Quando muore uno famoso, di solito non mi sbilancio emotivamente: è uno che non conosco, se non per interposta persona, per interposto mezzo di comunicazione, sia esso libro, giornale, disco, film, e tutto il resto.
Ma ci sono le eccezioni: ci sono persone che oltre a incarnare il personaggio, si lasciano scoprire per quello che sono. Sono pochi, e spiccano per questa stessa contraddizione: essendo i più, appartenenti al gioco della messa in scena di sé, quelli che non accettano questa regola, si notano.
In questi ultimi due giorni sono morti due artisti diametralmente opposti: Enzo Jannacci e Franco Califano. Uno milanese, l’altro romano, con stili e modi molto prossimi all’essenza di queste due grandi città, se parlando di queste, ci si concede l’idea di “essenza”, di “identità”. Entrambi, ciascuno a suo modo, che non potrebbe essere più diverso dall’altro, hanno cantato e descritto una certa umanità, un certo modo di stare al mondo, il sentimento che ne ricavava lo sguardo, quando mette a fuoco qualcosa di basico.
Nella vita si mangia-si beve-si dorme-si caga e si piscia, e questo vale per tutti. A tratti, tra i bisogni primari e i giochi estetici e morali, variabili col variare dei tempi, c’è qualcuno che nota che c’è qualcosa in più; e qualcun altro che perfino riesce a distinguere dei particolari insignificanti, fuori della storia. Appartengono a quelli che non hanno niente da dire, che non lo sanno raccontare, che annoierebbero subito chi ascolta se anche provassero a farlo. Non è semplice raccontare le non storie, descrivere le non vite, assurgere a trama la noia piatta dei nessuno che appartengono alla massa informe che nemmeno lotta più, che aspetta di finire il turno per andare al bar o in divano a riempire il proprio vuoto con il niente.
Un signore schizzato e borghese, e un borgataro cor pelo sur petto. Uno incomprensibile e stonato, e perciò poeta: l’altro esplicito e impudico, cor vocione grosso, e perciò altrettanto poetico.
Entrambi però accomunati dall’autenticità di chi lascia entrare in sé la grazia e l’amarezza, perché la vita è così. Entrambi imbevuti di ideologie, tra l’altro formalmente opposte, ma accomunati dal bisogno di stare con gli altri, anche se non la pensano allo stesso modo.
Entrambi unici e al tempo stesso archetipi di un Paese che sta cambiando definitivamente, senza più poesia.
domenica 31 marzo 2013
venerdì 29 marzo 2013
Aldrovandi e cosip: ragioni e torti
Non conosco le ragioni che hanno spinto i poliziotti del cosip a manifestare sotto le finestre della madre di Aldrovandi- ragazzo morto a Ferrara a causa delle botte prese da quattro poliziotti-, ma conosco i loro torti.
Forse sperano così di dimostrare la loro frustrazione di persone che, a causa del loro lavoro, rischiano in modo diretto la vita; mettono in conto che c’è anche la vita degli altri in ballo, ma che la propria difesa, a volte, può costare un sacrificio; e se un balordo ti si avvicina, rendilo inoffensivo, e poi casomai, verifica e discuti. Adottano così facendo, una logica che manifesta la barbarie, che sottintende la pratica della supremazia di un ruolo sociale- quello di tutore dell’ordine costituito-, sulla vita altrui. Un linguaggio che in guerra usa parole come “danno collaterale”, quando si evidenziano vittime civili.
Dico forse, non ne sono certo. Penso che sia così, perché non vedo altre spiegazioni plausibili. Praticano la colleganza, evidenziano i disagi di chi fa quel mestiere che, a seconda delle convenienze, viene santificato, oppure demonizzato.
Le mie sono congetture, fantasmi che mi tormentano, pensieri che insistono pervicacemente. Cosa può essere, se no?
Senza fare troppa retorica, senza ribadire quello che già in tanti hanno detto, scritto e appunto ripetuto, la signora Moretti ha dimostrato un coraggio e un’intelligenza fuori dall’ordinario.
Il rischio di trasformare un fatto di cronaca amaro e stonato, in un’apologia dell’amore di una “mamma” che antepone, alla volgarità dei manifestanti, la foto del proprio figlio ammazzato, è quasi inevitabile.
In un paese mammone, tutti tremano nel vedere quell’immagine, immaginando quel dolore bestiale; quello di una madre che si sveglia la mattina e scopre che un’ingiustizia senza ragioni, piena di soli torti, si è abbattuta sulla sua vita, con un peso insostenibile, per sempre.
Non volevo scriverne: se ne è scritto così tanto, a che cosa serve un altro che dice la sua?
Non lo so. So solo che dovevo, che ne avevo bisogno.
So solo che raramente, come in questo caso, non ho alcun dubbio su dove siano le ragioni, e dove i torti.
E che vorrei abbracciare la signora Moretti e suo marito.
Forse sperano così di dimostrare la loro frustrazione di persone che, a causa del loro lavoro, rischiano in modo diretto la vita; mettono in conto che c’è anche la vita degli altri in ballo, ma che la propria difesa, a volte, può costare un sacrificio; e se un balordo ti si avvicina, rendilo inoffensivo, e poi casomai, verifica e discuti. Adottano così facendo, una logica che manifesta la barbarie, che sottintende la pratica della supremazia di un ruolo sociale- quello di tutore dell’ordine costituito-, sulla vita altrui. Un linguaggio che in guerra usa parole come “danno collaterale”, quando si evidenziano vittime civili.
Dico forse, non ne sono certo. Penso che sia così, perché non vedo altre spiegazioni plausibili. Praticano la colleganza, evidenziano i disagi di chi fa quel mestiere che, a seconda delle convenienze, viene santificato, oppure demonizzato.
Le mie sono congetture, fantasmi che mi tormentano, pensieri che insistono pervicacemente. Cosa può essere, se no?
Senza fare troppa retorica, senza ribadire quello che già in tanti hanno detto, scritto e appunto ripetuto, la signora Moretti ha dimostrato un coraggio e un’intelligenza fuori dall’ordinario.
Il rischio di trasformare un fatto di cronaca amaro e stonato, in un’apologia dell’amore di una “mamma” che antepone, alla volgarità dei manifestanti, la foto del proprio figlio ammazzato, è quasi inevitabile.
In un paese mammone, tutti tremano nel vedere quell’immagine, immaginando quel dolore bestiale; quello di una madre che si sveglia la mattina e scopre che un’ingiustizia senza ragioni, piena di soli torti, si è abbattuta sulla sua vita, con un peso insostenibile, per sempre.
Non volevo scriverne: se ne è scritto così tanto, a che cosa serve un altro che dice la sua?
Non lo so. So solo che dovevo, che ne avevo bisogno.
So solo che raramente, come in questo caso, non ho alcun dubbio su dove siano le ragioni, e dove i torti.
E che vorrei abbracciare la signora Moretti e suo marito.
mercoledì 27 marzo 2013
essere o non essere scrittori?
In merito alla questione della chiusura della Libreria Goldoni, oggi il Gazzettino, “il Quotidiano del Nordest” -come recita la testata-, pubblica una mia testimonianza, mettendo oltre al nome e al cognome, l’appellativo “scrittore”.
So di non chiedere niente di nuovo quando mi domando: “ chi può essere definito scrittore?”.
Confesso pubblicamente che quando si accosta al mio nome quell’appellativo, mi viene sempre una sorta di smarrimento, di capogiro, di pudore bambino.
Ne ho lette parecchie di teorie, di proclami, di affermazioni, ma non sto qui a riportarle, né tanto meno a farne un riassunto. Posso al massimo dire cosa ne penso, cosa ho capito.
Quello che ho capito, è che non ho capito.
Credo non esista una definizione più autorevole delle altre, una certezza più certa, una certificazione ufficiale. In molti hanno tentato di definire, ad esempio, la qualità della scrittura, ma anche in questo caso, molti pareri, nessuno sicuro.
Le domande e le risposte si accavallano l’una all’altra, e il poco che ne vien fuori è che, per essere scrittori, bisogna almeno aver pubblicato: su questo, nessun dubbio. Aldo Busi parla di scrittori con la S maiuscola, e quello che dice, lo condivido pienamente. Il nostro Paese è pieno di scrittori con la minuscola; c’è quasi più gente che scrive di quanta non legga.
Mentre sto concludendo questa mia personale e breve dissertazione, non posso non concludere, se non ammettendo la mia verità, che vale solo per me, e che è una delle tante, dette e scritte con più o meno cognizione di causa.
Se uno legge Tolstoj, il primo dei grandi, quelli con la S maiuscola, che mi viene in mente, non può non essere consapevole di appartenere al girone di quelli con la s minuscola: è un’evidenza innegabile; a questa categoria appartengono quasi tutti, benché non siano tutti uguali: il rating parte dalla s, e va via via scalando fino alla sz; prendendo una così grande e sovrappopolata fauna di esemplari, riesco allora ad accettare l’appellativo di scrittore- seppur mantenendo i capogiri, gli smarrimenti, il pudore bambino.
Lo accetto, purché lo si scriva e lo si pronunci con la s minuscola.
So di non chiedere niente di nuovo quando mi domando: “ chi può essere definito scrittore?”.
Confesso pubblicamente che quando si accosta al mio nome quell’appellativo, mi viene sempre una sorta di smarrimento, di capogiro, di pudore bambino.
Ne ho lette parecchie di teorie, di proclami, di affermazioni, ma non sto qui a riportarle, né tanto meno a farne un riassunto. Posso al massimo dire cosa ne penso, cosa ho capito.
Quello che ho capito, è che non ho capito.
Credo non esista una definizione più autorevole delle altre, una certezza più certa, una certificazione ufficiale. In molti hanno tentato di definire, ad esempio, la qualità della scrittura, ma anche in questo caso, molti pareri, nessuno sicuro.
Le domande e le risposte si accavallano l’una all’altra, e il poco che ne vien fuori è che, per essere scrittori, bisogna almeno aver pubblicato: su questo, nessun dubbio. Aldo Busi parla di scrittori con la S maiuscola, e quello che dice, lo condivido pienamente. Il nostro Paese è pieno di scrittori con la minuscola; c’è quasi più gente che scrive di quanta non legga.
Mentre sto concludendo questa mia personale e breve dissertazione, non posso non concludere, se non ammettendo la mia verità, che vale solo per me, e che è una delle tante, dette e scritte con più o meno cognizione di causa.
