martedì 24 luglio 2012
Impressioni su "homo sapiens nord est": scambio di mail con A
Aggiungo dopo esserne stato autorizzato, uno scambio di mail tra me e A., una lettrice del mio libro. Temo che al solito l'impaginato non venga come vorrei, ma tra l'anteprima e la definitiva, c'è sempre enorme discrepanza. Spero comunque si distinguano le parti.
Cristiano
Mie note su “Festa di amici” di Cristiano Dorigo
Anche in questo racconto mi colpisce la dimensione dello spazio e dei luoghi, o meglio la dialettica dentro-fuori che prende corpo attraverso lo sguardo del protagonista Prak. Qui i luoghi incorniciano e restituiscono, da una parte, attraverso il sogno, la memoria dell’infanzia come “guscio” protettivo, e come luogo della bellezza dello stupore, dall’altra, attraverso la realtà, i luoghi del presente restituiscono il confronto tormentato e faticoso con il proprio sé, la difficoltà a essere, e ad essere con.
L’ascensore di ferro in cui Prak bambino scende con la madre i sette piani e in cui da dentro osserva il fuori è come “l’auto, un mondo dal quale osservare un altro mondo, è un guscio ventrale che li protegge”.
Dentro-Fuori. Da dentro verso fuori. Lo sguardo di Prak bambino è uno sguardo in movimento generato e condiviso ad un tempo con quello della madre. Prak adulto invece si guarda. Allo specchio. Solo. Lo sguardo al risveglio dal sogno è “spalancatamente aperto” e bloccato come in un fermo immagine cinematografico, dilatato all’infinito, sulla visione della propria fragile nudità e della propria irrimediabile solitudine.
La bellezza, accarezzata dallo sguardo rapito nella contemplazione, sembra essere irrimediabilmente “altrove”: in alto verso il blu e le stelle, o nel sogno della memoria dell’infanzia, o, ancora, nella visione inaspettata della bellissima “dea mulatta” Clohe. Inattingibile e “altrove, ovunque, ma non qui” come nel finale del tuo racconto “Altrove”.
Perdersi nella contemplazione della bellezza è possibile ma sempre e solo per brevi attimi fugaci, la realtà irrompe e Prak inciampa e “scivola” nelle sue insicurezze, nel suo senso di estraneità, nella merda o nella telefonata di un amico che ha bisogno di aiuto. Cade così, in un istante improvviso e imprevisto, e senza che lui riesca ad opporsi, la possibilità di prolungare il movimento dello sguardo per viverla pienamente quella bellezza e tentare di portarla magari nel proprio mondo.
Un senso di incompiutezza connota la percezione che ha di sè. Il luogo della festa è osservato con disagio, la comunicazione con gli amici è sentita sostanzialmente come distante e non autentica, impedita dalla necessità di dover mostrare i propri traguardi personali, una comunicazione interrogata e osservata da Prak nel momento stesso in cui la esperisce: sempre sulla soglia tra il dentro e il fuori quindi.
Il punto di vista del narratore si con-fonde con i pensieri di Prak. E’ come se osservasse da fuori e fosse contemporaneamente dentro i pensieri, le emozioni e gli stati d’animo di Prak. Anche lui, il narratore, dentro e fuori nello stesso tempo.
Forse la vera festa di amici per Prak è quella che ricorda nel sogno di quel pendio di terra che sospende la realtà pur facendone parte, nell’invenzione di altri mondi, nella condivisione reale del gioco che crea “senso di appartenenza” (una condivisone irrecuperabile e perduta nell’età adulta), nella fantasia, nel piacere totale, estatico e disinteressato della creatività.
A
Cara A,
Innanzitutto ti ringrazio e ti scrivo due righe veloci dalla terrazza di casa, col pad sulle gambe; per cui molto informali, e soprattutto mattinieri.
Ieri sera sono andato al cinema con Au a vedere "cena tra amici"- non so se sia esatto scritto così-, e ne sono uscito molto divertito e rilassato. Sabato sera sono andato a vedere un doppio concerto: milk and soap- una ragazza austriaca notevole-, e gli apparat in versione band. Artisti che non conoscevo: il mio livello di conoscenza musicale si ferma agli anni 90, e forse anche i miei gusti; sicuramente la capacità di introiettare il nuovo, è ormai compromessa dal peso del vecchio.
