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“ Questa storia è tratta dal diario di una ragazza.
È una ragazza qualunque che ha deciso di dire finalmente la verità che ha nascosto per molti anni.
Di solito tace e lascia che il mondo sia guidato da altri, mentre lei ci si fa condurre.
Ma oggi guida lei, decide lei la direzione; è padrona, e può disporre del suo dire o del suo tacere come meglio desidera.
E proprio oggi ha deciso di dare luce alle zone d'ombra, di dar voce all'urlo che l'assorda seppur muto.
Parla con un amico di cui si fida.
Sente di poter toccare quel punto duro, scuro, che le fa visita ogni giorno, ogni istante, per avvolgerla e portarla, anche se lei non vorrebbe, con sé. Questo si manifesta con la paura, l'incapacità di credere, di fidarsi, di stare con gli altri, di sopportare la propria ingombrante presenza di donna che sopravvive pur non sapendo vivere.
E così una timidezza vigliacca la soffoca, per poi scatenare una rabbia furibonda con i pochi esseri umani più deboli che incontra, e che la costringe a temere, senza rispettare, tutti gli altri.
Questo parlare somiglia ad una ferrata in montagna: ogni passo è incerto, calcolato, rischioso, e insieme soddisfacente, liberatorio. E piano, con cautela, ci arriva.
Parla di suo padre.
È un uomo cattivo e non c'è nient'altro da dire; ma oggi sì, c'è dell'altro, c'è la verità creduta; e anche se non è detto sia quella vera, è di certo quella che lei percepisce come tale.
Quella su cui ha basato le sue fievoli certezze, sempre pronte a franare.
Lui è cattivo, e poco altro. È un debole e ha sempre bevuto molto, troppo: un binomio perfetto per allearsi con una cattiveria posticcia, gratuita, e perciò prevaricante.
Pochi giorni prima, insieme all'amico, stava decidendo il da farsi sullo spostamento della madre in cimitero: dopo un tot di anni, è di prassi spostare le salme.
In questo caso, una prassi amministrativa quanto mai sconfinante nell'intimo, nei ricordi, nella speranza che almeno lei, la madre, avesse trovato il meritato, definitivo riposo.
Pochi giorni prima era col telefono in mano per cercare di capire esattamente cosa dovesse fare.
Oltre ad avere le dettagliate istruzioni del caso, ha fatto un'incredibile scoperta.
Era insieme all'amico, al telefono, che chiedeva informazioni per lei. Parlava a una voce senza volto che rappresentava, in quel caso, una funzione.
Quella voce senza volto, quella funzione li avevano spediti, per poco, in una dimensione di incredulità, come fossero gli attori di un film, o le vittime di uno scherzo di cattivo gusto.
“il signor B********* non è morto. A me risulta abitante in via S******, dove ha sempre abitato”
Quel padre cattivo, beffardo, era risorto. Quel cane rabbioso aveva raggirato perfino la morte. Per alimentare le ansie, per confermare l'immortalità dell'orrore, della paura pura, senza attenuanti e pensieri razionali consolanti.
Un anno prima, dopo che era stato ricoverato in fin di vita e la ragazza era stata invitata dalla zia, sorella di lui, ad andarlo a trovare: al suo rifiuto, fredde maledizioni. Poco dopo, il giorno successivo, era arrivato un messaggio al telefonino, mittente la stessa zia, che diceva di non preoccuparsi più, che tanto lui era morto.
Un anno prima di quella telefonata.
Quel giorno, diceva all'amico, non riusciva proprio a capacitarsi di come la zia, sorella di quell'uomo, suo padre, quel bastardo cattivo, potesse pretendere che lei lo andasse a trovare dopo anni che non si erano più visti e sentiti, e dopo quello che lui le aveva fatto passare.
L'amico non sapeva con esattezza cosa le aveva fatto passare; sapeva però cosa fanno passare molti padri e madri ai figli. L'aveva letto giorni prima su una rivista di psicologia.
Ed era sempre meno sottile, meno sfumata, meno sofisticata, la violenza. Era ormai manifesta, impudica, priva di sottigliezze psicologiche. Era pura rabbia travasata, trasformata in paura e angoscia, la cui unica scappatoia, è la convivenza consapevole.
Non si guarisce, non c'è possibilità di essere come gli altri; al massimo, si può sembrare come gli altri.
L'articolo finiva in modo da lasciarlo sgomento.
Diceva che questo punto non incontra molti favori in costoro. Era difficile, per le vittime, capire che non esiste un “essere” cui ambire. Ciascuno ha le stesse paure, le stesse angosce, le stesse insicurezze; cambia semmai la capacità di conviverci. Insomma, la tanto ambita uguaglianza, quella che loro pensavano essere incarnata dalle persone normali, che mai avevano subìto violenza, era una convenzione sociale mitizzata.
Arrivano al cimitero della madre, morta quando lei era ancora bambina piccola.
