A Venezia sta per chiudere l’ennesima libreria. La libreria Goldoni si trova in una calletta vicino al teatro: è grande, disposta su due piani; è completa, comprende narrativa, poesia, saggistica, libri scolastici.
Una volta entrati, lunga e incavata com’è, che pare penetrare le viscere veneziane, ci si dimentica di tutto e si entra in quella dimensione ideale che pervade i lettori, di smarrimento, di scollamento temporale. Il cellulare non prende, e questa è un’opportunità per rimanere in quell’incanto. Personalmente mi capita di scorrere nei libri che non ho ancora letto, che so di dover leggere prima di morire; mi fermo davanti alla zona adelphi, parentesi vivifica di qualità; di scorrere gli autori in ordine alfabetico fino a ritrovare autori i cui nomi mi sono segnato come impegno solenne nei confronti della mia salute.
L’ultimo libro comprato, settimana scorsa, “lucina”, di Moresco: non lo trovavo e sono stato gentilmente aiutato, come sempre, a scovarlo tra gli scaffali in ordine alfabetico. Notavo dei buchi, delle mancanze: ho pensato che fosse a causa dell’inventario. Ieri invece, vengo a sapere che sta per chiudere.
Confesso che detesto i melodrammi, le prese di posizione ideologiche, preferendo le intuizioni, le verità che uno scopre da sé: insomma, non digerisco le mode, le tendenze e privilegio le brevi eternità.
Il tutto, con le dovute eccezioni. A Venezia sta indubbiamente prevalendo una logica commerciale degna di Las Vegas o Dubai: sta avanzando in modo inesorabile l’idea che la caricatura dell’originale, pur avendo, in questo caso, a disposizione l’originale stesso, sia più fruttifero in termini di entrate economiche.
La caverna orizzontale che “penetra le viscere veneziane”, è tale perché all’interno vi è una libreria; se ci fosse un negozio di vetri cinesi, un lounge bar, un’estetista, un negozio di Prada, sarebbe semplicemente un esercizio commerciale buio e umido.
Il titolare dice che non ce la fa più a sostenere i costi di gestione: novemila euro di affitto, senza tener conto di tutto il resto.
Ricordo che quando aveva chiuso la Tarantola, di cui scrissi, la ragione era la medesima. Mi raccontava l’allora titolare, che avrebbe aperto una grande firma, che probabilmente sarebbe stato in perdita, ma che una borsetta di plastica di un grande marchio che annoveri alcune città- le solite Milano, Roma Firenze, Venezia, New York, Hong Kong, Shangai, ecc.-, vale in termini pubblicitari ben più di quanto non ci rimetta il negozio stesso.
Una cosa che continuo a ripetere in questi anni, in riferimento allo spopolamento cittadino, al suo impoverimento culturale, al laissez faire, alla vendita ai grandi gruppi economici che ne fanno vetrina internazionale e cassaforte- si pensi, per citare altri, alla cosiddetta “benettown”-, passa da sospetto a certezza.
Penso al festival del cinema in una città senza quasi più cinema; al premio letterario Campiello- di cui si può discutere, ma non ora-, in una città senza quasi più librerie; all’afflusso di turisti- chi parla, forse azzardando, di venti milioni di turisti all’anno- in una città che sta perdendo i suoi cittadini causa svuotamento.
Penso a Claudio ed Elisabetta della Marco Polo, a Cristina della Mare di Carta, alle altre poche che resistono resistono resistono, grazie ad all’idea di chi, forse in forma anacronistica ma di certo virtuosa, crede in quello che fa, pensando di vivere un privilegio: quello che fare il libraio sia uno dei mestieri più belli che ci siano.
Un saluto triste ma pieno di ammirazione al titolare e ai dipendenti della Goldoni, condividendo il rammarico e la tristezza di chi teme di giocare una partita, le cui dimensioni sono oltre la sua portata.
L’impressione che ci tolgano a ritmo lento, ma regolare, l’aria, che poi ci rivenderanno a caro prezzo. O forse anche ci regaleranno, se accetteremo dei brevi spazi pubblicitari tra l’inspirazione e l’espirazione.
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