Dico questo per dire quest'altro: ormai quando leggo, ascolto, vedo.,assisto, ecc., lo faccio da "spettatore-autore". Le mie lenti, cioè, mi fan vedere attraverso l'ottica della costruzione dello spettacolo, del meccanismo, della funzionalità.
Giovedì saremo a teatro: in un ex teatro, a dire il vero. C'è questa struttura che dovrebbe essere abbattuta e sostituita da un quartiere moderno al lido di Venezia. È nella zona del vecchio ospedale, ormai ridotto a un posto fantasma, con in piedi solo un monoblocco che serve da poliambulatorio e pronto soccorso. Insieme al nuovo palazzo del cinema, a un progetto di darsena da milionari e, in parte, al mose, fa parte di un sistema di grandi speculazioni che convergono sulla città lagunare.
Ebbene, un gruppo di volenterosi cerca di opporsi a tutto ciò, cercando di mantenere viva la struttura- vetri rotti, affreschi che rischiano di cadere, no elettricità, per cui funzioneremo grazie a un generatore, ecc-: una sorta di teatro valle, nei sogni di grandezza degli occupanti, in versione veneziana.
Dicevo di giovedì: leggerò tre estratti dal libro, e un racconto su Genova 2001- viste le recenti sentenze-, tratto dal libro precedente. Aspettative di pubblico: dalle quattro persone, alle venti, trenta, cinquanta: insomma, non si sa, anche se credo saranno molto poche. Ma si fa perché ci piace, perché c'è un nuovo ciclo da mettere in circolo, perché con questo libro e questo progetto, voglio fare solo quello che mi piace.
Brani da supermarket, futuro è vecchio, tatto.
Insomma, l'idea è quella di avere un tot di pezzi che raggiungano la sufficienza, averne il più possibile in repertorio, e cercare di leggere quelli più adatti alla serata.
Rieccomi dopo aver portato fuori il cane.
Dovrei concludere. Ho scritto tutto ciò per dare sostanza ad un paio di concetti.
Uno è che è proprio vero che quando si è finito di scrivere, quel che si è scritto assume la forma di chi lo legge, e vi si adatta benissimo.
Due che l'idea di questo libro è banalmente questa: ci accorgiamo di quanto poco ci si concede alla vita, vivendone una che è solo proiezione di quello che pensiamo che sia? E siamo disposti a morire e lasciarla per ricominciare?
Ma quando da un'idea si passa ai fatti, si lasciano a testimonianza le parole, si raccontano fatti, pensieri, idee, modi di guardare la vita, si lasciano molte altre tracce.
Nel tuo caso, mi pare che queste tracce siano state vedute, intuite. Addirittura, e non è la prima volta che mi capita, ci sono angoli, visuali, strati, che non avevo pensato o voluto, ma che emergono e vivono di vita propria.
Sono stato maldestro e inconcludente, poco logico. Pensavo al film e ai concerti e mi chiedevo cosa mi piacerebbe succedesse quando tocca a me, quando sono col microfono, il leggio, quando ci sono le persone, poche o tante, che sono là e ascoltano me. Oppure quando scrivo, quando passo ore e ore da solo ad aspettare le parole, e poi a scriverle in modo compulsivo come sgorgassero da me sì, ma più che altro attraverso me, come fossi semplicemente il mezzo scelto da quelle parole che devono essere scritte in quel modo, in quel momento, pur sapendo che non ci siamo, che si può fare di più, meglio. Come fossero appartenenti a un flusso che va in una direzione perché così è e dev'essere.
Ecco, vorrei comunicare, entrare in relazione. Vorrei essere il tramite di quel flusso, modificare un po' il tragitto, lasciare tracce, spostare qualcosa dentro.
Ed è questa, per me, la differenza tra scrivere, o cantare, o fare film di mestiere; o fare le stesse cose senza scopo, senza fine, che non sia assecondare quell'istinto che non ha risposte, che troppo spesso non ricambia in termini monetari, ma che fa stare bene. E che forse dà un senso a ciò che un senso, a livello cerebrale, non ha.
No rileggo perché se no probabilmente cancellerei e rifarei.
A presto e, se vuoi, continua a scrivere le tue impressioni e quelle dei prossimi che leggeranno: sono benzina che fa andare avanti il motore
Cristiano
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