domenica 15 settembre 2013

Morrissey, Marr e la mezza età



Ieri ho avuto due incontri con la mia mezza età.

Tardo pomeriggio, zona campo San Barnaba, camminavo in calle lunga.
Devo fare un inciso, prima.
Da qualche decennio - e a dire il vero non ho ricordo di quando sia stata l’ultima volta che - non mi ammalo di malattie stagionali: influenze, virus vari, non fanno mai le vacanze nel mio organismo perché non gli piace; o forse i miei meccanismi di difesa sono davvero invalicabili; oppure non lo so: fantasie ne ho avute tante, ma preferisco attenermi ai fatti, che sono quelli appena scritti.

Ieri, per una ragione che non conosco, mi è venuto il raffreddore: quando mi viene - una o due volte l’anno, per un paio di giorni -, si manifesta con la potenza e la velocità di un temporale estivo: dura un paio di giorni, durante i quali il mio naso continua a starnutire, e soprattutto a gocciolare in modo incontrollato.
Consumo una decina di pacchetti di fazzoletti, gli occhi e il naso rosso vivo. E poi basta, sparisce.
Ecco, stavo camminando, quando vedo uscire da un portone un ragazzo di almeno 1 metro e 90.
Lo riconosco: è un ragazzo che “seguivo” quando andava alle medie - altra digressione: lavoro nel sociale e da più di dieci anni, in particolare, mi occupo di minori, prima, e di giovani donne con problematiche famigliari complesse, adesso -; allora era già alto, ma adesso è praticamente un gigante. Un tempo era dinoccolato, poco fluido, incerto; ora pare decisamente aver fatto pace con il suo corpo e la sua emotività. Insomma, con una battuta lo fermo; al momento stenta a riconoscermi, ma sono sufficienti un paio di secondi perché pronunci il mio nome. scambiamo due battute di circostanza sulla sua battuta iniziale, che è la seguente: “... oh Cristiano, che flash: mi ricordo quando venivi da me che eri giovane...”. Va detto che nemmeno allora lo ero, giovane; che ero in condizioni pietose: naso gocciolante, viso arrossato dal lavorio del fazzoletto, occhi lacrimanti e arrossati; e tuttavia ho incassato e rielaborato: capelli ingrigiti, occhiaie frequenti, stanchezze diffuse, pancetta, figlia che frequenta ormai la seconda liceo.
L’età non ha mai rappresentato un problema, per me; l’ho sempre vissuta con allegria, con la consapevolezza che se si riesce a vivere con intensità il presente, il tempo è solo convenzione.

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Tra gli altri, “viva hate” di Morrissey, “the Messenger” di Marr: testa e cuore di uno dei migliori gruppi di sempre, gli Smiths.
Sono dischi completamente diversi tra loro, non foss’altro perché il primo non ha mai rifatto gli Smiths, e il secondo invece, forse senza desiderarlo, pedissequamente.
Il disco di Marr in realtà lo sto ascoltando proprio adesso, in sottofondo, mentre scrivo: la chitarra che ho tanto amato, è rimasta quella: non si può sbagliare.
La copertina mi dice che anche lui, si sente ancora giovane.

Il disco di Morrissey, il suo primo da solista, del 1988, è uno dei dischi più importanti della mia vita affettiva: inciso in me in profondità, è uno di quelli che porterei con me se mi si sottoponesse il giochino scemo dell’isola deserta.
Ricordo che ero a Colonia, dove ho vissuto facendo il cameriere in una gelateria italiana, per un paio d’anni. Anni dimenticabili, ma indimenticati; ero con Giorgio, e tutti gli altri. Ero giovane, con una visione della vita che faceva a pugni con la realtà. In mezzo ai tedeschi, con altri italiani, con una nostalgia più mitizzata che concreta, sentivo nella voce, nelle parole, nelle atmosfere di Morrissey, una vicinanza che faticavo a trovare altrove.
Ricordo le scopate clandestine con una ragazza bolognese, i sogni holliwoodiani di un friulano che si credeva destinato alla gloria, un altro ragazzo veneto che fumava canne dalla mattina alla sera, un altro friulano alcolista che quando beveva, menava sempre le mani, e poi altri ancora: ognuno aveva una sua ragione per lavorare là, ed erano quasi sempre storie legate alla fuga da qualcosa o qualcuno, e io non facevo eccezioni.
Era morto un amico in circostanze terribili, da solo, e non ce la facevo a reggere il dolore e il rimpianto, per cui ero scappato da Mestre.
Ricordo in particolare due cassette: viva hate, e un disco dal vivo di Paolo Conte.
Ricordo la periferia di Colonia, il suo centro, il duomo gotico, il freddo, il leggendario rigore tedesco, la asettica pulizia delle città.
Ma soprattutto ricordo, ogni volta che lo riascolto, quella cassetta che ascoltavo ogni sera sullo stereo che mi avevano regalato per il compleanno.
Ricordo che raramente ho sentito così incise nella mia carne, strofe di canzoni come quelle, che sembravano scritte da me, dalla mia esperienza di emigrante, di profugo dell’esistenza, di scavatore del senso delle cose - la giovinezza ti può far sentire così, anche se la questione non è mai personale, ma universale; la differenza è che qualcuno lo sa, e ci lavora, e chi invece lo scopre troppo tardi -.

Oggi, che è arrivato, mi è parso di aver capito.
La mezza età è solo un concetto, un modo di dire.
Ha a che fare col tempo, che è passato, che manca, ma soprattutto che c’è, qui, adesso, che riusciamo a vivere con pienezza, perché solo così non lo rimpiangeremo.

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