lunedì 20 agosto 2012

Un ricordo di più di due righe per B

Cosa succede quando muore una persona cui si vuole bene?
Ci sono in realtà diverse gradazioni di bene, di coinvolgimento, di affezione. Posso ovviamente parlare per quello che riguarda me, le mie sensazioni, le mie percezioni. Lo faccio in presa diretta, nel treno dei pendolari, circondato da persone che parlano del caldo, delle cazzatine estive, della leggera pesantezza che asfissia le loro vite.
Ieri sera è mancata B, una signora ormai in pensione, con cui avevo lavorato alcuni anni. Per una serie di coincidenze che la vita ci butta là, intrecciando gli eventi, B era anche conoscente di famiglia- ma l'ho scoperto solo dopo averla conosciuta-. Coincidenza vuole che il suo funerale venga celebrato il giorno del mio compleanno, e anche quest'altra combinazione, mi pare c'entri poco con la casualità.
B è una delle tante persone che si incontrano nella vita, con cui si fa un pezzo insieme, con cui poi ci si sente poco, ma con le quali il ricordo affettivo rimane.
E il mio lavoro, com'era il suo, è fortemente connesso alla vita, ai destini, alle biografie delle molte persone con cui interagisco. Questo ti costringe ad assumere nei confronti del destino, della sofferenza, della gioia, dei sentimenti in generale, una sorta di vicinanza distaccata; non fosse così, dopo pochi anni, si scoppierebbe. Questo vale per tutti i lavori in ambito "sociale": si incontrano persone, spesso sfortunate, traumatizzate, eppure vive, che procedono comunque, e si fa un pezzo insieme. Volendo, per quanto riguarda la mia passione per le storie, che scrivo e leggo, avrei un serbatoio inesauribile, senza dover sforzarmi d'inventare niente.
Ricordo una volta che, rileggendo in un giornale la cronaca del processo di una ragazza che faceva parte dei progetti che seguivo, dal di fuori, la sua storia, che pur conoscevo nei minimi particolari, mi faceva una notevole impressione. La storia di un destino segnato, maciullato, risarcito in parte da una sentenza penale.

Torno a B, a questo dolore leggero che mi accompagna. Non è struggente: è mesto, misurato, pudico. B era una persona a cui non si poteva non voler bene, ma con discrezione.
B non avrebbe voluto esagerare nello scomporre alcunché; avrebbe provato imbarazzo a scomodare per sé troppe parole.
Due righe due sul blog, sono sufficienti.
B era una persona che quando ha saputo che la malattia procedeva spedita, che fisicamente la provava, diceva che bastava così: le sue soddisfazioni le aveva avute: vedova, un figlio e dei nipoti che crescono sani, una casa da lasciar loro in eredità, una discreta cifra di buoni ricordi, pochi amici e nessun nemico.

Ecco le due righe due sul mio blog.
Magari sarà qualche riga in più, ma mi conosci: il limite non mi ha mai contenuto.
Cristiano  

venerdì 17 agosto 2012

Altro brano estratto da "homo sapiens nord est"

