martedì 7 agosto 2012

Lavoro da morire

In questi giorni si fa un gran discutere dell'Ilva di Taranto. Come sempre questo paese dimostra che l'esperienza, l'aver già visto e vissuto dei drammi collettivi fondamentali, che hanno ripercussioni dirette sul concetto di civiltà e di regole.
Propongo la parte finale di un racconto, tratto dal mio ultimo libro "homo sapiens nord est". L'ho scritto pensando alla vicenda di Giuseppe Bortolozzo e del famoso processo ai vertici del  petrolchimico di Marghera, concluso con l'assoluzione degli stessi.
Immagino Bortolozzo che torna a Mestre, molti anni dopo la sua morte, e perciò in "forma di fantasma", il giorno della sentenza.


"...E tu, quando esistevi,  quando eri giovane, forte, con una moglie bella e innamorata e due bambini riccioluti, ti sentivi parte di un complesso sistema di regole, di diritti e doveri da pretendere e di cui rispondere.  Venivi ogni giorno a lavorare, a faticare, forse perché ti sembrava che in fondo a ognuno tocca un destino che è giusto assecondare.
E ti sentivi così anche quando hai iniziato a stare male, a sentire che la forza era solo un ricordo e la giovinezza un rimpianto.
Ricordi  il purè, la minestrina, il riso in bianco, le mele cotte dell’ospedale.
Ti ricordi che quella piattezza, quel menù dai colori bianco e giallino pastello, quei sapori tendenti alla neutralità, ti provocavano nostalgie di un benessere perduto.
Dicevi e pensavi che doveva andare così, che il destino è scritto ma nessuno può leggerlo né modificarlo.

Arrivi in Via Righi, la via delle fabbriche.
Ricordi.
Ricordi di quando la tivù era ingenuità in bianco e nero e le industrie di Porto Marghera ospitavano una popolazione immensa, inconsapevole, sacrificabile e santificata in nome  del progresso.
I tuoi occhi, allora, vedevano un mondo squilibrato, violento e cattivo; e però ti si spiegava che era la tua età a fartelo vedere così, che la tua energia faceva circolare il sangue in modo vorticoso creando ideali e nemici a misura di giovane proletario.
Poi anche tu sei diventato parte di quel sistema produttivo.
Bastava solo abituarsi.
Gli operai come te erano controfigure viventi di un ideale, oggetti-soggetti buoni a propagandare una fede parallela a quella di Dio.
 “Venite qui, vi accogliamo  noi, con noi sarete al sicuro” sembravano dire quelle bocche, e se anche doveste morire presto, lo fareste certi che il sacrificio abbia comunque una sua particolare bellezza, un suo originale senso, una sua santità felice.
Fedeli e infedeli; padroni e proletari: parole dal sapore antico; ma bastava una parte da cui stare e un’altra contro cui combattere per non sentirsi soli.
Ma la verità e la realtà non subiscono il tempo, non riconoscono parametri funzionali e definizioni antiche o moderne.
La verità e la realtà sono sempre là, a disposizione; aspettano che ne sentiamo il sapore, che ne percepiamo la presenza, che ne intuiamo la sostanza.
La verità sa di buono, di dolce. La realtà sa di merda, di cibo deteriorato.

Oggi senti che questo ponte che unisce la città una e trina, da cui guardavi con innocenza attraverso i finestrini degli autobus verdi, dove vivevi l’illusione meravigliosa di quelle luci che alla sera facevano sembrare le fabbriche una città immaginaria abitata da persone e storie, invece che da morte velenosa; oggi quel ponte sembra solo quel che è: un nastro d’asfalto sospeso sull’acqua.
Oggi sai che il tempo non esiste.
Che le coscienze oggi le lavorano in forma moderna, interattiva, subliminale.
E oggi, dopo quella sentenza che un giudice con un nome da animalista, che ha sancito la non colpa dei colpevoli, che ha legittimato le ragioni dei padroni, che ha cancellato vite e morti, sai.
Sai di essere una specie di fantasma tornato per un giorno, per incontrare la miseria degli uomini, per veder svelata l’illusione di giustizia, per capire che la lotta serve al potere per dargli una parvenza democratica.
Sai che non ci sarà mai memoria, e tu e loro, seppelliti dal profitto e celebrati dall’illusoria speranza di riscatto, sarete solo un inutile errore che si perpetua.
E un ricordo dimenticato.

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