Se uno legge Tolstoj, il primo dei grandi, quelli con la S maiuscola, che mi viene in mente, non può non essere consapevole di appartenere al girone di quelli con la s minuscola: è un’evidenza innegabile; a questa categoria appartengono quasi tutti, benché non siano tutti uguali: il rating parte dalla s, e va via via scalando fino alla sz; prendendo una così grande e sovrappopolata fauna di esemplari, riesco allora ad accettare l’appellativo di scrittore- seppur mantenendo i capogiri, gli smarrimenti, il pudore bambino.
Lo accetto, purché lo si scriva e lo si pronunci con la s minuscola.
martedì 26 marzo 2013
Orlando, teatro, pioggia, parole e piccole felicità
Sabato sera sono andato a teatro, il teatro della Murata di Mestre, uno dei pochissimi cosiddetti "teatri off" della città.
Ne ho parlato più volte, e rischio di ripetermi, ma, citando il mio amico Lorenzo, "è il più bel teatro della città"; e per città si intenda comune, e quindi Venezia, dove la concorrenza è forte.
Lo spettacolo "Orlando Orlando" ha vinto dei premi, meritati a mio avviso: non sono esperto di teatro- non sono esperto di niente, io, a dire il vero-, per cui baso il mio giudizio su pochi elementi basilari. Uno di questi, ad esempio, in un teatrino minuscolo con il palco a due metri dalla prima fila, è che un'ora e venti di monologo liberamente tratto da un testo della Woolf, è stato un tempo giusto, calibrato alla perfezione, per non annoiare, ma nemmeno per lasciarti col rammarico della brevità; oppure che un giovane attore molto bravo, gli espedienti della regia e dello scenografo, nonché di chi ha pensato la colonna sonora, sono riusciti nell'intento di raccontare una trama, stravolgerla il giusto, arricchirla con qualche osservazione, a volte acuta, altre ammiccante ma mai ruffiana.
Ma la misura vera, la verifica autentica, la raccolgo alla fine, per strada, mentre ascolto la pioggia che batte sull'ombrello, il silenzio della sera, il movimento interiore che corrisponde all'eco di quello cui ho assistito. E sabato, mentre il vento piegava l'ombrello, il freddo ghiacciava la mano, io stavo bene e mi sentivo centrato.
Per metà spettacolo l’attore rimane in mutande, avvolto a tratti dalla coperta che usa come vestito della neo donna Orlando, trasformatasi da maschio a femmina, causa amore perduto.
Leggendo “Limonov”, nella parte di libro che racconta la sua permanenza newyorkese, viene descritto il suo periodo omosessuale, in cui ha dei rapporti sessuali con dei neri, da cui si fa inculare, come lui stesso racconta in un libro autobiografico. Secondo l’autore, fa questo perché era stato lasciato dall’amatissima moglie, che lui inculava con grande gioia, e che per sublimare il suo tormento, in qualche modo si immagina di essere lei durante l’atto sodomita.
Pensavo a questo sabato, uscito da teatro, sotto l’ombrello, con le mani ghiacciate, con le oscure sagome notturne che vedevo lontane, camminare come me da sole, immaginandole coinvolte, com’ero io, da uno stato d’animo gentile, ma al contempo tumultuoso.
Pensavo che la scrittura, e ancor più la lettura, siano un atto che predispone alla rivoluzione interiore, che siano necessarie alla comprensione, ma questo lo sappiamo tutti.
Se invece si ha la fortuna e il coraggio di incontrare certi scrittori, diventa un atto più prorompente, squarciante, e può condurre in dimensioni che non si conoscevano, che non si immaginavano.
Sono arrivato a casa bagnato e infreddolito, ma felice. Lo ero perché quel ragazzo in mutande, che ha recitato a memoria per un’ora e venti, che all’inizio era un uomo, poi una donna, poi un giovane scrittore rifiutato che cita e ascolta gli Smiths, mi aveva accompagnato attraverso un testo che confermava quanto ho appena scritto.
Ne ho parlato più volte, e rischio di ripetermi, ma, citando il mio amico Lorenzo, "è il più bel teatro della città"; e per città si intenda comune, e quindi Venezia, dove la concorrenza è forte.
Lo spettacolo "Orlando Orlando" ha vinto dei premi, meritati a mio avviso: non sono esperto di teatro- non sono esperto di niente, io, a dire il vero-, per cui baso il mio giudizio su pochi elementi basilari. Uno di questi, ad esempio, in un teatrino minuscolo con il palco a due metri dalla prima fila, è che un'ora e venti di monologo liberamente tratto da un testo della Woolf, è stato un tempo giusto, calibrato alla perfezione, per non annoiare, ma nemmeno per lasciarti col rammarico della brevità; oppure che un giovane attore molto bravo, gli espedienti della regia e dello scenografo, nonché di chi ha pensato la colonna sonora, sono riusciti nell'intento di raccontare una trama, stravolgerla il giusto, arricchirla con qualche osservazione, a volte acuta, altre ammiccante ma mai ruffiana.
Ma la misura vera, la verifica autentica, la raccolgo alla fine, per strada, mentre ascolto la pioggia che batte sull'ombrello, il silenzio della sera, il movimento interiore che corrisponde all'eco di quello cui ho assistito. E sabato, mentre il vento piegava l'ombrello, il freddo ghiacciava la mano, io stavo bene e mi sentivo centrato.
Per metà spettacolo l’attore rimane in mutande, avvolto a tratti dalla coperta che usa come vestito della neo donna Orlando, trasformatasi da maschio a femmina, causa amore perduto.
Leggendo “Limonov”, nella parte di libro che racconta la sua permanenza newyorkese, viene descritto il suo periodo omosessuale, in cui ha dei rapporti sessuali con dei neri, da cui si fa inculare, come lui stesso racconta in un libro autobiografico. Secondo l’autore, fa questo perché era stato lasciato dall’amatissima moglie, che lui inculava con grande gioia, e che per sublimare il suo tormento, in qualche modo si immagina di essere lei durante l’atto sodomita.
Pensavo a questo sabato, uscito da teatro, sotto l’ombrello, con le mani ghiacciate, con le oscure sagome notturne che vedevo lontane, camminare come me da sole, immaginandole coinvolte, com’ero io, da uno stato d’animo gentile, ma al contempo tumultuoso.
Pensavo che la scrittura, e ancor più la lettura, siano un atto che predispone alla rivoluzione interiore, che siano necessarie alla comprensione, ma questo lo sappiamo tutti.
Se invece si ha la fortuna e il coraggio di incontrare certi scrittori, diventa un atto più prorompente, squarciante, e può condurre in dimensioni che non si conoscevano, che non si immaginavano.
Sono arrivato a casa bagnato e infreddolito, ma felice. Lo ero perché quel ragazzo in mutande, che ha recitato a memoria per un’ora e venti, che all’inizio era un uomo, poi una donna, poi un giovane scrittore rifiutato che cita e ascolta gli Smiths, mi aveva accompagnato attraverso un testo che confermava quanto ho appena scritto.
domenica 24 marzo 2013
chiusura della libreria Goldoni Venezia
A Venezia sta per chiudere l’ennesima libreria. La libreria Goldoni si trova in una calletta vicino al teatro: è grande, disposta su due piani; è completa, comprende narrativa, poesia, saggistica, libri scolastici.
Una volta entrati, lunga e incavata com’è, che pare penetrare le viscere veneziane, ci si dimentica di tutto e si entra in quella dimensione ideale che pervade i lettori, di smarrimento, di scollamento temporale. Il cellulare non prende, e questa è un’opportunità per rimanere in quell’incanto. Personalmente mi capita di scorrere nei libri che non ho ancora letto, che so di dover leggere prima di morire; mi fermo davanti alla zona adelphi, parentesi vivifica di qualità; di scorrere gli autori in ordine alfabetico fino a ritrovare autori i cui nomi mi sono segnato come impegno solenne nei confronti della mia salute.
L’ultimo libro comprato, settimana scorsa, “lucina”, di Moresco: non lo trovavo e sono stato gentilmente aiutato, come sempre, a scovarlo tra gli scaffali in ordine alfabetico. Notavo dei buchi, delle mancanze: ho pensato che fosse a causa dell’inventario. Ieri invece, vengo a sapere che sta per chiudere.
Confesso che detesto i melodrammi, le prese di posizione ideologiche, preferendo le intuizioni, le verità che uno scopre da sé: insomma, non digerisco le mode, le tendenze e privilegio le brevi eternità.
Il tutto, con le dovute eccezioni. A Venezia sta indubbiamente prevalendo una logica commerciale degna di Las Vegas o Dubai: sta avanzando in modo inesorabile l’idea che la caricatura dell’originale, pur avendo, in questo caso, a disposizione l’originale stesso, sia più fruttifero in termini di entrate economiche.
La caverna orizzontale che “penetra le viscere veneziane”, è tale perché all’interno vi è una libreria; se ci fosse un negozio di vetri cinesi, un lounge bar, un’estetista, un negozio di Prada, sarebbe semplicemente un esercizio commerciale buio e umido.
Il titolare dice che non ce la fa più a sostenere i costi di gestione: novemila euro di affitto, senza tener conto di tutto il resto.
Ricordo che quando aveva chiuso la Tarantola, di cui scrissi, la ragione era la medesima. Mi raccontava l’allora titolare, che avrebbe aperto una grande firma, che probabilmente sarebbe stato in perdita, ma che una borsetta di plastica di un grande marchio che annoveri alcune città- le solite Milano, Roma Firenze, Venezia, New York, Hong Kong, Shangai, ecc.-, vale in termini pubblicitari ben più di quanto non ci rimetta il negozio stesso.
Una cosa che continuo a ripetere in questi anni, in riferimento allo spopolamento cittadino, al suo impoverimento culturale, al laissez faire, alla vendita ai grandi gruppi economici che ne fanno vetrina internazionale e cassaforte- si pensi, per citare altri, alla cosiddetta “benettown”-, passa da sospetto a certezza.
Penso al festival del cinema in una città senza quasi più cinema; al premio letterario Campiello- di cui si può discutere, ma non ora-, in una città senza quasi più librerie; all’afflusso di turisti- chi parla, forse azzardando, di venti milioni di turisti all’anno- in una città che sta perdendo i suoi cittadini causa svuotamento.
Penso a Claudio ed Elisabetta della Marco Polo, a Cristina della Mare di Carta, alle altre poche che resistono resistono resistono, grazie ad all’idea di chi, forse in forma anacronistica ma di certo virtuosa, crede in quello che fa, pensando di vivere un privilegio: quello che fare il libraio sia uno dei mestieri più belli che ci siano.
Un saluto triste ma pieno di ammirazione al titolare e ai dipendenti della Goldoni, condividendo il rammarico e la tristezza di chi teme di giocare una partita, le cui dimensioni sono oltre la sua portata.