L'ultima volta che è andata a trovarla, sulla lapide ha trovato un foglio scritto a penna. Diceva che il primo conoscente che passava di là, avrebbe dovuto contattare l'ufficio preposto per le pratiche di riesumazione della salma.
Non ha raccontato al collega che effetto le aveva fatto leggere che sua madre era una salma.
Sua madre non c'era da così tanto che poteva essere soltanto un ricordo idealizzato. Incarnava tutto il bene che non aveva avuto. Rappresentava tutti i sogni finiti quando, incolpevole, era morta.
Era la mamma che tutti sognano.
Non poteva perciò essere la mamma che l'aveva lasciata con quel padre cattivo.
Non poteva essere, eppure lo era. Una contraddizione che scarnifica la pelle, che penetra la superficie e s'infila dove vuole lei, dove fa più male.
In prossimità del casello della città esordisce iniziando la frase con “pensa che”.
L'amico deve forzarsi di “pensare che”: lei è piccola, poco più di sei anni.
Devono uscire e il padre non trova le chiavi.
Non le trova e s'arrabbia.
Gli monta una rabbia cieca, senza ragioni che non siano la rabbia stessa, che deve uscire come schiuma, e schiuma la bocca e diventa notte sullo sguardo.
Cane rabbioso, lui, vede la vittima, lei.
Lei si è stretta sulle sue spalle, che alza per incassarvi la testa e nasconderla più che può.
Alla sua destra, dietro la schiena, il muro adiacente alla porta d'ingresso del sozzo appartamento.
Lui prende un ombrello col manico di legno e glielo punta alla tempia, dalla parte della testa opposta al muro.
Lei è schiacciata con l'orecchio piegato verso dentro, dalla parte del muro, e con la punta dell'ombrello dall'altra.
Le intima feroce di tirar fuori le chiavi, di dirgli dove cazzo le abbia messe: DI DIRGLIELO PORCA PUTTANA!!
Lei è terrorizzata, muta, in black out.
Anche i pensieri lo sono.
Tranne uno.
L'unico sopravvissuto nella bolla vuota e nera che ha in testa.
Dice “controlla in tasca papà”.
Lui dice “no cazzo non son mica scemo dio can”, ma in quel preciso istante, la mano, autonomamente, lo fa; fruga in tasca e ne tira fuori le chiavi che tintinnano senz'allegria.
C'è un istante di pura immobilità in cui tutto è fermo, inerte.
Il tempo, i pensieri, il male: tutto sospeso.
Un attimo dopo lui crolla.
Scivola sulle proprie ginocchia e da quella posizione le chiede scusa, strofinandogli la faccia sui vestiti, piangendo un pianto sporco, le cui lacrime odorano di merda e di piscio e di bile e di alcool e di pillole.
Mentre raccontava, lei era regredita fino a ridiventare quella bambina.
Mentre parlava, guardando distante l'orizzonte vicinissimo a causa di una nebbia crescente, aveva il tono di chi non sa collocare quel terrore fuori di sé.
L'amico taceva.
Ascoltava.
Accoglieva disgustato la trasmissione del suo disgusto.
Le chiedeva se in lui ci fosse mai stata una traccia di pentimento.
“Sì, forse c'era”, risponde lei. Ma lo dice con un tono che ne sancisce l'inutilità, il ritardo, l’irrilevanza.
“Era cattivo!
Ho ancora la cicatrice sulla fronte di quando mi ha sbattuto con una spinta distratta contro l'angolo del tavolo da cucina. Lo faceva, e se ne pentiva. E un altro segno che per fortuna non sono costretta a guardare, proprio qui sulla schiena, vicino a dove finisce la colonna vertebrale.
E poi dei segni dentro di me. Come quando mi costringeva a guardare mentre penetrava mia madre. Lei stava già morendo fisicamente, la malattia se la stava mangiando. Mi guardava, lui, perché lei girava la testa dall'altra parte; aveva uno sguardo quasi tenero, come volesse farmi capire che l'amava ancora, anche se lei faceva schifo. Come a dire che potevo fidarmi, che lui amava per sempre”.
L'amico, seppur muto, concordava: era cattivo.
Di una cattiveria che non aveva mai conosciuto. Sapeva, perché lo aveva letto in quell'articolo, che la cattiveria esiste in ognuno di noi. È uno stato naturale, che può anche salvar la vita, cancellato però dalla morale che la nega e la relega all'altro: mai a sé.
Ma non l'aveva mai sfiorato a quelle profondità.
La nebbia si faceva sempre più presente, inghiottendoli.
La città era sparita, nascosta dentro quel vapore freddo.
Ad un certo punto non sapevano più dove fossero.
La nebbia aveva cancellato i confini e, senza preavviso, insieme, avevano iniziato a ridere del fatto che si erano persi.
Perdersi aveva tanti significati, quella mattina.
Ridevano, avevano chiesto informazioni, erano tornati in carreggiata.
Dopo essersi persi, in fin dei conti, non si può ritrovarsi.
"dopo essersi persi, non si può che ritrovarsi", of course
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