Torniamo, fumiamo, chiacchieriamo, ridiamo.
Roberto è serio, Antonella invece sta al gioco.
Siamo tutti strafatti.
Roberto tace.
Dopo un paio d'ore di birre e sigarettine, ci salutiamo.
Io e la mia dea di burro decidiamo per un'altra doccia.
Ci laviamo i denti e andiamo a letto nudi.
Sentiamo bussare.
Chi è, chiedo.
Antonella dice che è lei.
Le dico di entrare. È in mutande e canottiera.
Dice che Roberto è uscito. Che hanno avuto una discussione. Che ha preso un rasoio e si è tagliato il braccio, che farneticava urlando che non ce la fa più.
Le dico di non preoccuparsi, ci penso io.
Le dico di venire sotto le coperte che Paola le avrebbe fatto compagnia.
Mi vesto ed esco.
Prendo la macchina e vado in centro.
È notte fonda e Amsterdam è viva e morta insieme.
Parcheggio.
Al quartiere rosso ci sono le troie del turno della notte in vetrina.
Davanti ai locali i soliti neri e i soliti buttafuori.
Guardo dappertutto ma non lo trovo.
Entro in un bar con le puttane. Ordino una birra. Vado in bagno e tiro la polverina beige dello speed-ball.
Assorbo la botta come un esperto. Vomito un po'.
Torno al banco, pago la birra, lascio la mancia al barista e alla troia che mi si era avvicinata.
La fattura sale lenta.
L'ansia svanisce.
Giro ancora un po' ma niente.
Torno alla macchina.
Faccio mente locale ma non ricordo dove stia la barca di Mario.
Faccio un altro tiro.
Apro lo sportello e vomito ancora un po'.
Mi sale la fattura e, mi pare, un po' di memoria.
Giro per almeno venti minuti e poi vedo il parcheggio del pomeriggio.
Raggiungo il barcone, busso.
Mi risponde uno in olandese, poi in inglese.
Io dico: Mario, cerco Mario, i'm looking for Mario.
Arrivo, risponde una voce tranquilla.
Mario apre la porta, mi guarda interrogativo ma senza essere sorpreso.
Non apro bocca.
Lui dice, dai andiamo!
Da quanto è sparito?
Guardo l'ora, sarà un'ora e mezzo due.
Ok, dice lui, andiamo.
Mario è un veggente, è il mago di Amsterdam, penso.
Andiamo verso il rave, dice.
Gli passo la roba. Dopo, dice. Al porto ti presento due amici italiani che hanno tutto l'occorrente.
Gli chiedo se si trova ancora roba in piena notte.
Certo dice. Svolta a destra aggiunge.
Cinque minuti e arrivo.
Torna, dopo quattro.
Un quarto d'ora e siamo al porto, dice.
Durante il tragitto solo la sua voce a darmi indicazioni.
Arriviamo. L'area è vastissima e sembra abbandonata. Arriviamo davanti a un cancello. Scende, lo apre.
Raggiungiamo una roulotte.
Scendiamo. Bussa. Sono io, dice.
Si apre la porta. Dentro due punk che sembrano Sid e Nancy.

giovedì 16 agosto 2012

Un estratto da "supermarket nord est"

Un'altra gerarchia: quella dei capi.
Il primo racconto del libro si intitola "supermarket nord est". Descrive la giornata di un lavoratore di supermercato. Una giornata forse decisiva, raccontata tra cronaca di lavoro e digressioni varie: eccone un estratto.
C


Il lunedì mattina è dedicato alla preparazione del banco, alla pulizia, alla messa a punto del magazzino che, alle 14.00 precise ( traffico permettendo),  riceverà  nuova merce.
Con i carrellini porto i prodotti dalla cella al reparto.
Per dare sempre il giro alla merce, ad ogni nuovo arrivo, si timbrano le cassette con la data del giorno cosicché non si possa confondere il nuovo con il giacente.
Con la frutta è più semplice: basta esporla stando attenti a mettere i freschi sotto a quelli avanzati ( anche se in realtà non  si arriva quasi mai ad avere merce vecchia).
Si deve comunque controllare che tutto abbia un aspetto più che invitante; anche a costo di buttare via quello che non lo è più, quello che risulta imperfetto, che potrebbe incrinare la credibilità del prodotto.
Con la verdura, invece, il procedimento è molto più laborioso. Bisogna passare in rassegna ogni singolo pezzo e fare i dovuti ritocchi.
Così con l'insalata, coi finocchi, cavolfiori, sedano e via discorrendo.
E le ore passano inesorabili, rapide, impietose.

Qualche volta capita che, nella frenesia del tagliare, tagliuzzare, correggere, scartare, riesco a ritagliarmi  momenti di riflessione, nel senso che penso non solo a quello che sto facendo in quell'istante, ma più in generale alla mia vita.
Alla mente arrivano immagini poco chiare, rarefatte, rallentate che attribuisco alla mia indole lenta, la quale invia messaggi criptati che pretendono ascolto, rispetto.
La lentezza mi ha sempre contraddistinto. Non riesco a essere lesto, veloce e la frenesia mi violenta e mi allontana dalla mia intima natura; e ne soffro, pagando in termini di instabilità umorale, di sonno inquieto, di sogni tormentati.
Somatizzo con gastriti, coliti, blocchi intestinali.
Mi lascio ammalare senza riuscire a contrastare questa coazione, abbandonandomi a stati di abnegazione e volontà altrui, che rispondono ad un dovere inculcato a forza, senza averlo mai accettato, ma soltanto passivamente subito.