L’impressione che ci tolgano a ritmo lento, ma regolare, l’aria, che poi ci rivenderanno a caro prezzo. O forse anche ci regaleranno, se accetteremo dei brevi spazi pubblicitari tra l’inspirazione e l’espirazione.
Una volta entrati, lunga e incavata com’è, che pare penetrare le viscere veneziane, ci si dimentica di tutto e si entra in quella dimensione ideale che pervade i lettori, di smarrimento, di scollamento temporale. Il cellulare non prende, e questa è un’opportunità per rimanere in quell’incanto. Personalmente mi capita di scorrere nei libri che non ho ancora letto, che so di dover leggere prima di morire; mi fermo davanti alla zona adelphi, parentesi vivifica di qualità; di scorrere gli autori in ordine alfabetico fino a ritrovare autori i cui nomi mi sono segnato come impegno solenne nei confronti della mia salute.
L’ultimo libro comprato, settimana scorsa, “lucina”, di Moresco: non lo trovavo e sono stato gentilmente aiutato, come sempre, a scovarlo tra gli scaffali in ordine alfabetico. Notavo dei buchi, delle mancanze: ho pensato che fosse a causa dell’inventario. Ieri invece, vengo a sapere che sta per chiudere.
Confesso che detesto i melodrammi, le prese di posizione ideologiche, preferendo le intuizioni, le verità che uno scopre da sé: insomma, non digerisco le mode, le tendenze e privilegio le brevi eternità.
Il tutto, con le dovute eccezioni. A Venezia sta indubbiamente prevalendo una logica commerciale degna di Las Vegas o Dubai: sta avanzando in modo inesorabile l’idea che la caricatura dell’originale, pur avendo, in questo caso, a disposizione l’originale stesso, sia più fruttifero in termini di entrate economiche.
La caverna orizzontale che “penetra le viscere veneziane”, è tale perché all’interno vi è una libreria; se ci fosse un negozio di vetri cinesi, un lounge bar, un’estetista, un negozio di Prada, sarebbe semplicemente un esercizio commerciale buio e umido.
Il titolare dice che non ce la fa più a sostenere i costi di gestione: novemila euro di affitto, senza tener conto di tutto il resto.
Ricordo che quando aveva chiuso la Tarantola, di cui scrissi, la ragione era la medesima. Mi raccontava l’allora titolare, che avrebbe aperto una grande firma, che probabilmente sarebbe stato in perdita, ma che una borsetta di plastica di un grande marchio che annoveri alcune città- le solite Milano, Roma Firenze, Venezia, New York, Hong Kong, Shangai, ecc.-, vale in termini pubblicitari ben più di quanto non ci rimetta il negozio stesso.
Una cosa che continuo a ripetere in questi anni, in riferimento allo spopolamento cittadino, al suo impoverimento culturale, al laissez faire, alla vendita ai grandi gruppi economici che ne fanno vetrina internazionale e cassaforte- si pensi, per citare altri, alla cosiddetta “benettown”-, passa da sospetto a certezza.
Penso al festival del cinema in una città senza quasi più cinema; al premio letterario Campiello- di cui si può discutere, ma non ora-, in una città senza quasi più librerie; all’afflusso di turisti- chi parla, forse azzardando, di venti milioni di turisti all’anno- in una città che sta perdendo i suoi cittadini causa svuotamento.
Penso a Claudio ed Elisabetta della Marco Polo, a Cristina della Mare di Carta, alle altre poche che resistono resistono resistono, grazie ad all’idea di chi, forse in forma anacronistica ma di certo virtuosa, crede in quello che fa, pensando di vivere un privilegio: quello che fare il libraio sia uno dei mestieri più belli che ci siano.
Un saluto triste ma pieno di ammirazione al titolare e ai dipendenti della Goldoni, condividendo il rammarico e la tristezza di chi teme di giocare una partita, le cui dimensioni sono oltre la sua portata.
L’impressione che ci tolgano a ritmo lento, ma regolare, l’aria, che poi ci rivenderanno a caro prezzo. O forse anche ci regaleranno, se accetteremo dei brevi spazi pubblicitari tra l’inspirazione e l’espirazione.
sabato 23 marzo 2013
progetti e talenti claudicanti
I progetti cui sto lavorando- non nel senso di lavoro vero e proprio, ma di lavoro artistico, quella roba impalpabile, non considerata importante, non pagata, o pagata poco- sono molteplici.
Provo a scriverne in breve, in modo da non essere noioso- ci provo- o autoreferenziale.
Il progetto ruota attorno al libro, ne è l’estensione, la deviazione, ed è semplice nell’idea primigenia da cui scaturisce, quanto faticoso e laborioso in termini di concretizzazione.
Questo post è uno dei tanti che intende promuoverlo; avrà anche questo un piccolo seguito, lo pubblicherò sul mio blog- che è uno dei moltissimi operanti in Italia-, verrà letto da qualcuno, non modificherà lo status quo, e si limiterà a esistere nel buco nero del web.
Va detto che non sono uno di quelli che ambisce al successo; non in termini generici, almeno. A me basterebbe, e anzi lo preferirei, riuscire a camparne; condivido il medesimo sentimento con un esercito affollato di aspiranti campanti della propria arte, che nella maggior parte dei casi non riuscirà nell’intento, deciderà perciò di arrendersi, di scendere dai piani alti cui si è faticosamente autoelevato, si ammaccherà un pò, ma avrà qualcosa da raccontare a chi lo ascolterà. Dirà a questi che lui- o lei- è un artista che ha abbandonato la propria arte, per dedicarsi totalmente alla vita, per viverla con intensità, per scavarla fino alle viscere, per denudarne l’essenza.
Penserà probabilmente, e probabilmente avrà in parte ragione, che ci sono artisti molto peggiori di lui, ammetterà che ce ne sono altrettanti di uguali, ne citerà qualcun altro, pochi eh, nei confronti dei quali ha una stima illimitata, e che appartengono alla rara categoria dei geni assoluti.
Quando affermerà questo, avrà parimenti ragione e torto. Non si può infatti negare che in questo paese- lo nominerà con la p minuscola-, ogni singolo ambiente ha le sue mafiette, le sue simpatie, e premierà qualcuno non per i suoi meriti, ma per la conoscenza con gli adepti che vi appartengono.
Prendiamo la politica? Ecco, se suo padre fosse amico intimo di un assessore, lui sicuramente potrebbe aspirare ad un posto in qualche giunta, o consiglio di amministrazione.
Ambito letterario? Se lui fosse il cugino o l’amante di un funzionario di una casa editrice, sarebbe pubblicato, sponsorizzato, avrebbe spazio nei giornali e nei dibattiti; e via discorrendo.
Ma poiché lui amava la sua libertà, non poteva svendere il suo talento a chichessia, non era disposto a leccare culi, nonostante qualche riconoscimento, è rimasto nell’ombra. E si è stufato dell’ombra, dell’umidità che vi ristagna, dell’anonimato, delle notti insonni, della solitudine dovuta al processo creativo.
Sono arrivato a fine pagina senza riuscire a parlare dei miei progetti. Ho speso un mucchio di parole per descrivere l’archetipo di ex artista, senza dire alcunché di me.
L’altro giorno, invitato da un’amica insegnante in una scuola dove Molesini- premio Campiello- teneva un incontro con insegnanti e studenti, dopo che lui aveva finito di raccontare genesi e contenuto del suo romanzo, che è stato premiato e tradotto in più lingue, gli ho chiesto se, dopo aver raccontato il mestiere di scrittore, la parte artigianale di costruttore di libri, aneddoti e citazioni, poteva dire qualcosa rispetto a come e cosa accade, quando la storia ti intercetta e ti costringe a scriverla. Lui ha ammesso che era una domanda difficile, come gli avevo preannunciato, e che a lui succede questo: innanzitutto ha invitato a diffidare delle grandi idee, aggiungendo che scrivere, così come qualsiasi altra forma che derivi dalla- sto per usare una parolaccia, ma non me ne vengono in mente altre- propria ispirazione, la quale consegue ad un talento donato dagli dei, ha diverse componenti, e che in particolare a lui è sempre accaduto di essere centrato dallo stato di grazia, lavorando. Mentre lavora, e cioè scrive, la creatura nasce in quel contesto, in quell’ambito, in quella cornice.
Ho già tentato molte volte di descrivere quello che succede a me.
In questo preciso istante ho scritto seicentocinquantatre parole: quando ho iniziato, volevo parlare dei miei progetti; ebbene, qualcosa ha guidato le mie dita, le quali hanno scritto quello che fin qui ho scritto, mio malgrado.
Non mi riferisco alla qualità delle mie parole, ma al loro uscire dai miei confini, per concretizzarsi nella pagina elettronica del computer.
Ho scritto così i miei libri precedenti, e così scriverò il mio prossimo, se qualche casa editrice deciderà di pubblicarlo.
Totalmente in balia di questa dannata fortuna che mi consente di assecondare il mio talento, che più che successo o gratificazioni classicamente intese, mi consente di immergermi nella verità, di lasciare che un miracolo inspiegabile, trovi il modo di manifestarsi ed emergere dalle zone silenti di una parte di me, che pur essendo in me, incontro solo in queste occasioni di abbandono felice.
Provo a scriverne in breve, in modo da non essere noioso- ci provo- o autoreferenziale.
Il progetto ruota attorno al libro, ne è l’estensione, la deviazione, ed è semplice nell’idea primigenia da cui scaturisce, quanto faticoso e laborioso in termini di concretizzazione.
Questo post è uno dei tanti che intende promuoverlo; avrà anche questo un piccolo seguito, lo pubblicherò sul mio blog- che è uno dei moltissimi operanti in Italia-, verrà letto da qualcuno, non modificherà lo status quo, e si limiterà a esistere nel buco nero del web.
Va detto che non sono uno di quelli che ambisce al successo; non in termini generici, almeno. A me basterebbe, e anzi lo preferirei, riuscire a camparne; condivido il medesimo sentimento con un esercito affollato di aspiranti campanti della propria arte, che nella maggior parte dei casi non riuscirà nell’intento, deciderà perciò di arrendersi, di scendere dai piani alti cui si è faticosamente autoelevato, si ammaccherà un pò, ma avrà qualcosa da raccontare a chi lo ascolterà. Dirà a questi che lui- o lei- è un artista che ha abbandonato la propria arte, per dedicarsi totalmente alla vita, per viverla con intensità, per scavarla fino alle viscere, per denudarne l’essenza.
Penserà probabilmente, e probabilmente avrà in parte ragione, che ci sono artisti molto peggiori di lui, ammetterà che ce ne sono altrettanti di uguali, ne citerà qualcun altro, pochi eh, nei confronti dei quali ha una stima illimitata, e che appartengono alla rara categoria dei geni assoluti.
