato il lavoro, ho preso una settimana di malattia.
All'apparecchio ho sentito, o almeno così mi è parso, un brusio quasi impercettibile, come stessero intercettando il mio telefono.
Quando ci hanno fatti uscire, un po' per volta, sempre da soli, dei ragazzi che non conoscevo mi hanno consigliato di stare attento, di non parlare con nessuno tanto meno coi giornalisti; di stare, per un po', tranquillo.
Andando in stazione mi è passata accanto una pattuglia della polizia; ho istantanemnte iniziato a tremare in modo incontrollato, a sentire un orrore assoluto impadronirsi di me, penetrandomi fino a dentro le ossa.
Rabbia, terrore, incapacità di inquadrare razionalmente quel che era successo. Pensieri e ossessioni sembravano superati, nei loro limiti fantasmatici, dalla crudezza della realtà.
Dopo un mese lungo un’eternità, ho accettato di farmi vedere da una psicologa per i disturbi del sonno, la quale mi ha inviato da uno psichiatra.
Ogni mattina però, al risveglio, credevo di sentire quelle urla, di vedere quegli occhi privi di sguardo e penetrabilità, di sentire la punta del manganello su di me, sulla schiena.
E ogni sera, e ogni telefonata, e ogni sguardo rivoltomi, riaccendevano quel terrore cieco, fisico, brutale.
Un pensiero fisso cresce di giorno in giorno.
Risponde al bisogno di pensare che quelle divise erano abitate per la maggior parte da ragazzi impacciati e impauriti; agenti-ragazzi che non sapevano niente di quanto stava accadendo nelle stanze del terrore, dove i loro colleghi, ignobili e ignoranti squadristi allenati a torturare, usavano contro di noi cieca violenza.
20 Luglio 2002
Un anno dopo.
Ho preso due giorni di ferie, comprato il biglietto del treno.
Devo tornare a Genova: devo!
Forse!
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