Lui aveva capito e cominciava a parlarmi del collega-capo-reparto, come di un buon soldato che però, al massimo, poteva diventare sergente: non aveva i mezzi strutturali per poter aspirare a più di quello.
Diceva: “ Capisco che fra noi non c'è molta simpatia, ma non è indispensabile al lavoro. Non lo è se si discute in termini di concretezza. Come si chiama quell'autore tedesco; come si pronuncia, Ghete? Quello che ha scritto “affinità elettive”! “.
“ Si pronuncia Ghoete”, lo avevo corretto( non lo avevamo mai letto, ma studiato appena nelle antologie di scuola: eppure, pur senza sapere, ne parlavamo come avessimo confidenza con la sua opera).
“ Sì, ecco, proprio quello. Lo so che non abbiamo molte affinità; tuttavia so riconoscere le persone che hanno potenziale inespresso, e so separare emozioni e raziocinio. Ma ricorda: se vuoi far carriera devi: “credere, obbedire, combattere”. Pensaci: non devi rispondermi ora, lo farai quando avrai deciso. Ciao Dorigo ( mi chiamava sempre col cognome e mi dava del tu, come in caserma dove i superiori trattano i subalterni allo stesso modo)”.
“ Arrivederci”, avevo risposto, mi pare.
Non so che espressione avevo assunto quella volta, ma mi ero sentito morire( più che morire, sarebbe più preciso dire sprofondare, soffocare).
Tutto era caduto, crollato, si era rotto.
Tutte le mie sciocche fantasie di poter fare un lavoro che non m'impegnasse oltre l'orario, di cui non m'importasse nulla, svanirono.
Non era solo per il motto fascista, pronunciato con sinistra ironia( si difendeva con l'ironia per poter attaccare chiunque con un sorriso); era la sensazione di essere in trappola, la razionalizzazione che non si può lavorare solo per lo stipendio; troppo comodo, leggero; un tipo di leggerezza non autorizzata. E la consapevolezza che dividerci, esaltarci con vaghe promesse, per ottenere il nostro controllo: era il solito vecchio trucco del dividi e impera.
Ma c'era anche, strisciante, sordo, il compiacimento derivante dall'essere apprezzati, riconosciuti, gratificati. La discrepanza, la vergogna, il distacco tra questi sentimenti contrastanti apriva voragini in cui precipitavo in caduta libera, come uno che si rende conto di essere uno stupido omino vanitoso, senza essersene mai accorto prima.


giovedì 9 agosto 2012

psicodramma Schwartzer e commozioni pendolari


Uno psicodramma italiano con protagonista altoatesino.
Vedere la conferenza stampa, lo tracciamento di vesti, la campagna mediatica nei confronti di Schwarzer, mi induce a pensare a quanto provinciali siamo.
Nel paese in cui si combina di tutto e di più, con la quasi certezza dell’impunità, o dell’insabbiatura, o della scadenza dei termini, il pianto di questo ragazzetto con le mani da pianista, con l’erre dura degli altoatesini, le lacrime, la sacra arma dei carabinieri, ecc., risultano talmente populisti da sfiorare la pornografia.
Tempo fa, all’epoca della fuoriuscita di B, io, convinto che questi abbia rovinato almeno un paio di generazioni con le sue lucette, i suoi sorrisoni, i pizzicotti sul culo, gli ammiccamenti; ebbene, io provavo compassione per quel vecchio bulletto strapotente e straricco, eppure sconfitto. Uno psicanalista mi diceva che il mio era il classico atteggiamento cattolico, cui contrapponeva quello nordico di tipo calvinista, più propenso ad attribuire colpe e meriti senza infarciture moralistiche.
Tentavo di controbattere che la mia era solo compassione, e che quasi sempre tendo alla comprensione. E che nei confronti di qualunque persona, sono convinto che prima o poi, dovrà fare i conti con la sua coscienza; per cui non provo rabbia o invidia, ma quasi pena.
Temo però di non averlo convinto, lo psicanalista, e che continui a considerare la mia pietas, allo stesso modo.
Ma torno alla questione Schwarzer, al bisogno estivo di seguire qualche scandalo, inventare casi, mostrare stempiature, corpi con cellulite, capezzoli esibiti, di certa stampa.
Penso alla diffusione di riviste con foto, intrecci sentimentali, piccoli scandali da sala d’attesa. Verifico sgomento che se ne vendono una quantità impressionante, che c’è chi sa tutto di questa o quella coppietta; che c’è chi vive per interposta persona, come se fosse troppo faticoso affrontare la realtà, e quindi passa le giornate in apnea, come tra parentesi, e guarda ciò che succede attraverso questa visuale.