Quando affermerà questo, avrà parimenti ragione e torto. Non si può infatti negare che in questo paese- lo nominerà con la p minuscola-, ogni singolo ambiente ha le sue mafiette, le sue simpatie, e premierà qualcuno non per i suoi meriti, ma per la conoscenza con gli adepti che vi appartengono.
Prendiamo la politica? Ecco, se suo padre fosse amico intimo di un assessore, lui sicuramente potrebbe aspirare ad un posto in qualche giunta, o consiglio di amministrazione.
Ambito letterario? Se lui fosse il cugino o l’amante di un funzionario di una casa editrice, sarebbe pubblicato, sponsorizzato, avrebbe spazio nei giornali e nei dibattiti; e via discorrendo.
Ma poiché lui amava la sua libertà, non poteva svendere il suo talento a chichessia, non era disposto a leccare culi, nonostante qualche riconoscimento, è rimasto nell’ombra. E si è stufato dell’ombra, dell’umidità che vi ristagna, dell’anonimato, delle notti insonni, della solitudine dovuta al processo creativo.
Sono arrivato a fine pagina senza riuscire a parlare dei miei progetti. Ho speso un mucchio di parole per descrivere l’archetipo di ex artista, senza dire alcunché di me.
L’altro giorno, invitato da un’amica insegnante in una scuola dove Molesini- premio Campiello- teneva un incontro con insegnanti e studenti, dopo che lui aveva finito di raccontare genesi e contenuto del suo romanzo, che è stato premiato e tradotto in più lingue, gli ho chiesto se, dopo aver raccontato il mestiere di scrittore, la parte artigianale di costruttore di libri, aneddoti e citazioni, poteva dire qualcosa rispetto a come e cosa accade, quando la storia ti intercetta e ti costringe a scriverla. Lui ha ammesso che era una domanda difficile, come gli avevo preannunciato, e che a lui succede questo: innanzitutto ha invitato a diffidare delle grandi idee, aggiungendo che scrivere, così come qualsiasi altra forma che derivi dalla- sto per usare una parolaccia, ma non me ne vengono in mente altre- propria ispirazione, la quale consegue ad un talento donato dagli dei, ha diverse componenti, e che in particolare a lui è sempre accaduto di essere centrato dallo stato di grazia, lavorando. Mentre lavora, e cioè scrive, la creatura nasce in quel contesto, in quell’ambito, in quella cornice.
Ho già tentato molte volte di descrivere quello che succede a me.
In questo preciso istante ho scritto seicentocinquantatre parole: quando ho iniziato, volevo parlare dei miei progetti; ebbene, qualcosa ha guidato le mie dita, le quali hanno scritto quello che fin qui ho scritto, mio malgrado.
Non mi riferisco alla qualità delle mie parole, ma al loro uscire dai miei confini, per concretizzarsi nella pagina elettronica del computer.
Ho scritto così i miei libri precedenti, e così scriverò il mio prossimo, se qualche casa editrice deciderà di pubblicarlo.
Totalmente in balia di questa dannata fortuna che mi consente di assecondare il mio talento, che più che successo o gratificazioni classicamente intese, mi consente di immergermi nella verità, di lasciare che un miracolo inspiegabile, trovi il modo di manifestarsi ed emergere dalle zone silenti di una parte di me, che pur essendo in me, incontro solo in queste occasioni di abbandono felice.
giovedì 21 marzo 2013
incontri e incidenti coi li-miti
L’anno scorso ho collaborato col festival dei matti di Venezia.
In sostanza ho aiutato la mia amica Anna Poma- ideatrice e responsabile e factotum e tutto il resto, tanto, che un evento simile, in una città come Venezia, comporta- per un evento specifico: sono stato a fianco di Luca Santiago Mora, ideatore e instancabile fautore del progetto “Atelier dell’errore”- un’occhiata in rete a quello che questo progetto comporta, non può che arricchire l’esistenza di chiunque-. Ho procurato il materiale tecnico- una presentazione video, opere dei giovani artisti dell’atelier appesi alle colonne della chiesa di San Stae, meglio conosciuto come Sant’Eustachio, illuminato durante l’incontro con una cerva, tra le cui corna avrebbe visto una croce, ragion per cui il nome dell’evento era “la cervia esutachea”-: in pratica mi sono messo al suo servizio, molto volentieri, cercando di far sì che la sua creatività trovasse riscontro nella concreta possibilità di realizzarla.
A rendere il tutto ancor più nutriente e soddisfacente, l’intervento di Giovanni Lindo Ferretti, conoscitore del progetto, che appoggia e sostiene come può.
Lo dico chiaramente, anche se Anna smentirebbe: sono stato chiamato non solo e non tanto per le mie qualità personali, ma perché sono uno dei pochi che lei- Anna- conosce, che sostengano e amino ancora il Ferretti, nonostante la sua deriva destrorsa e spirituale, criticata in modo, a mio parere senza costrutto, ma solo con motivazioni ideologiche.
Perché lo racconto oggi?
Perché ho letto un post sul blog di Sergio Garufi- che consiglio-, nel quale racconta di un incontro con De Gregori, artista che lui ammira, conclusosi male, con suo dispiacere. Il post in questione mi ha fatto tornare in mente l’occasione di incontro con una persona che tanto ammiro, quanto quest’ammirazione abbia bisogno di una certa distanza per essere mantenuta, e non smentita dal poco che siamo.
Anticipo subito che l’incontro non è poi avvenuto in quanto GLF quel giorno stava male.
La domanda che mi è rimasta, continua comunque a galleggiare in me: come mi sarei comportato, cosa gli avrei detto, quanto sarei rimasto deluso, incontrandolo?
Ricordo una canzone del G che diceva “...non fare di me un idolo mi brucerò\trasformami in megafono mi incepperò...”: messaggio chiaro ai suoi seguaci.
Ecco, io non sono un suo seguace, metà delle sue posizioni sono distanti dalle mie; ma per l’altra metà, ho una indiscutibile passione, intellettiva e sentimentale. E poi, a dire il vero, ancor di più, ho una stima totale per le sue scelte; e lo ripeto: non perché le condivida, ma perché sono autentiche, vere, irrinunciabili per chi, come lui, ha scelto di assecondare il proprio istinto, a prescindere dalla convenienza che questo comporta.
Credo sia questo il punto nodale: lo ammiro e rispetto per il coraggio di essere ciò che è.
E leggendo il post di Garufi, se mai lo stesso accettasse un consiglio da me, cosa di cui per altro dubito, gli augurerei lo stesso: di fare pace con quello che è, al di là del fatto che sia opportuno o meno.
E’ però rimasta in sospeso la domanda: come mi sarei comportato, cosa gli avrei detto?
Mi spiace, ma non ho risposte.
Credo che avrei agito in base a quello che sentivo, che l’avrei espresso, e che questo mi avrebbe condotto dritto dritto verso una figura di merda, come spesso mi accade.
E ciò nonostante, così vanno le cose, così devono andare.
In sostanza ho aiutato la mia amica Anna Poma- ideatrice e responsabile e factotum e tutto il resto, tanto, che un evento simile, in una città come Venezia, comporta- per un evento specifico: sono stato a fianco di Luca Santiago Mora, ideatore e instancabile fautore del progetto “Atelier dell’errore”- un’occhiata in rete a quello che questo progetto comporta, non può che arricchire l’esistenza di chiunque-. Ho procurato il materiale tecnico- una presentazione video, opere dei giovani artisti dell’atelier appesi alle colonne della chiesa di San Stae, meglio conosciuto come Sant’Eustachio, illuminato durante l’incontro con una cerva, tra le cui corna avrebbe visto una croce, ragion per cui il nome dell’evento era “la cervia esutachea”-: in pratica mi sono messo al suo servizio, molto volentieri, cercando di far sì che la sua creatività trovasse riscontro nella concreta possibilità di realizzarla.
A rendere il tutto ancor più nutriente e soddisfacente, l’intervento di Giovanni Lindo Ferretti, conoscitore del progetto, che appoggia e sostiene come può.
Lo dico chiaramente, anche se Anna smentirebbe: sono stato chiamato non solo e non tanto per le mie qualità personali, ma perché sono uno dei pochi che lei- Anna- conosce, che sostengano e amino ancora il Ferretti, nonostante la sua deriva destrorsa e spirituale, criticata in modo, a mio parere senza costrutto, ma solo con motivazioni ideologiche.
Perché lo racconto oggi?
Perché ho letto un post sul blog di Sergio Garufi- che consiglio-, nel quale racconta di un incontro con De Gregori, artista che lui ammira, conclusosi male, con suo dispiacere. Il post in questione mi ha fatto tornare in mente l’occasione di incontro con una persona che tanto ammiro, quanto quest’ammirazione abbia bisogno di una certa distanza per essere mantenuta, e non smentita dal poco che siamo.
Anticipo subito che l’incontro non è poi avvenuto in quanto GLF quel giorno stava male.
La domanda che mi è rimasta, continua comunque a galleggiare in me: come mi sarei comportato, cosa gli avrei detto, quanto sarei rimasto deluso, incontrandolo?
Ricordo una canzone del G che diceva “...non fare di me un idolo mi brucerò\trasformami in megafono mi incepperò...”: messaggio chiaro ai suoi seguaci.
Ecco, io non sono un suo seguace, metà delle sue posizioni sono distanti dalle mie; ma per l’altra metà, ho una indiscutibile passione, intellettiva e sentimentale. E poi, a dire il vero, ancor di più, ho una stima totale per le sue scelte; e lo ripeto: non perché le condivida, ma perché sono autentiche, vere, irrinunciabili per chi, come lui, ha scelto di assecondare il proprio istinto, a prescindere dalla convenienza che questo comporta.
Credo sia questo il punto nodale: lo ammiro e rispetto per il coraggio di essere ciò che è.
E leggendo il post di Garufi, se mai lo stesso accettasse un consiglio da me, cosa di cui per altro dubito, gli augurerei lo stesso: di fare pace con quello che è, al di là del fatto che sia opportuno o meno.
E’ però rimasta in sospeso la domanda: come mi sarei comportato, cosa gli avrei detto?
Mi spiace, ma non ho risposte.
Credo che avrei agito in base a quello che sentivo, che l’avrei espresso, e che questo mi avrebbe condotto dritto dritto verso una figura di merda, come spesso mi accade.
E ciò nonostante, così vanno le cose, così devono andare.
martedì 19 marzo 2013
festa del papà
Oggi è la festa del papà.
