giovedì 21 giugno 2012
A Trieste impazzire si può - parte 1
21 giugno 2012, Trieste, impazzire si può
Il titolo dell'evento suona quasi come un mantra,uno slogan, un auspicio; fila liscio, senza incepparsi, ma lascia una scia dal significato inequivocabile: impazzire si può, ci è concesso, ci viene data questa possibilità.
La cosa che colpisce- l'anno scorso e, immutato, quest'anno- come primo impatto, è che i professionisti della salute, quelli che offrono la loro professionalità a coloro che ne necessitano, sono un unicum, un miscuglio paritario, dove non è possibile nascondersi dietro al ruolo.
Questo non significa imbroglio o finzione: c'è comunque un'evidenza estetica tra chi deambula sbilenco- in questo momento, mentre sono seduto su una panchina all'ombra e scrivo col mio ipad, c'è un signore che sale una scalinata a quattro zampe, e giungono urla dai padiglioni dei reparti-, e chi parlotta forbito, solo che questo non crea una distinzione netta, come succede ogni momento nel contesto sociale di tutti i giorni, tra chi sa, e chi subisce quel sapere. La sensazione che si respira è quella della libertà di essere ciò che si è, senza venirne penalizzato.
Oggi è una giornata caldissima, afosa, di molto superiore ai 30 gradi. Ho deciso, nella follia che mi abita, di venire in bicicletta. L'ho caricata in treno, e ho raggiunto il parco del dipartimento dopo essermi perso per le vie in salita di questo forno cittadino. Sono arrivato che sembravo uno zombie sudato: grondavo letteralmente sali minerali, e avevo un'espressione allucinata. Non ho più l'età, nemmeno il fisico, benché lo spirito, un po' cafone, l'abbia evidentemente negato.
Mia figlia ha gli orali di terza media nel pomeriggio e questi giorni sono stati un vero e proprio intermezzo della logica e della sapienza. Credo di aver dipinto in viso una smorfia di follia, ma qui m'importa meno. Qui, come fosse una sorta di woodstock delle relazioni umane, sono perfettamente a mio agio.
C'è chi teorizza che una maggior vicinanza relazionale taglierebbe in modo netto il disagio di vivere.
Mi sento vicino a questa teoria, immerso come sono, nella sua dimostrazione pratica.
Nel pomeriggio molti interventi. Peppe Dell'Acqua parla poco ma dice molto. Esordisce dicendo che pur pieno d'emozione, non consentirà a questa di fregarlo- l'accenno riferito all'anno scorso, quando fece un collasso in sala-, e continua dicendo che in quel momento, comunque, sentiva di amare tutti i presenti.
Lella Costa dopo di lui, parla, cita, recita, ma soprattutto si commuove e piange: ma non di tristezza, di dolore, quanto piuttosto di una gioia semplice: quella di sentire quell'energia, di potersene far investire senza temere nulla.
E poi molti altri, pazienti con storie durissime, psichiatri, operatori vari.
Tutti raccontano dolore, ma soprattutto l'uscita da questo. Perché è possibile, probabile.
Ma non si pensi a un ambiente triste, chiuso, claustrofobico; anzi, racconta di eccellenze sparse, rare, ma non impossibili.
E soprattutto racconta che impazzire si può.
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