sabato 30 giugno 2012
Magie estive
La notte ha sognato.
Ha sognato il tempo che fu, quello della sua infanzia mestrina.
Erano un gruppetto di bambini ai piedi di un pendio di terra e erba che riempie lo spazio tra la strada e il cavalcavia costantemente trafficato.
Usavano questi quindici metri a forma di discesa come montagnola, foresta, pista da cross e ambiente agreste: insomma, era la loro Hollywood sotto casa.
In caso contrario, quando la fantasia di bambini scarseggiava a causa di svariate concause( liti in famiglia, problemi a casa, diatribe con i genitori, punizioni) si dovevano accontentare di un piazzale d'asfalto, un cavalcavia puzzolente e rumoroso, e le loro facce dagli occhi tristi in quanto consapevoli della realtà.
Ecco chi c'era:
Reb: un potenziale reietto con istinti criminogeni e pittorici, entrambi fallimentari, già palesi; tondetto, riccioluto.
Fru: di quelli che sin da piccoli gli si legge scritto il futuro. Rettitudine, sacrificio, carriera, auto aziendale, corna alla moglie, figli alle scuole private; moretto, né bello né brutto.
Gek: mangiava una pizzetta intera in un sol boccone; alto, grosso, un gigante buono;
Sigala: amico di tutti in modo paritetico e misterioso; carino e solo. Sempre incerto. Ora fa il dj alle feste di amici.
Ennyo-fu: un inventore; scaricava sul gioco la fantasia che la sua vita reale non aveva; faccia e corpo come ci si immagina uno così abbia.
Prak: lo scrivente; un capetto un po' perfido ma sotto sotto buono; ricciolo, castano e poi basta ( cos'è, un autoritratto?)
L'estate era finalmente arrivata e aveva mandato a fare in culo la scuola.
Le giornate erano appiccicose, sudate, ma incredibilmente libere e giocose.
Il sole di fine giugno ardeva sulla pelle e rinsecchiva le gole; dilatava il reale in una dimensione finalmente irreale, in cui anche le ipotesi più beffarde erano vere, in cui la famiglia era a casa e gli amici erano, in quegli interminabili pomeriggi, un oasi fantastica.
Un bastone trovato a fatica e gelosamente conservato al riparo dai ladri di motociclette e gli consentiva scorribande su e giù per quella magica salita-discesa, diventata una famosa pista di motocross. Correvano fino allo stremo indifferenti alla polvere che seccava la gola.
Solo Ennyo-fu quel giorno non correva.
Era arrivato teso, imbronciato. Loro sapevano che le scene cui doveva assistere in casa erano ben più pesanti di quanto gli occhi di un bambino potessero vedere.
Non sapevano cosa o come: solo che il papà litigava con la mamma e lui la difendeva; con la forza leonina della disperazione; un'interminabile, inutile, ripetizione quotidiana del male vero.
Quel giorno si dovevano superare molte prove speciali: con i bastoni in mano, simulacri di manubrio, bisognava affrontare diversi salti.
Tutti erano tesi, determinati; vincere rappresentava la trasformazione immediata in eroe del giorno.
Cominciarono le gare e, uno alla volta, proponevano il meglio in fatto di piroette, salti, cadute.
Nel frastuono chiassoso di quelle bocche urlanti, tutti presi dalle imitazioni di scoppiettanti marmitte, il tempo proseguiva il suo moto perpetuo e quasi non si accorgevano che s'avvicinava l'ora del rientro a casa, dove li aspettavano le solite prediche di mamme stufe di lavare, stirare, buttare in vasca bambini le cui fattezze erano nascoste dallo strato di polvere che li copriva.
Mancava l'ultima gara, quella decisiva, che avrebbe decretato il vincitore, quando furono tutti distratti da un eccitato urlo di soddisfazione, un “ e vai!!” dai toni trionfali.
Si voltarono e restarono a bocca aperta.
La scena che gli si presentava davanti era di quelle, già lo sapevano, da leggenda; di quelle che anche dopo trent'anni ci si ritrova tra amici e ci si dice: “ ti ricordi quella volta che Eny-fu ha fatto….”.
Lasciarono all'istante i loro manubri-moto-bastone incuranti che potessero sporcarsi o ammaccarsi; percorsero i pochi metri che li separavano dall'amico e dall'ottava meraviglia del mondo dei piccoli; l'eccitazione era mischiata allo stupore, la costernazione alla grazia, la realtà alla storia.
In quel momento sei bocche spalancate contemporaneamente emisero il suono del silenzio.
Sei nasi respirarono all'unisono la quieta aria estiva con calma. Dodici mani stropicciarono dodici occhi estasiati di fronte alla visione di quella che doveva rappresentare, per le loro giovani ed immacolate menti, la divinità.
Da quella salita-discesa impura, come fosse un parto, un'escrescenza di legno che prima di quel pomeriggio non c'era.
Come di fronte ad un miracolo si sentirono di venerare quel triangolo imperfetto che battezzarono “ il trampolino di Ennyo-fu”.
Non si chiesero nemmeno come potesse averlo fatto; non gli interessava capire se fosse stabile, solido; non si chiesero quale fosse il suo significato o per quale ragione lo avesse costruito.
Contava solo la magia del gesto, la maestria dell'ingegno, la gratitudine per un amico.
Poi potevano sfruttarlo tutta l'estate, fare gare di tuffi, di salti; potevano usarlo come luogo per riposare, per riflettere; lì sopra potevano stare per riunioni decisionali. Era lo stemma di un gruppo di amici; un simbolo li univa, li rappresentava e distingueva ( “ chi, quelli del trampolino?”).
Passato lo stupore muto spesero parole di sincero apprezzamento per ennyo-fu e, così facendo, lo condussero all'immortalità. L'immortalità degli uomini, quello che rimane anche quando non ci siamo più.
Quel giorno regalarono a Ennyo-fu la consapevolezza che la vita poteva essere anche semplice e bella, e non solo rabbia e risentimento.
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