L’altro giorno è stato il compleanno di mia figlia. Ha compiuto quindici anni, un’età che molti genitori considerano critica, che temono, che immaginano li costringerà alla lotta, al martirio. Di mio la considero un’età, punto.
Pensavo alla sua età, alla mia, ma soprattutto al fatto che erano passati già quindici anni da quando l’avevo tenuta per la prima volta in braccio, l’avevo baciata, l’avevo sognata e finalmente vista, toccata, annusata.
Non temo il passare del tempo, non mi spaventa l’idea di invecchiare, quanto piuttosto di cercare di vivere il tempo che passa, di sentirlo scorrere, di non dovermi pentire di averlo smarrito che poi, lo sappiamo tutti, non torna.
Ci sono stati molti giorni prima degli ultimi ( 365 per 15 uguale 5475) cinquemilaquattrocentosettantacinque, e questi però sono stati davvero pieni della sua presenza, come fossero riempiti, farciti, dell’intreccio dei nostri destini.
Non mi piace il paternalismo, la retorica talvolta barocca, mielosa, con cui si descrive il rapporto coi propri figli. Non credo che il nostro sia particolarmente diverso dagli altri; non credo di essere capace di un amore straordinario, non mi pare obiettivamente di cogliere chissà quale legame. E aggiungo che sbaglio spesso, che ci discuto continuamente, che mi arrabbio e la faccio arrabbiare, che l’avrò delusa e ferita, come chiunque altro abbia fatto il genitore, senza volerlo, pensando di fare bene, o a volte anche in modo gratuito, e che non mi autoassolvo con leggerezza per questo.
Eppure, in modo credo abbastanza laico, posso affermare che un sentimento così viscerale- nel senso di senza dubbio profondamente interiore-, così assoluto- nel senso che non è governato da me-, così delicato e possente insieme, non l’ho mai sentito.
Il rapporto genitoriale, quello amoroso, sono pieni di aspettative, tormentati da uno sfondo “ricattatorio”- nel senso di dare-avere-, e possono essere anche più intensi nel bene e nel male, ma transitori, subenti intemperie, correnti, eventi.
Questo no: questo c’è, a prescindere.
Non sto affermando che così è in senso universale, che vale per tutti, che si deve figliare per capire il senso della vita, i limiti della propria, per percepire l’immortalità. No, sto parlando di me, e so che questo vale per me, nella misura in cui ogni esperienza vale in modo soggettivo per ciascuno.
Oggi ha pubblicato su un social una serie di foto che ritraggono entrambi, quando lei era piccola, e io senza barba e più giovane. Al di là della questione “social-specchio dei tempi”, confesso che mi ha fatto molto piacere.
Un piacere semplice, quasi banale, che ha a che fare coi sentimenti, senza sentimentalismo.
Tempo fa parlavo con un amico giornalista, il quale mi chiedeva del rapporto tra quello che avevo scritto sul mio ultimo libro, e la reazione che mia figlia avrà, leggendolo.
Gli ho risposto che i libri migliori che ho letto raccontano il “vero”, senza essere necessariamente biografiche.
Questo non per dire che il mio libro sia paragonabile a questi- ho il senso del limite-, ma che confido nella sua intelligenza e nella sua capacità di coglierne l’urgenza narrativa.
Credo infatti di aver scritto un libro che descrive in forma soggettiva dei sintomi; e che questi non sono i miei, ma quelli che in questi anni ho incrociato, in me e negli altri.
Non so se questo le renderà lo stesso orgoglio che io provo nell’essere suo padre, ma questo è un particolare secondario.
L’altro giorno è stato il compleanno di mia figlia. Ha compiuto quindici anni, un’età che molti genitori considerano critica, che temono, che immaginano li costringerà alla lotta, al martirio. Di mio la considero un’età, punto.
Pensavo alla sua età, alla mia, ma soprattutto al fatto che erano passati già quindici anni da quando l’avevo tenuta per la prima volta in braccio, l’avevo baciata, l’avevo sognata e finalmente vista, toccata, annusata.
Non temo il passare del tempo, non mi spaventa l’idea di invecchiare, quanto piuttosto di cercare di vivere il tempo che passa, di sentirlo scorrere, di non dovermi pentire di averlo smarrito che poi, lo sappiamo tutti, non torna.
Ci sono stati molti giorni prima degli ultimi ( 365 per 15 uguale 5475) cinquemilaquattrocentosettantacinque, e questi però sono stati davvero pieni della sua presenza, come fossero riempiti, farciti, dell’intreccio dei nostri destini.
Non mi piace il paternalismo, la retorica talvolta barocca, mielosa, con cui si descrive il rapporto coi propri figli. Non credo che il nostro sia particolarmente diverso dagli altri; non credo di essere capace di un amore straordinario, non mi pare obiettivamente di cogliere chissà quale legame. E aggiungo che sbaglio spesso, che ci discuto continuamente, che mi arrabbio e la faccio arrabbiare, che l’avrò delusa e ferita, come chiunque altro abbia fatto il genitore, senza volerlo, pensando di fare bene, o a volte anche in modo gratuito, e che non mi autoassolvo con leggerezza per questo.
Eppure, in modo credo abbastanza laico, posso affermare che un sentimento così viscerale- nel senso di senza dubbio profondamente interiore-, così assoluto- nel senso che non è governato da me-, così delicato e possente insieme, non l’ho mai sentito.
Il rapporto genitoriale, quello amoroso, sono pieni di aspettative, tormentati da uno sfondo “ricattatorio”- nel senso di dare-avere-, e possono essere anche più intensi nel bene e nel male, ma transitori, subenti intemperie, correnti, eventi.
Questo no: questo c’è, a prescindere.
Non sto affermando che così è in senso universale, che vale per tutti, che si deve figliare per capire il senso della vita, i limiti della propria, per percepire l’immortalità. No, sto parlando di me, e so che questo vale per me, nella misura in cui ogni esperienza vale in modo soggettivo per ciascuno.
Oggi ha pubblicato su un social una serie di foto che ritraggono entrambi, quando lei era piccola, e io senza barba e più giovane. Al di là della questione “social-specchio dei tempi”, confesso che mi ha fatto molto piacere.
Un piacere semplice, quasi banale, che ha a che fare coi sentimenti, senza sentimentalismo.
Tempo fa parlavo con un amico giornalista, il quale mi chiedeva del rapporto tra quello che avevo scritto sul mio ultimo libro, e la reazione che mia figlia avrà, leggendolo.
Gli ho risposto che i libri migliori che ho letto raccontano il “vero”, senza essere necessariamente biografiche.
Questo non per dire che il mio libro sia paragonabile a questi- ho il senso del limite-, ma che confido nella sua intelligenza e nella sua capacità di coglierne l’urgenza narrativa.
Credo infatti di aver scritto un libro che descrive in forma soggettiva dei sintomi; e che questi non sono i miei, ma quelli che in questi anni ho incrociato, in me e negli altri.
Non so se questo le renderà lo stesso orgoglio che io provo nell’essere suo padre, ma questo è un particolare secondario.
lunedì 11 marzo 2013
fukushima mon amour 2013: anniversario
due anni fa scrivevo questo post.
Lo ripropongo.
Piove, marzo.
sto bevendo un té, leggendo un romanzo di uno scrittore russo.
Sento il ritmo regolare della pioggia contro il vetro della finestra: un sottofondo piacevole. Squilla il cellulare, è Haruki. Rispondo: una voce dal tono molto scosso, respiro affannoso, dice che ha il corpo ricoperto di segni rossi: è uno sfogo cutaneo.
Mi chiede, per favore, di raggiungerlo.
Arrivo davanti casa sua. Suono, mi apre il portoncino. È vestito con una brutta tuta da ginnastica. È sciupato, ha il viso macchiato e gonfio.
Entro con circospezione, gli chiedo cosa sia successo, forse troppo frettolosamente.
Mi fa sedere, porta un té e finalmente parla.
“Da cinque mesi sto facendo una terapia per dei seri problemi al fegato e al pancreas. Ho cambiato diversi farmaci, ma non si sa a quale sia allergico. Devo farmi ricoverare per accertamenti”.
“Cinque mesi che fai la terapia? Ma io non sapevo niente, e… scusa ma sono sconvolto… Sei sempre stato solo, ti sei sempre tenuto tutto dentro…”, dico io.
“Lo so! E adesso me la faccio sotto. Mia moglie non sa niente, non ho avuto il coraggio di parlarle, e non so come affrontare sto casino… Scusa …”. La voce è debole, condizionata dalla commozione e dell’umiliazione; nasconde tra le mani un pianto di chi non è abituato a farsi vedere così, e corre verso il bagno trascinando le ciabatte.
Lo seguo, busso, entro e l’abbraccio.
“Sono qui con te… Ti voglio bene…”, dico mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime e la voce mi si strozza. Lo abbraccio con gli occhi chiusi, e non sento niente. È la persona con cui sono cresciuto, con cui ho condiviso viaggi e storie. E non sento niente. Vorrei provare dolore, sentire l’apprensione soffocarmi, immaginare il peggio: ma niente. Lo stringo e lui diventa di gomma morbida, mi si modella addosso fino a non sentirlo più. Scricchiola un poco come fosse in decomposizione, come cenere di brace che si polverizza. Non sento male, non provo nulla. Poi riapro gli occhi e lui è lì; evitiamo di guardarci negli occhi per non umiliarci ancor di più.
“Torniamo di là e chiamiamo l'ospedale”, dico.
Chiama lui, spiega la sua posizione. È ingegnere nucleare, lavora in centrale da sette anni e sì, forse c’è stata una piccola fuga di uranio; o forse è successo quando è andato con la squadra di tecnici volontari a ripristinare la corrente elettrica dopo lo tsunami. In azienda dicono che non ha tracce di radioattività, che non è contagioso, che non si può escludere che si tratti di un effetto collaterale dovuto alla missione.
Gli dicono che manderanno un’ambulanza.
Ascolto in silenzio la telefonata. Gli dico di non preoccuparsi per la moglie; chiederemo consiglio ai medici. Nel frattempo, diremo che è uno sfogo allergico. Si rilassa un poco.
La realtà ci impone di essere forti.
Si fa silenzio.
La casa ne è invasa.
Usciamo, dobbiamo andare, l’ambulanza sarà qui a momenti.
Fuori piove. S’alza il vento, sempre più forte.
Mi volto verso la casa.
Un lampo improvviso, inaspettato, si accende dall’appartamento di Haruki.