Oggi in treno avevo di fronte a me una signora sui cinquanta, molto a modo, con l’aria della brava insegnante.
Aveva le cuffiette e ascoltava qualcosa dal telefonino. Ad un certo punto si è sporta un po’ attraversando la mia visuale, per buttar via una carta nel portaoggetti del treno dei pendolari. Anch’io avevo le cuffiette, che avevo messo per smettere di leggere un romanzo che parlava di un padre e di sua figlia adolescente, in un momento in cui la commozione mi faceva uscire le lacrime, e non sta bene, in treno, farsi vedere lacrimante.
Mi passa davanti, dicevo, ed entrambi sorridiamo sillabando qualcosa e accennando un sorriso.
Ad un certo punto la signora si asciuga gli occhi, con molta discrezione, nascondendo dignitosamente delle lacrime che evidentemente non riusciva a trattenere.
Leggeva una rivista: con una mano la teneva, e con l’altra s’asciugava gli occhi.
Arrivati in stazione, con le cuffiette alle orecchie- io stavo ascoltando “S-Low”, uno degli album più belli dei Marlene Kuntz, forse la miglior band italiana-, la signora saluta con un cenno di sorriso e s’avvia. Lascia sul sedile la rivista, aperta sulla pagina che stava leggendo. Il titolo faceva accenno ad una madre che aveva perso il figlio in un incidente stradale e che, ogni giorno, andando al lavoro, ascoltava con le cuffiette la voce dello stesso, che le aveva registrato poco prima dell’incidente, per il compleanno della madre: una poesia che  Pasolini aveva dedicato alla madre, che il ragazzo sapeva, piacere molto alla madre. Il giornale diceva che ogni volta si struggeva di dolore e di commozione, che non poteva non piangere, ma che era il suo modo di tenere vivo il ricordo.

Ho preso la rivista, ho cercato tra la folla dei pendolari la signora, mentre Godano cantava “nuotando nell’aria”.
La vedo da dietro, le tocco una spalla, la signora si volta e mi guarda sorpresa.
Non era lei.

martedì 7 agosto 2012

Lavoro da morire

In questi giorni si fa un gran discutere dell'Ilva di Taranto. Come sempre questo paese dimostra che l'esperienza, l'aver già visto e vissuto dei drammi collettivi fondamentali, che hanno ripercussioni dirette sul concetto di civiltà e di regole.
Propongo la parte finale di un racconto, tratto dal mio ultimo libro "homo sapiens nord est". L'ho scritto pensando alla vicenda di Giuseppe Bortolozzo e del famoso processo ai vertici del  petrolchimico di Marghera, concluso con l'assoluzione degli stessi.
Immagino Bortolozzo che torna a Mestre, molti anni dopo la sua morte, e perciò in "forma di fantasma", il giorno della sentenza.


"...E tu, quando esistevi,  quando eri giovane, forte, con una moglie bella e innamorata e due bambini riccioluti, ti sentivi parte di un complesso sistema di regole, di diritti e doveri da pretendere e di cui rispondere.  Venivi ogni giorno a lavorare, a faticare, forse perché ti sembrava che in fondo a ognuno tocca un destino che è giusto assecondare.
E ti sentivi così anche quando hai iniziato a stare male, a sentire che la forza era solo un ricordo e la giovinezza un rimpianto.
Ricordi  il purè, la minestrina, il riso in bianco, le mele cotte dell’ospedale.
Ti ricordi che quella piattezza, quel menù dai colori bianco e giallino pastello, quei sapori tendenti alla neutralità, ti provocavano nostalgie di un benessere perduto.
Dicevi e pensavi che doveva andare così, che il destino è scritto ma nessuno può leggerlo né modificarlo.

