martedì 27 novembre 2012

Anniversario e comprensione


Caro C, ti racconto una piccola storia, un episodio che appartiene al mio passato remoto. Lo faccio per un personale bisogno di autenticità, perché oggi ricorre l'anniversario di morte di D, e perché ho capito, credo,  il ricambio generazionale in termini di ruoli e di funzioni,. Nasciamo figli, e ad alcuni di noi capita di diventare genitori.
Ti confesso, non senza imbarazzo, che mi sono accorto solo di recente di aver sempre mirato al bersaglio sbagliato, di aver focalizzato un punto ininfluente, in una vicenda, invece molto importante.
 Ti invio questa pagina del mio diario di allora.

"Sono andato al funerale del mio amico D quando avevamo entrambi ventitre anni.
È stata un'esperienza difficilissima, estenuante, rovinosa. Il mio amico D è morto per overdose di eroina. L'hanno trovato una mattina, rigido, con le labbra e le unghie blu, seduto sulla sua auto, con la testa appoggiata al volante e la siringa piantata sul braccio destro, perché era mancino e usava la mano sinistra per bucarsi.
Sua madre, la signora Z, non vedendolo rientrare la sera, aveva allertato la polizia, la quale aveva risposto che avrebbe segnalato la cosa, ma che, vista l'età del ragazzo, magari aveva trovato qualcosa di meglio da fare, che non tornare a casa.
La madre non gli aveva detto che sospettava che il figlio facesse uso di droga pesante; che i soldi, ultimamente, sparivano dalla cassa del negozio, un panificio; oppure dal suo taccuino, che una volta aveva perfino fatto una brutta figura al supermercato perché era convinta di avere dei soldi, che invece non c'erano più. Non aveva avuto la prontezza di dirgli che per tutta l'estate suo figlio aveva usato la camicia con le maniche lunghe, che prendeva sonno davanti al piatto di minestra, che trovava macchie di sangue sui fazzoletti, ecc.
Io e D avevamo iniziato insieme tirando la roba con delle banconote arrotolate, come avevamo visto nei film. Il sapore che ci arrivava in gola era amaro, ma il calore che ci prendeva in tutto il corpo, il senso di pace, la facilità con cui ogni azione era la migliore delle azioni che un essere umano potesse fare, rendeva quell'amaro, un dolce preludio all'estasi.
Era un gioco all'inizio, che un pò alla volta riempiva i nostri giorni vuoti.
Era facile cedere spazio e tempo alla ricerca della roba; dopo un pò, ti faceva crescere fino a comprendere e smascherare le ipocrisie del mondo degli adulti, che erano drogati di qualcos'altro, magari legale, ma che nella sostanza non cambiava: loro bevevano, giocavano per soldi, si facevano donne e uomini all'insaputa delle famiglie, venivano a comprarsi anche loro la roba: il tutto però, con la parvenza della normalità.
Quando mi sono accorto che il gioco era diventato bisogno, e poi necessità di sopravvivenza, io ho mollato.
D invece aveva trovato una morosa, A, che pur di avere soldi e roba, gli faceva fare tutto quello che voleva, e gli insegnava quello che non sapeva. E aveva anche un amico del liceo, B, che faceva l'impiegato, e che andava con loro il fine settimana a prendere la roba; ma non lo sapeva nessun altro, se non io, D, A, e il fornitore.
Per quanto ne so, D e A, avevano intensificato l'uso, fino ad abusarne, fino a rendere il vizio e il piacere, l'unica ragione di vita; una vita che sfidava la morte con la superbia della giovinezza e la fiducia ingenua degli ignari.
Al funerale gli sguardi della madre, quelli cattivi e disperati, erano rivolti a me: ha sempre pensato che io fossi quello cattivo, e B, il suo amico impiegato, quello buono. Nella sua semplicità, e forse ancor più nella sua esperienza, credeva al dualismo bene-male: l'intera umanità apparteneva all'uno o all'altro, senza sfumature, senza sofismi. Non poteva capire che eravamo tutti e tre sia buoni che cattivi, che suo figlio si faceva e io non più, che la morosa era una che faceva di tutto per una pera, e che l'amico, il sabato diventava un fattone come tanti.
Pensarlo solo, in auto, con la testa appoggiata al volante, con le unghie e le labbra blu, mi dà la nausea, mi fa sentire solo, mi fa pensare all'abisso, alla caduta, al vuoto di questa vita. Ogni notte lo vedo in quella posizione, e non so darmi pace.
E allora ripenso a quando ci siamo conosciuti, a quando ascoltavamo i dischi, a quando pensavamo al prossimo viaggio che avremmo fatto, a quando ci salutavamo abbracciandoci forte.
E disteso a letto, mentre rivedo il blu, il volante, e mi pare di sentire il freddo della notte, mi giro le braccia attorno al petto e mi abbraccio sperando di scaldare il suo corpo ormai freddo, di ridare colorito alla sua pelle, di restituire battito al suo cuore."

Come dicevo all'inizio di questa mia, credo di aver capito e finalmente perdonato D, A, B, e anche e soprattutto sua madre Z, per quegli sguardi severi, per quelle colpe che non avevo, per quel dolore sordomuto che le aveva distrutto la vita.
Capisco che aveva bisogno di attribuire la colpa ad un colpevole, che doveva scaricare su qualcuno un dolore che le era impossibile accettare per quello che era.
Per molti anni ho sentito il rammarico e la tristezza di un'accusa infondata, e l'intima, egoistica mancanza dell'amico, e nient'altro.
Lei non mi ha mai perdonato, l'ho capito quando un giorno, per caso, fuori di un supermercato, mentre andavo a fare la spesa con mio figlio D, l'ho riconosciuta, seduta su una sedia a rotelle, spinta da una badante: mi ha rivolto un'occhiata veloce, spenta, eppure forte come una frustata.
Mio figlio l'ha notata e mi ha chiesto chi era.
Gli ho risposto che era la madre di un amico a cui avevo voluto bene, e che lei aveva amato moltissimo.
Un caro saluto, tuo B



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