Uno scoppio, una deflagrazione fa volare pezzi di vetro, carne, schegge di plastica, legno. Il condominio si gonfia, scoppia, s’accartoccia, s’incendia, si ripiega e infine si disintegra. Il tutto dura pochi secondi. Lo spostamento d’aria mi scaraventa verso l'alto con un’energia tale, che non avrei mai potuto immaginare nemmeno col pensiero; non c’è più nulla né davanti né dietro me. Non c’è più Haruki, non c'è l’ambulanza, la strada, la città, il mondo, il pensiero, il sentimento, l'emozione.
Tutto ormai è soltanto niente.
Sto galleggiando nell’aria.
Volteggio e roteo.
Mi perdo nella non dimensione cui appartengo: né vivo, né morto.
…
Mi sveglio tutto sudato.
Mi guardo attorno sconvolto.
La camera è piena di brandine, la camera non è una camera: è una palestra.
È marzo, è il 2011.
Mi chiamo Yamaguchi e tra morti, dispersi e vivi, se potessi scegliere, vorrei riuscire a dormire senza dover sognare questi incubi.
Lo ripropongo.
Piove, marzo.
sto bevendo un té, leggendo un romanzo di uno scrittore russo.
Sento il ritmo regolare della pioggia contro il vetro della finestra: un sottofondo piacevole. Squilla il cellulare, è Haruki. Rispondo: una voce dal tono molto scosso, respiro affannoso, dice che ha il corpo ricoperto di segni rossi: è uno sfogo cutaneo.
Mi chiede, per favore, di raggiungerlo.
Arrivo davanti casa sua. Suono, mi apre il portoncino. È vestito con una brutta tuta da ginnastica. È sciupato, ha il viso macchiato e gonfio.
Entro con circospezione, gli chiedo cosa sia successo, forse troppo frettolosamente.
Mi fa sedere, porta un té e finalmente parla.
“Da cinque mesi sto facendo una terapia per dei seri problemi al fegato e al pancreas. Ho cambiato diversi farmaci, ma non si sa a quale sia allergico. Devo farmi ricoverare per accertamenti”.
“Cinque mesi che fai la terapia? Ma io non sapevo niente, e… scusa ma sono sconvolto… Sei sempre stato solo, ti sei sempre tenuto tutto dentro…”, dico io.
“Lo so! E adesso me la faccio sotto. Mia moglie non sa niente, non ho avuto il coraggio di parlarle, e non so come affrontare sto casino… Scusa …”. La voce è debole, condizionata dalla commozione e dell’umiliazione; nasconde tra le mani un pianto di chi non è abituato a farsi vedere così, e corre verso il bagno trascinando le ciabatte.
Lo seguo, busso, entro e l’abbraccio.
“Sono qui con te… Ti voglio bene…”, dico mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime e la voce mi si strozza. Lo abbraccio con gli occhi chiusi, e non sento niente. È la persona con cui sono cresciuto, con cui ho condiviso viaggi e storie. E non sento niente. Vorrei provare dolore, sentire l’apprensione soffocarmi, immaginare il peggio: ma niente. Lo stringo e lui diventa di gomma morbida, mi si modella addosso fino a non sentirlo più. Scricchiola un poco come fosse in decomposizione, come cenere di brace che si polverizza. Non sento male, non provo nulla. Poi riapro gli occhi e lui è lì; evitiamo di guardarci negli occhi per non umiliarci ancor di più.
“Torniamo di là e chiamiamo l'ospedale”, dico.
Chiama lui, spiega la sua posizione. È ingegnere nucleare, lavora in centrale da sette anni e sì, forse c’è stata una piccola fuga di uranio; o forse è successo quando è andato con la squadra di tecnici volontari a ripristinare la corrente elettrica dopo lo tsunami. In azienda dicono che non ha tracce di radioattività, che non è contagioso, che non si può escludere che si tratti di un effetto collaterale dovuto alla missione.
Gli dicono che manderanno un’ambulanza.
Ascolto in silenzio la telefonata. Gli dico di non preoccuparsi per la moglie; chiederemo consiglio ai medici. Nel frattempo, diremo che è uno sfogo allergico. Si rilassa un poco.
La realtà ci impone di essere forti.
Si fa silenzio.
La casa ne è invasa.
Usciamo, dobbiamo andare, l’ambulanza sarà qui a momenti.
Fuori piove. S’alza il vento, sempre più forte.
Mi volto verso la casa.
Un lampo improvviso, inaspettato, si accende dall’appartamento di Haruki.
Uno scoppio, una deflagrazione fa volare pezzi di vetro, carne, schegge di plastica, legno. Il condominio si gonfia, scoppia, s’accartoccia, s’incendia, si ripiega e infine si disintegra. Il tutto dura pochi secondi. Lo spostamento d’aria mi scaraventa verso l'alto con un’energia tale, che non avrei mai potuto immaginare nemmeno col pensiero; non c’è più nulla né davanti né dietro me. Non c’è più Haruki, non c'è l’ambulanza, la strada, la città, il mondo, il pensiero, il sentimento, l'emozione.
Tutto ormai è soltanto niente.
Sto galleggiando nell’aria.
Volteggio e roteo.
Mi perdo nella non dimensione cui appartengo: né vivo, né morto.
…
Mi sveglio tutto sudato.
Mi guardo attorno sconvolto.
La camera è piena di brandine, la camera non è una camera: è una palestra.
È marzo, è il 2011.
Mi chiamo Yamaguchi e tra morti, dispersi e vivi, se potessi scegliere, vorrei riuscire a dormire senza dover sognare questi incubi.
domenica 10 marzo 2013
cosa ne pensi delle rime?
brano che i supermarket eseguiranno ai prossimi appuntamenti
...
Cosa ne pensi della vita?
Adesso che sai che non è infinita
Che hai conosciuto le regole della partita
Che ti pare che ti guardi stupita
Cosa ne pensi dell'amore?
Adesso che ne hai smarrito l'odore
Che ti portato noia e ardore
Che ti pare sia un doveroso errore
Cosa ne pensi della tua ragione?
Adesso che hai imbrogliato l'intenzione
Che hai attraversato l'attenzione
Che non hai più una seria opinione
Cosa ne pensi dello smarrimento?
Adesso che conosci il suo struggimento
Che ti sei aggrappato al suo tormento
Che ti sei opposto al suo pignoramento
cosa ne pensi dell’intelligenza?
adesso che sai che si può vivere senza
che non interroghi più la tua coscienza
che l’hai sostituita con la pazienza
cosa ne pensi del sacrificio?
adesso che ne hai scoperto l’artificio
che ti sei nascosto in un ufficio
che lo ritieni un inutile auspicio
cosa ne pensi della felicità?
adesso che punti alla sobrietà
che ti rifugi nella sazietà
che nascondi la tua alterità
cosa ne pensi della morte?
adesso che sai che si tira a sorte
che l’hai vista bussare a tante porte
che sai che è lei la più forte?
...
Cosa ne pensi della vita?
Adesso che sai che non è infinita
Che hai conosciuto le regole della partita
Che ti pare che ti guardi stupita
Cosa ne pensi dell'amore?
Adesso che ne hai smarrito l'odore
Che ti portato noia e ardore
Che ti pare sia un doveroso errore
Cosa ne pensi della tua ragione?
Adesso che hai imbrogliato l'intenzione
Che hai attraversato l'attenzione
Che non hai più una seria opinione
Cosa ne pensi dello smarrimento?
Adesso che conosci il suo struggimento
Che ti sei aggrappato al suo tormento
Che ti sei opposto al suo pignoramento
cosa ne pensi dell’intelligenza?
adesso che sai che si può vivere senza
che non interroghi più la tua coscienza
che l’hai sostituita con la pazienza
cosa ne pensi del sacrificio?
adesso che ne hai scoperto l’artificio
che ti sei nascosto in un ufficio
che lo ritieni un inutile auspicio
cosa ne pensi della felicità?
adesso che punti alla sobrietà
che ti rifugi nella sazietà
che nascondi la tua alterità
cosa ne pensi della morte?
adesso che sai che si tira a sorte
che l’hai vista bussare a tante porte
che sai che è lei la più forte?
cosa ne pensi delle rime?
adesso che le hai esaurite
che le parole te le sei giocate
che devi pur dire la parola fine
giovedì 7 marzo 2013
giornata delle donne, estratto da "homo sapiens nord est"
...
“ Questa storia è tratta dal diario di una ragazza.
È una ragazza qualunque che ha deciso di dire finalmente la verità che ha nascosto per molti anni.
Di solito tace e lascia che il mondo sia guidato da altri, mentre lei ci si fa condurre.
Ma oggi guida lei, decide lei la direzione; è padrona, e può disporre del suo dire o del suo tacere come meglio desidera.
E proprio oggi ha deciso di dare luce alle zone d'ombra, di dar voce all'urlo che l'assorda seppur muto.
Parla con un amico di cui si fida.
Sente di poter toccare quel punto duro, scuro, che le fa visita ogni giorno, ogni istante, per avvolgerla e portarla, anche se lei non vorrebbe, con sé. Questo si manifesta con la paura, l'incapacità di credere, di fidarsi, di stare con gli altri, di sopportare la propria ingombrante presenza di donna che sopravvive pur non sapendo vivere.
E così una timidezza vigliacca la soffoca, per poi scatenare una rabbia furibonda con i pochi esseri umani più deboli che incontra, e che la costringe a temere, senza rispettare, tutti gli altri.
Questo parlare somiglia ad una ferrata in montagna: ogni passo è incerto, calcolato, rischioso, e insieme soddisfacente, liberatorio. E piano, con cautela, ci arriva.
Parla di suo padre.
È un uomo cattivo e non c'è nient'altro da dire; ma oggi sì, c'è dell'altro, c'è la verità creduta; e anche se non è detto sia quella vera, è di certo quella che lei percepisce come tale.
Quella su cui ha basato le sue fievoli certezze, sempre pronte a franare.
Lui è cattivo, e poco altro. È un debole e ha sempre bevuto molto, troppo: un binomio perfetto per allearsi con una cattiveria posticcia, gratuita, e perciò prevaricante.
Pochi giorni prima, insieme all'amico, stava decidendo il da farsi sullo spostamento della madre in cimitero: dopo un tot di anni, è di prassi spostare le salme.
In questo caso, una prassi amministrativa quanto mai sconfinante nell'intimo, nei ricordi, nella speranza che almeno lei, la madre, avesse trovato il meritato, definitivo riposo.
Pochi giorni prima era col telefono in mano per cercare di capire esattamente cosa dovesse fare.
Oltre ad avere le dettagliate istruzioni del caso, ha fatto un'incredibile scoperta.
Era insieme all'amico, al telefono, che chiedeva informazioni per lei. Parlava a una voce senza volto che rappresentava, in quel caso, una funzione.