Arrivi in Via Righi, la via delle fabbriche.
Ricordi.
Ricordi di quando la tivù era ingenuità in bianco e nero e le industrie di Porto Marghera ospitavano una popolazione immensa, inconsapevole, sacrificabile e santificata in nome  del progresso.
I tuoi occhi, allora, vedevano un mondo squilibrato, violento e cattivo; e però ti si spiegava che era la tua età a fartelo vedere così, che la tua energia faceva circolare il sangue in modo vorticoso creando ideali e nemici a misura di giovane proletario.
Poi anche tu sei diventato parte di quel sistema produttivo.
Bastava solo abituarsi.
Gli operai come te erano controfigure viventi di un ideale, oggetti-soggetti buoni a propagandare una fede parallela a quella di Dio.
 “Venite qui, vi accogliamo  noi, con noi sarete al sicuro” sembravano dire quelle bocche, e se anche doveste morire presto, lo fareste certi che il sacrificio abbia comunque una sua particolare bellezza, un suo originale senso, una sua santità felice.
Fedeli e infedeli; padroni e proletari: parole dal sapore antico; ma bastava una parte da cui stare e un’altra contro cui combattere per non sentirsi soli.
Ma la verità e la realtà non subiscono il tempo, non riconoscono parametri funzionali e definizioni antiche o moderne.
La verità e la realtà sono sempre là, a disposizione; aspettano che ne sentiamo il sapore, che ne percepiamo la presenza, che ne intuiamo la sostanza.
La verità sa di buono, di dolce. La realtà sa di merda, di cibo deteriorato.

Oggi senti che questo ponte che unisce la città una e trina, da cui guardavi con innocenza attraverso i finestrini degli autobus verdi, dove vivevi l’illusione meravigliosa di quelle luci che alla sera facevano sembrare le fabbriche una città immaginaria abitata da persone e storie, invece che da morte velenosa; oggi quel ponte sembra solo quel che è: un nastro d’asfalto sospeso sull’acqua.
Oggi sai che il tempo non esiste.
Che le coscienze oggi le lavorano in forma moderna, interattiva, subliminale.
E oggi, dopo quella sentenza che un giudice con un nome da animalista, che ha sancito la non colpa dei colpevoli, che ha legittimato le ragioni dei padroni, che ha cancellato vite e morti, sai.
Sai di essere una specie di fantasma tornato per un giorno, per incontrare la miseria degli uomini, per veder svelata l’illusione di giustizia, per capire che la lotta serve al potere per dargli una parvenza democratica.
Sai che non ci sarà mai memoria, e tu e loro, seppelliti dal profitto e celebrati dall’illusoria speranza di riscatto, sarete solo un inutile errore che si perpetua.
E un ricordo dimenticato.

lunedì 6 agosto 2012

crisi di mezza estate, vacanze e parole


Davo un'occhiata veloce, senza approfondire troppo ai post di Nori "il mondo è pieno di gente che sta a casa". Stessa cosa con quelli di Mozzi "ricordi d'infanzia". E aggiungo quello di Lagioia Su minima & moralia. Per non parlare della martellante campagna di giornali e radio e televisioni sulla crisi che ci sta stritolando. Se poi aggiungiamo che qui a nord est, patria delle partite Iva, delle micro aziende, ecc., questa sta facendo sfracelli, mi corre l'obbligo di parlare della mia estate senza vacanza.

Va detto che soffro molto la mancanza di vacanza. Sin da bambino, fino ai diciotto, sono sempre andato in montagna almeno due mesi all'anno. D'estate, finita la scuola, si caricava la macchina- i miei ricordi ne fissano due in particolare: una fiat 124, una citroen gs-, e si partiva, destinazione altopiano di Piné, trentino. Gli ultimi anni, a dire il vero, ci si era spostati in Cadore, provincia di Belluno. Non ricordo bene i particolari, ma presumo sia stato a causa della morte di mio nonno materno, cui mia madre era molto affezionata; a tal punto, aggiungo io, da non riuscire a tornare nella stessa casa dove, per molti anni, avevamo passato un sesto della nostra vita, per molte estati.

