martedì 4 marzo 2014

carnevale a Venezia


Carnevale


Mercoledì.
Il carnevale è finito ieri.
...
Ieri la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.
Per terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, bottiglie rotte, vomito. Nell’aria si percepisce la

piega di stanchezza, dopo una notte forzatamente festosa; divertirsi non ha più un significato, è solo un agito, un ordine perentorio, un modo di distrarsi da sé.
Venezia è morta da tanto, e vive solo grazie alla decadente bellezza cui non si può non perdonare tutto. Compresa la volontà politica di un’ignobile svendita, un tot a metro quadro.
Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, universitari protempore, poca gioventù isolata: tutti apparentemente vivi, ma mai vitali.
La strada straripa di donne e uomini, turisti, sviliti dalla sagacia immorale di commercianti di souvenir della nostalgia.
Maschere, vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina tradizionale, cinese, araba.
Cammino zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.
La festa è finita senza mai iniziare, ma nessuno se ne è accorto.
Tutti accettano l’illusione se possono così evitare la delusione.
Rido e canto canzoni che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono suono, e sento parlare

idiomi incomprensibili dai toni stanchi, impastati e notturni.
Cinesi avanzano a grumi: si distinguono per il loro rimanere compatti, e per i vestiti di chi latita
dalla fantasia.
Giapponesi a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e vestiti
da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano manga che lanciano urletti isterici. Non guardano mai negli occhi.
Americani si distinguono tra obesi e muscolosi. Arrotondano le parole con dei versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti, sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice, alla pedante complessità. Sono evidentemente quel che sembrano.
Bengalesi pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.
Inglesi pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata da giovani che non nascondono una disperazione penetrata fin dentro le viscere. Sanno di pioggia, cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.
Tedeschi a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e affidabile.
Francesi che sembrano italiani con l’erre moscia, con la stronzaggine intrinseca di chi passeggia in centro.
Spagnoli che sembrano italiani che se ne fregano di non essere sempre e comunque vestiti alla moda, e parlano ad alta voce e ridono sguaiati.
Olandesi biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.
Coreani che sorridono, e che sono in modo netto la prossima modernità.
Ai lati, africani robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.
Altri vendono altro.
Zingari rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.
Veneziani vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti, commissionati in Cina e
Vietnam; oppure si lamentano della marea umana che non gli permette di vivere; oppure trascinano carrelli stracarichi di merci che questi stessi ominidi hanno consumato, e consumeranno, facendosi largo a suon di urla e improperi dialettali.
Come tutto e tutti a Venezia, hanno ragione e torto insieme, con-fusi, smarriti, perduti tra altezze siderali e profondi abissi.
Io sono il mondo, anche.
Il primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.
Contengo tutti i mondi, in scala gerarchica, e ordine misto.
Mondi che coesistono detestandosi, scaricando sull’amministratore - il mio ridicolo ego - l’onere

di tante contraddizioni.
Tutti hanno le stesse scarpe da ginnastica.
Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni di scarpe.
Altri i sandali.
Certi indossano scarpe italiane.
Tutti hanno scarpe provenienti da altri paesi, prodotte in fabbriche fatiscenti, assemblate da

bambini schiavi che non visiteranno mai Venezia. Maglie e camicie sudate.
Piumini, pellicce, cappotti.
Giacche, giubbotti, soprabiti.

Grandi marche, grandi prese per il culo, firme vere e fasulle.
Lusso, lussuria, consumo, depressione, panico, arte, bellezza, metafisica, internet.

Non ce l’ho con nessuno di loro come persone; non li sopporto in quanto massa. M’hanno rotto i coglioni, penso.
Mi posiziono a un lato della strada.
Appoggio la borsa sui masegni.
Tolgo il giubbotto che porto sopra il vestito, rimanendo in completo gessato.
Fingendo di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino che si

muove a scatti.
Poi fingo di raccontarmi una barzelletta e rido a voce altissima, il tutto col silenzio del mimo. Poi mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione e comincio a roteare su me stesso; prima

piano poi sempre più veloce sino a non distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.
Roteo danzando come i dervisci.
Dopo qualche minuto mi fermo.
La testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.

Mi si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una camicia leggera.
Mi appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.
Mi guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di venticinque anni.
Mi sussurra ad un orecchio: “I understand you”, e se ne va, dopo avermi leccato l’orecchio destro.

Mi rialzo.
Mi spazzolo i vestiti senza polvere.
Vedo un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.
Sulla borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte che non ho

manifestato.
La prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano che accompagna in

modo teatrale un inchino.
Squilla il telefonino.
“Sì, pronto” dico.
“Dottor Persepolis, sono Comin. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso venire oggi?” “Comin, sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Clara gli appuntamenti, e

se ho un buco la ricevo.
Se non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto? Sì, bene. Ci

sentiamo più tardi”.
“Clara, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.
Butto fuori l'aria dai polmoni e mi avvio incontro al giorno.

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