Quella voce senza volto, quella funzione li avevano spediti, per poco, in una dimensione di incredulità, come fossero gli attori di un film, o le vittime di uno scherzo di cattivo gusto.
“il signor B********* non è morto. A me risulta abitante in via S******, dove ha sempre abitato”
Quel padre cattivo, beffardo, era risorto. Quel cane rabbioso aveva raggirato perfino la morte. Per alimentare le ansie, per confermare l'immortalità dell'orrore, della paura pura, senza attenuanti e pensieri razionali consolanti.
Un anno prima, dopo che era stato ricoverato in fin di vita e la ragazza era stata invitata dalla zia, sorella di lui, ad andarlo a trovare: al suo rifiuto, fredde maledizioni. Poco dopo, il giorno successivo, era arrivato un messaggio al telefonino, mittente la stessa zia, che diceva di non preoccuparsi più, che tanto lui era morto.
Un anno prima di quella telefonata.
Quel giorno, diceva all'amico, non riusciva proprio a capacitarsi di come la zia, sorella di quell'uomo, suo padre, quel bastardo cattivo, potesse pretendere che lei lo andasse a trovare dopo anni che non si erano più visti e sentiti, e dopo quello che lui le aveva fatto passare.
L'amico non sapeva con esattezza cosa le aveva fatto passare; sapeva però cosa fanno passare molti padri e madri ai figli. L'aveva letto giorni prima su una rivista di psicologia.
Ed era sempre meno sottile, meno sfumata, meno sofisticata, la violenza. Era ormai manifesta, impudica, priva di sottigliezze psicologiche. Era pura rabbia travasata, trasformata in paura e angoscia, la cui unica scappatoia, è la convivenza consapevole.
Non si guarisce, non c'è possibilità di essere come gli altri; al massimo, si può sembrare come gli altri.
L'articolo finiva in modo da lasciarlo sgomento.
Diceva che questo punto non incontra molti favori in costoro. Era difficile, per le vittime, capire che non esiste un “essere” cui ambire. Ciascuno ha le stesse paure, le stesse angosce, le stesse insicurezze; cambia semmai la capacità di conviverci. Insomma, la tanto ambita uguaglianza, quella che loro pensavano essere incarnata dalle persone normali, che mai avevano subìto violenza, era una convenzione sociale mitizzata.
Arrivano al cimitero della madre, morta quando lei era ancora bambina piccola.
L'ultima volta che è andata a trovarla, sulla lapide ha trovato un foglio scritto a penna. Diceva che il primo conoscente che passava di là, avrebbe dovuto contattare l'ufficio preposto per le pratiche di riesumazione della salma.
Non ha raccontato al collega che effetto le aveva fatto leggere che sua madre era una salma.
Sua madre non c'era da così tanto che poteva essere soltanto un ricordo idealizzato. Incarnava tutto il bene che non aveva avuto. Rappresentava tutti i sogni finiti quando, incolpevole, era morta.
Era la mamma che tutti sognano.
Non poteva perciò essere la mamma che l'aveva lasciata con quel padre cattivo.
Non poteva essere, eppure lo era. Una contraddizione che scarnifica la pelle, che penetra la superficie e s'infila dove vuole lei, dove fa più male.
In prossimità del casello della città esordisce iniziando la frase con “pensa che”.
L'amico deve forzarsi di “pensare che”: lei è piccola, poco più di sei anni.
Devono uscire e il padre non trova le chiavi.
Non le trova e s'arrabbia.
Gli monta una rabbia cieca, senza ragioni che non siano la rabbia stessa, che deve uscire come schiuma, e schiuma la bocca e diventa notte sullo sguardo.
Cane rabbioso, lui, vede la vittima, lei.
Lei si è stretta sulle sue spalle, che alza per incassarvi la testa e nasconderla più che può.
Alla sua destra, dietro la schiena, il muro adiacente alla porta d'ingresso del sozzo appartamento.
Lui prende un ombrello col manico di legno e glielo punta alla tempia, dalla parte della testa opposta al muro.
Lei è schiacciata con l'orecchio piegato verso dentro, dalla parte del muro, e con la punta dell'ombrello dall'altra.
Le intima feroce di tirar fuori le chiavi, di dirgli dove cazzo le abbia messe: DI DIRGLIELO PORCA PUTTANA!!
Lei è terrorizzata, muta, in black out.
Anche i pensieri lo sono.
Tranne uno.
L'unico sopravvissuto nella bolla vuota e nera che ha in testa.
Dice “controlla in tasca papà”.
Lui dice “no cazzo non son mica scemo dio can”, ma in quel preciso istante, la mano, autonomamente, lo fa; fruga in tasca e ne tira fuori le chiavi che tintinnano senz'allegria.
C'è un istante di pura immobilità in cui tutto è fermo, inerte.
Il tempo, i pensieri, il male: tutto sospeso.
Un attimo dopo lui crolla.
Scivola sulle proprie ginocchia e da quella posizione le chiede scusa, strofinandogli la faccia sui vestiti, piangendo un pianto sporco, le cui lacrime odorano di merda e di piscio e di bile e di alcool e di pillole.
Mentre raccontava, lei era regredita fino a ridiventare quella bambina.
Mentre parlava, guardando distante l'orizzonte vicinissimo a causa di una nebbia crescente, aveva il tono di chi non sa collocare quel terrore fuori di sé.
L'amico taceva.
Ascoltava.
Accoglieva disgustato la trasmissione del suo disgusto.
Le chiedeva se in lui ci fosse mai stata una traccia di pentimento.
“Sì, forse c'era”, risponde lei. Ma lo dice con un tono che ne sancisce l'inutilità, il ritardo, l’irrilevanza.
“Era cattivo!
Ho ancora la cicatrice sulla fronte di quando mi ha sbattuto con una spinta distratta contro l'angolo del tavolo da cucina. Lo faceva, e se ne pentiva. E un altro segno che per fortuna non sono costretta a guardare, proprio qui sulla schiena, vicino a dove finisce la colonna vertebrale.
E poi dei segni dentro di me. Come quando mi costringeva a guardare mentre penetrava mia madre. Lei stava già morendo fisicamente, la malattia se la stava mangiando. Mi guardava, lui, perché lei girava la testa dall'altra parte; aveva uno sguardo quasi tenero, come volesse farmi capire che l'amava ancora, anche se lei faceva schifo. Come a dire che potevo fidarmi, che lui amava per sempre”.
L'amico, seppur muto, concordava: era cattivo.
Di una cattiveria che non aveva mai conosciuto. Sapeva, perché lo aveva letto in quell'articolo, che la cattiveria esiste in ognuno di noi. È uno stato naturale, che può anche salvar la vita, cancellato però dalla morale che la nega e la relega all'altro: mai a sé.
Ma non l'aveva mai sfiorato a quelle profondità.
La nebbia si faceva sempre più presente, inghiottendoli.
La città era sparita, nascosta dentro quel vapore freddo.
Ad un certo punto non sapevano più dove fossero.
La nebbia aveva cancellato i confini e, senza preavviso, insieme, avevano iniziato a ridere del fatto che si erano persi.
Perdersi aveva tanti significati, quella mattina.
Ridevano, avevano chiesto informazioni, erano tornati in carreggiata.
Dopo essersi persi, in fin dei conti, non si può ritrovarsi.
“ Questa storia è tratta dal diario di una ragazza.
È una ragazza qualunque che ha deciso di dire finalmente la verità che ha nascosto per molti anni.
Di solito tace e lascia che il mondo sia guidato da altri, mentre lei ci si fa condurre.
Ma oggi guida lei, decide lei la direzione; è padrona, e può disporre del suo dire o del suo tacere come meglio desidera.
E proprio oggi ha deciso di dare luce alle zone d'ombra, di dar voce all'urlo che l'assorda seppur muto.
Parla con un amico di cui si fida.
Sente di poter toccare quel punto duro, scuro, che le fa visita ogni giorno, ogni istante, per avvolgerla e portarla, anche se lei non vorrebbe, con sé. Questo si manifesta con la paura, l'incapacità di credere, di fidarsi, di stare con gli altri, di sopportare la propria ingombrante presenza di donna che sopravvive pur non sapendo vivere.
E così una timidezza vigliacca la soffoca, per poi scatenare una rabbia furibonda con i pochi esseri umani più deboli che incontra, e che la costringe a temere, senza rispettare, tutti gli altri.
Questo parlare somiglia ad una ferrata in montagna: ogni passo è incerto, calcolato, rischioso, e insieme soddisfacente, liberatorio. E piano, con cautela, ci arriva.
Parla di suo padre.
È un uomo cattivo e non c'è nient'altro da dire; ma oggi sì, c'è dell'altro, c'è la verità creduta; e anche se non è detto sia quella vera, è di certo quella che lei percepisce come tale.
Quella su cui ha basato le sue fievoli certezze, sempre pronte a franare.
Lui è cattivo, e poco altro. È un debole e ha sempre bevuto molto, troppo: un binomio perfetto per allearsi con una cattiveria posticcia, gratuita, e perciò prevaricante.
Pochi giorni prima, insieme all'amico, stava decidendo il da farsi sullo spostamento della madre in cimitero: dopo un tot di anni, è di prassi spostare le salme.
In questo caso, una prassi amministrativa quanto mai sconfinante nell'intimo, nei ricordi, nella speranza che almeno lei, la madre, avesse trovato il meritato, definitivo riposo.
Pochi giorni prima era col telefono in mano per cercare di capire esattamente cosa dovesse fare.
Oltre ad avere le dettagliate istruzioni del caso, ha fatto un'incredibile scoperta.
Era insieme all'amico, al telefono, che chiedeva informazioni per lei. Parlava a una voce senza volto che rappresentava, in quel caso, una funzione.
Quella voce senza volto, quella funzione li avevano spediti, per poco, in una dimensione di incredulità, come fossero gli attori di un film, o le vittime di uno scherzo di cattivo gusto.
“il signor B********* non è morto. A me risulta abitante in via S******, dove ha sempre abitato”
Quel padre cattivo, beffardo, era risorto. Quel cane rabbioso aveva raggirato perfino la morte. Per alimentare le ansie, per confermare l'immortalità dell'orrore, della paura pura, senza attenuanti e pensieri razionali consolanti.
Un anno prima, dopo che era stato ricoverato in fin di vita e la ragazza era stata invitata dalla zia, sorella di lui, ad andarlo a trovare: al suo rifiuto, fredde maledizioni. Poco dopo, il giorno successivo, era arrivato un messaggio al telefonino, mittente la stessa zia, che diceva di non preoccuparsi più, che tanto lui era morto.
Un anno prima di quella telefonata.