Scorrendo i titoli in rete, si evince che sei famiglie su dieci non vanno in vacanza. Ebbene, io appartengo statisticamente a questa maggioranza.
Per diverse ragioni che provo a raccontare in breve.
La prima, così banale, è la crisi. Questa crisi così stronza, crudele, che sta lentamente rosicchiando la possibilità di vivere, un po' alla volta, in modo che ci si possa abituare senza traumi improvvisi. Smangia come una tarma il "potere d'acquisto", aumentando tutto, fuorché lo stipendio, nel mio caso di dipendente pubblico.
Qui avrei fatto esempi pratici prendendo in esame il prezzo demenziale della benzina, ma ho cancellato.
La crisi è dovuta a molti fattori, ed è in gran parte inaccessibile al mio modesto sapere in materia. Non azzardo teorie o discorsi di cui non ho competenza, ma sono sicuro di non poter essere smentito se affermo che la crisi è dovuta alla spavalderia della finanza; la finanza non esiste in termini concreti, ma solo fantasmatici: è un'insulsa accozzaglia di teorie ad uso e consumo degli speculatori, che ha evidentemente assunto dimensioni e importanza, oltre ogni immaginazione e controllo.
Se qualcuno può smentire senza esibire teorie troppo complicate, gli sarei grato: sarei ben felice di esserlo, di farmi convincere che la finanza è una cosa buona e giusta, o quantomeno necessaria, o almeno accettabile. Vorrei mi si spiegasse perché dovrei accettare lidea che una scienza economica subisce sbalzi umorali, perchè se si sa che ci sono degli speculatori, nomi e cognomi, non li si può fermare. Vorrei capire perché, se le cose stanno così, dobbiamo pagare noi. Saranno forse domande ingenue, ma vorrei trovare risposte adeguate.

Di fatto, senza perdercisi troppo tempo, correndo il concreto rischio di cadere, causa manifesta incompetenza, chiudo qui questo capitoletto, riassumibile in due concetti: tutto aumenta; tutto tranne i salari; se tutto aumenta, tranne i salari, questi non potranno più star dietro agli aumenti.
Molte persone, a causa di questo sillogismo o equazione elementare che dir si voglia, consumano meno. Il minor consumo si ripercuote su chi produce e vende beni di consumo, dai primari agli effimeri, creando di fatto una crisi generalizzata.
Questo produrrà insoddisfazione, frustrazione, atteggiamenti depressivi, favorirà scompensi umorali e psicologici, determinerà infelicità concrete e consumistiche. Non si sa cosa succederà, ma si teme  che sia niente di buono e positivo.

La mia estate senza vacanze, dicevo. Devo però dirla tutta: mi sono venute in soccorso diverse possibilità, che ho rifiutato.
Mi erano state offerte ospitalità in compagnia, e anche di poter usare case di persone che conosco. Ci sono delle ragioni intime, che preferisco non raccontare qui, ora, e altre motivazioni più letterarie, di cui invece vorrei dar brevemente conto.
Mi rifaccio a due autori che ritengo molto bravi: Fante e Busi.
Per entrambi, la vita è anche un'occasione per scriverne. Mi riferisco ad esempio alla scena in cui il protagonista Arturo sta per essere travolto dalle onde dell'oceano, e mentre sta per annegare, pensa a come descrivere la scena. Oppure quando Busi racconta dell'immersione dello scrittore negli episodi più pesanti e incresciosi, di come se ne possa lasciar travolgere, ma mai del tutto, di come questi tenga sempre una parte di sé che ne è testimone e ne scrive. E di come, poi, una volta che ne esce, ne scrive, e ritorna in qualche misura alla dimensione virginale; perché uno scrittore può affrontare qualsiasi cosa, ma finché ne scrive, è sempre alla giusta distanza.
E io voglio attraversare l'esperienza, anche se mi fa male, anche se mi fa pensare a me, come a uno che non lo sapeva, ma conservava un rimasuglio piccolo borghese di concezione di vacanza, come diritto naturale.

E allora mi arrangio, frequento le spiagge libere, le sagre, i concerti gratuiti, i cinema all'aperto di periferia con prezzi popolari e mi immergo in quella che per molto tempo, stupido e ingenuo ignaro, guardavo come fenomeno di cui scrivere, con cui lavoravo- lavoro in ambito sociale-, di cui non capivo quanto mi appartenesse.
La classe operaia un tempo andava in paradiso: ora pare che, in compagnia di quella che un tempo era la classe media impiegatizia, i separati, i pensionati, i precari, vada sempre più spesso alle  mense dei poveri.
E ne scrivo, mi ispiro.

Stanotte ho sognato che eravamo al mare con un amico che mi raccontava un episodio.
Era andato in banca per discutere del suo scoperto. Il funzionario di banca, un trentenne coi capelli lunghi ma non troppo, trentenne in salute, camicia col collo rigidissimo, cravatta in tinta, scarpe nere scintillanti, vestito gessato blu, lo redarguiva con educata cattiveria sulla sua scarsità di risparmiatore, uomo, padre di famiglia. Gli parlava del suo rating personale- ogni banca ne ha uno per ogni suo cliente, che sale in affidabilità, tanto quanto lo stesso paga i suoi debiti: se uno non ha mai avuto debiti rimane nel limbo degli innominati-, e gli diceva che era alto, che lui era un bravo servo della gleba perché tutto sommato comprava a rate le pagava, e appena finito di pagarle, comprava subito qualcosaltro.
La situazione era davvero imbarazzante per entrambi. Avevano finito a fatica, e lui era uscito con un forte senso di nausea, di impotenza, di rabbia.
Mi raccontava il tutto con fatica, ma col bisogno di sfogarsi, di dire che non ce la faceva più.
Gli proponevo allora un bagno ristoratore, una bella nuotata al largo, lontani da sto brusio, da sto caldo, da sti pensieri soffocanti.
Ad un certo punto, mentre stavamo caaminando per acclimatarci, vediamo di spale un uomo molto alto, magrissimo, che giocava con un bambino. Faceva davvero impressione, sembrava essere senza massa muscolare. Ad un certo punto si volta e il mio amico traballa. Lo saluta e passa oltre. Con bracciate vigorose raggiunge il largo. Quando a fatica lo raggiungo, vedo che sta piangendo: era limpiegato della banca, mi dice nascondendo gli occhi rossi.
Il sogno si concludeva poco dopo, senza alcun dialogo aggiuntivo: quella era lultima frase.

Al risveglio ho pensato che la crisi che temo di più, è quella dellispirazione creativa.




sabato 4 agosto 2012

Impressioni reading Venice jazz festival e considerazioni varie

Impressioni sui tre giorni di reading "incontemporanea", Venice jazz festival

Avevo già scritto una pagina ma poi ho cancellato tutto.
Mi chiedevo, mentre scrivevo, cosa mi piace leggere, e cosa scrivere, quale sia il mio tono; mi sono risposto che quello che mi piace, è la scrittura viva, autentica, e che appena annuso il mestiere, la pagina ripiena di bella forma, mollo tutto.
Anche per quanto concerne la lettura, nel senso di reading, vale lo stesso.
Con questi presupposti mi sono avvicinato ai tre reading curati da Stefano Spagnolo, all'interno della rassegna Venice jazz festival, alla fondazione Querini Stampalia.
Digressione, ma non troppo. Giovedì della settimana scorsa ho fatto io stesso un reading al Teatro Marinoni bene comune del Lido-vedi post sul blog-; lo dico perché la differenza,in termini formali, ambientali, è abissale: lì era tutto fatiscente, cadente, con un fascino teatrale intrinseco; la sala della Querini invece, poltrone in pelle, aria condizionata, service e impianti da grandi occasioni. Lo sottolineo per il contrasto, a me molto evidente, e per come, oltre al posto in quanto tale, che conta eccome, questo non possa sopperire alla qualità di quello che si propone: le parole, e l'accompagnamento.
E lo dico subito: la qualità non è mancata e, come ho ripetuto più volte a Stefano, anche il coraggio di osare, con autori e performance molto particolari e diverse tra loro, invece di puntare su nomi più sicuri, rassicuranti, conosciuti.