Quel giorno, diceva all'amico, non riusciva proprio a capacitarsi di come la zia, sorella di quell'uomo, suo padre, quel bastardo cattivo, potesse pretendere che lei lo andasse a trovare dopo anni che non si erano più visti e sentiti, e dopo quello che lui le aveva fatto passare.
L'amico non sapeva con esattezza cosa le aveva fatto passare; sapeva però cosa fanno passare molti padri e madri ai figli. L'aveva letto giorni prima su una rivista di psicologia.
Ed era sempre meno sottile, meno sfumata, meno sofisticata, la violenza. Era ormai manifesta, impudica, priva di sottigliezze psicologiche. Era pura rabbia travasata, trasformata in paura e angoscia, la cui unica scappatoia, è la convivenza consapevole.
Non si guarisce, non c'è possibilità di essere come gli altri; al massimo, si può sembrare come gli altri.
L'articolo finiva in modo da lasciarlo sgomento.
Diceva che questo punto non incontra molti favori in costoro. Era difficile, per le vittime, capire che non esiste un “essere” cui ambire. Ciascuno ha le stesse paure, le stesse angosce, le stesse insicurezze; cambia semmai la capacità di conviverci. Insomma, la tanto ambita uguaglianza, quella che loro pensavano essere incarnata dalle persone normali, che mai avevano subìto violenza, era una convenzione sociale mitizzata.
Arrivano al cimitero della madre, morta quando lei era ancora bambina piccola.
L'ultima volta che è andata a trovarla, sulla lapide ha trovato un foglio scritto a penna. Diceva che il primo conoscente che passava di là, avrebbe dovuto contattare l'ufficio preposto per le pratiche di riesumazione della salma.
Non ha raccontato al collega che effetto le aveva fatto leggere che sua madre era una salma.
Sua madre non c'era da così tanto che poteva essere soltanto un ricordo idealizzato. Incarnava tutto il bene che non aveva avuto. Rappresentava tutti i sogni finiti quando, incolpevole, era morta.
Era la mamma che tutti sognano.
Non poteva perciò essere la mamma che l'aveva lasciata con quel padre cattivo.
Non poteva essere, eppure lo era. Una contraddizione che scarnifica la pelle, che penetra la superficie e s'infila dove vuole lei, dove fa più male.
In prossimità del casello della città esordisce iniziando la frase con “pensa che”.
L'amico deve forzarsi di “pensare che”: lei è piccola, poco più di sei anni.
Devono uscire e il padre non trova le chiavi.
Non le trova e s'arrabbia.
Gli monta una rabbia cieca, senza ragioni che non siano la rabbia stessa, che deve uscire come schiuma, e schiuma la bocca e diventa notte sullo sguardo.
Cane rabbioso, lui, vede la vittima, lei.
Lei si è stretta sulle sue spalle, che alza per incassarvi la testa e nasconderla più che può.
Alla sua destra, dietro la schiena, il muro adiacente alla porta d'ingresso del sozzo appartamento.
Lui prende un ombrello col manico di legno e glielo punta alla tempia, dalla parte della testa opposta al muro.
Lei è schiacciata con l'orecchio piegato verso dentro, dalla parte del muro, e con la punta dell'ombrello dall'altra.
Le intima feroce di tirar fuori le chiavi, di dirgli dove cazzo le abbia messe: DI DIRGLIELO PORCA PUTTANA!!
Lei è terrorizzata, muta, in black out.
Anche i pensieri lo sono.
Tranne uno.
L'unico sopravvissuto nella bolla vuota e nera che ha in testa.
Dice “controlla in tasca papà”.
Lui dice “no cazzo non son mica scemo dio can”, ma in quel preciso istante, la mano, autonomamente, lo fa; fruga in tasca e ne tira fuori le chiavi che tintinnano senz'allegria.
C'è un istante di pura immobilità in cui tutto è fermo, inerte.
Il tempo, i pensieri, il male: tutto sospeso.
Un attimo dopo lui crolla.
Scivola sulle proprie ginocchia e da quella posizione le chiede scusa, strofinandogli la faccia sui vestiti, piangendo un pianto sporco, le cui lacrime odorano di merda e di piscio e di bile e di alcool e di pillole.
Mentre raccontava, lei era regredita fino a ridiventare quella bambina.
Mentre parlava, guardando distante l'orizzonte vicinissimo a causa di una nebbia crescente, aveva il tono di chi non sa collocare quel terrore fuori di sé.
L'amico taceva.
Ascoltava.
Accoglieva disgustato la trasmissione del suo disgusto.
Le chiedeva se in lui ci fosse mai stata una traccia di pentimento.
“Sì, forse c'era”, risponde lei. Ma lo dice con un tono che ne sancisce l'inutilità, il ritardo, l’irrilevanza.
“Era cattivo!
Ho ancora la cicatrice sulla fronte di quando mi ha sbattuto con una spinta distratta contro l'angolo del tavolo da cucina. Lo faceva, e se ne pentiva. E un altro segno che per fortuna non sono costretta a guardare, proprio qui sulla schiena, vicino a dove finisce la colonna vertebrale.
E poi dei segni dentro di me. Come quando mi costringeva a guardare mentre penetrava mia madre. Lei stava già morendo fisicamente, la malattia se la stava mangiando. Mi guardava, lui, perché lei girava la testa dall'altra parte; aveva uno sguardo quasi tenero, come volesse farmi capire che l'amava ancora, anche se lei faceva schifo. Come a dire che potevo fidarmi, che lui amava per sempre”.
L'amico, seppur muto, concordava: era cattivo.
Di una cattiveria che non aveva mai conosciuto. Sapeva, perché lo aveva letto in quell'articolo, che la cattiveria esiste in ognuno di noi. È uno stato naturale, che può anche salvar la vita, cancellato però dalla morale che la nega e la relega all'altro: mai a sé.
Ma non l'aveva mai sfiorato a quelle profondità.
La nebbia si faceva sempre più presente, inghiottendoli.
La città era sparita, nascosta dentro quel vapore freddo.
Ad un certo punto non sapevano più dove fossero.
La nebbia aveva cancellato i confini e, senza preavviso, insieme, avevano iniziato a ridere del fatto che si erano persi.
Perdersi aveva tanti significati, quella mattina.
Ridevano, avevano chiesto informazioni, erano tornati in carreggiata.
Dopo essersi persi, in fin dei conti, non si può ritrovarsi.
sabato 2 marzo 2013
ritorno in patria e Anna Karenina
Domenica mattina, alba.
Sono seduto sul divano nuovo, col nuovo air ( comprato usato in rete), sveglio da un pò.
Seconda settimana in casa nuova, dove continua il caos che pare interminabile, irrisolvibile: scatoloni, mobili da montare, robe da trovare, nuove traiettorie da assimilare. Reduce da un febbraio a dir poco balengo: trasloco- che significa otto furgoni strapieni da caricare-scaricare-, tre serate di letture- frari, pedro, murata-, e tutto il resto, che vuol dire mollare il posto dove si è stati quasi sette anni, per tornare “in patria”, che sarebbe la periferia, detta amabilmente “terraferma” veneziana.
Un giorno, poco prima di iniziare questo tormentato ritorno, pensavo a cosa mi sarebbe mancato della provincia del nord est; non ho avuto dubbi: mi sarebbe mancata quella parte di campagna, l’odore forte che ha, la vista libera dei campi, le facce di chi vi abita, qualche cara persona che ho incontrato in questi anni. E poi basta: non ho saputo adattarmi alla cittadina per bene, al pendolarismo, al fatto che mi sentivo a casa quando scendevo dal treno la mattina, ed ero quel che sono, qui, e quasi mai, lì.
Adesso quando porto in giro cagnona, quando esco la mattina, l’odore e il rumore si fanno sentire, segnano una differenza marcata; e nonostante ciò, li riconosco, li ritrovo e li saluto, benché non mi piacciano: li considero un pegno, un prezzo accettabile.
Ci metterò ancora un poco a ritrovare l’equilibrio, e anzi spero che non succeda: oscillare, sentire la forza prorompente della vita, la vitalità del dubbio, mi stimolano.
Ho scritto tanto in questi sette anni precedenti; conto di fare di più e meglio qui, appena ripristinata la camera degli ospiti-studio.
Oggi mobili, ordine, spostamenti e poi cinema: vado a vedermi Anna Karenina. Sarà una delusione, naturalmente: ma ci sono eternità che resistono ai tentativi di riduzione spettacolare.
Ci sono donne e scrittori che bisogna incontrare nella vita, per capire che prima di fare la loro conoscenza, non si era capito niente.
Sono seduto sul divano nuovo, col nuovo air ( comprato usato in rete), sveglio da un pò.
Seconda settimana in casa nuova, dove continua il caos che pare interminabile, irrisolvibile: scatoloni, mobili da montare, robe da trovare, nuove traiettorie da assimilare. Reduce da un febbraio a dir poco balengo: trasloco- che significa otto furgoni strapieni da caricare-scaricare-, tre serate di letture- frari, pedro, murata-, e tutto il resto, che vuol dire mollare il posto dove si è stati quasi sette anni, per tornare “in patria”, che sarebbe la periferia, detta amabilmente “terraferma” veneziana.
Un giorno, poco prima di iniziare questo tormentato ritorno, pensavo a cosa mi sarebbe mancato della provincia del nord est; non ho avuto dubbi: mi sarebbe mancata quella parte di campagna, l’odore forte che ha, la vista libera dei campi, le facce di chi vi abita, qualche cara persona che ho incontrato in questi anni. E poi basta: non ho saputo adattarmi alla cittadina per bene, al pendolarismo, al fatto che mi sentivo a casa quando scendevo dal treno la mattina, ed ero quel che sono, qui, e quasi mai, lì.
Adesso quando porto in giro cagnona, quando esco la mattina, l’odore e il rumore si fanno sentire, segnano una differenza marcata; e nonostante ciò, li riconosco, li ritrovo e li saluto, benché non mi piacciano: li considero un pegno, un prezzo accettabile.
Ci metterò ancora un poco a ritrovare l’equilibrio, e anzi spero che non succeda: oscillare, sentire la forza prorompente della vita, la vitalità del dubbio, mi stimolano.
Ho scritto tanto in questi sette anni precedenti; conto di fare di più e meglio qui, appena ripristinata la camera degli ospiti-studio.
Oggi mobili, ordine, spostamenti e poi cinema: vado a vedermi Anna Karenina. Sarà una delusione, naturalmente: ma ci sono eternità che resistono ai tentativi di riduzione spettacolare.
Ci sono donne e scrittori che bisogna incontrare nella vita, per capire che prima di fare la loro conoscenza, non si era capito niente.
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