Il primo giorno, martedì, è quello che mi mette più in difficoltà. Confesso di adorare Emidio Clementi, per cui temo di essere poco obiettivo. Ha letto quattro racconti, di cui uno inedito, accompagnato alla chitarra da Stefano Pilia, dei Massimo Volume- !-, con la maestria e la naturalezza di chi, da anni, sperimenta un modo nuovo di fare musica e parole, cui molti si sono ispirati. Racconta quello che deve raccontare, storie di largo respiro che scaturiscono da piccoli particolari, e crescono, toccano, incidono e tornano a rimescolarsi alla vita. Ma non posso tralasciare un particolare, forse poco letterario: la sua gentilezza e disponibilità, che non tradiscono l'idea che sarebbe bello averlo come amico. So che questa è una proiezione personale, forse un auspicio inconscio, ma mi aiuta a dare spessore, carne, a quello che altrimenti rimarrebbe una sorta di piccolo mito, a uso e consumo dei misteri proiettivi che ognuno di noi ha nei confronti di alcune persone.Bravissimo anche Pilia, ma insomma: questi giocavano in casa, e il minimo che si potesse pretendere era l'eccellenza, nel loro caso, sorella gemella della confidenza e della complicità.

Mercoledì, terreno molle, insidioso.
Francesco Targhetta e i Father Murphy, entrambi veneti, ci offrono una versione poco veneta, più metropolitana, nordica:  molto rock, di tipo sperimentale, intricato, a tratti violento. Il testo è poetico e concreto, tragico, colloso. La musica a tratti è predominante, visionaria, e il gruppo è fisico, estetico, ingombrante e delirante.
Ne esce una prova alienante, intensa, coraggiosa.

Giovedì, poesia tutta al femminile.
Sul palco, colore, oggetti di ogni genere: palloncini colorati, chitarra, carillon, campanelli, computer, armonica, scacciapensieri, ecc.
Francesca Genti, accompagnata da un'altra poetessa silente, Manuela Dago, recita e legge le sue poesie; per ciascuna di queste, un oggetto suona e rumoreggia, per accompagnare la lettura. Altra performance poco convenzionale, volutamente "strana", originale, senza però cadere nella trappola dell'autocompiacimento. Che dire delle poesie? Evocative, intime, provocatorie, forti senza forzare il tono o la lingua. La lettura è dolce, anche quando le parole lacerano.

L'altro giorno parlavo con una conoscente, la quale, sapendo che nel pomeriggio sarei andato a sentire una poetessa, mi ha detto, più o meno: che palle! Ma come si fa ad andare a chiudersi in biblioteca ad ascoltare una poetessa in pieno agosto, a Venezia?
Le ho risposto come quando mi chiedono dove trovo il tempo di scrivere e preparare le letture che seguono la scrittura. Aggiungendo magari che sono stanche morte, che ce la fanno a malapena a reggere i ritmi di questa assurda vita moderna.
Rispondo dicendo la verità: " come potrei semmai fare senza? Mi sentirei morto se vi rinunciassi!".

Giovedì scorso, al Marinoni, prima della lettura, c'è stato un breve confronto con Elisa, una delle ragazze che fanno parte del comitato che sostiene l'occupazione.
Parlavamo del mio libro, e non solo, credo e spero.
Dicevo che i racconti sono stati scritti nell'arco degli ultimi dieci anni, che per me sono stati particolarmente pesanti, difficili, in termini di situazione politica e civile. E aggiungevo che il fatto di trovarsi in quel posto, rappresentava, secondo me, un'istanza di libertà il fatto di poter scegliere di andare a teatro piuttosto che no, fa la differenza. Una società civile deve concedere il diritto alla libertà di scelta.
Se penso alla mia Venezia, ormai rinsecchita, morta, spolpata della sua vitalità, e penso a come, poco alla volta, abbiano chiuso cinema, negozi, librerie; poi è toccato ai prezzi delle case, all'invasione di negozi di souvenir Made in china e zone limitrofe; alla qualità dei bar e dei ristoranti trasformati in luoghi per turisti mordi e fuggi. Alle speculazioni, alle grandi navi; se guardo alla costante decrescita degli abitanti, trasformando il tessuto urbano in massa di pendolari, non posso che vedere con disagio un preciso disegno politico, e augurarmi che l'intelligenza e l'arte non si spengano del tutto.
E l'intelligenza e l'arte, non si coltivano chiusi in casa, davanti alla televisione.

Cristiano Prakash Dorigo