mercoledì 31 ottobre 2012
Festival dei matti, corpo, cà tron, e la festa che non c'è
In occasione del festival dei matti, si doveva svolgere una festa di presentazione e raccolta fondi. Per ragioni con cui non voglio tediarvi, ma che sono legate al lento decorso di questioni burocratiche, la festa non si è fatta. Ci doveva essere un concertino, un'esibizione di ballo, una mia lettura.
Oltre al racconto, avrei letto questa premessa.
Quando penso al "festival dei matti", al significato letterale, a quello metaforico, a cosa penso?
Non so se riuscirò a rispondere in modo coerente; in un certo senso, non rispondo di quello che penso, perché il pensiero è un coacervo di sintomi, automatismi, saperi, abitudini, ecc. Per cui, quello che penso, non sono io, ma una somma algebrica di personalità convinte di essere autonome, svicolate dalle regole, libere da ogni condizionamento, benché sappiano che così non è. Il festival dei matti mette in scena lo smascheramento di queste credenze di cui tutti sono convinti, nonostante l'evidenza dica, nei momenti in cui ci concediamo confidenza con noi stessi, che così non è.
Si diceva con Anna che il matto è una persona che prende sul serio ciò che gli succede, scegliendo di non ignorarlo. Oppure ricordo quello che diceva Galimberti, o Basaglia, o Rotelli o altri che pare abbiano capito che non c'è niente da capire sulla follia, perché risponde solo al bisogno di controllo assoluto da parte delle istituzioni, eperché questa non è altro che la normalità di cui tutti siamo portatori, riuscendo però a non esserne vittime.
Sposo l'idea che siamo tutti abitati dalla follia, solo che abbiamo imparato a conviverci, a gestirla, a ridurla a silenzioso soliloquio interiore.
Sfido tutti a fare un esperimento: ci si sieda, si prenda un foglio e una penna, si scriva tutto ciò che passa per la testa per un minuto o due: risultato? TSO!
Uno dei modi per ridurre la follia civile in cui tutti siamo immersi, è quello di scegliere di condividere, di frequentare, di stare con gli altri. Non sto semplificando, riducendo il dolore a macchietta: mi riferisco agli stadi che precedono gravi episodi che necessitano di interventi specialistici. Mi riferisco piuttosto alla quotidianità, alla vita di tutti i giorni; quella che tutti, in misura diversa, subiamo. Penso ai rapporti sociali, gerarchici, lavorativi, amorosi, amicali: quanti ne salveremmo se potessimo scegliere? Quanto di ciò cui siamo circondati, ci appartiene? Quanta intimità abbiamo coi nostri amici, coi nostri amori, coi figli, coi parenti, coi colleghi, con le abitudini, con noi stessi? Fino a che punto riusciamo a stare coi nostri impulsi, con le nostre paure, con le nostre fantasie, senza giudicarle, catalogarle, classificarle? Quanta libertà concediamo a ciò che siamo davvero?
E non sto facendo filosofia spicciola, o psicologismi da rivista; sto proprio riferendomi a situazioni concrete, reali. Sto pensando che se avessi un momento di sconforto, un dolore passeggero, una felicità da poco e riuscissi ad autorizzarmi a raccontare, a comunicare, la mia vita sarebbe più libera, più leggera, più umana.
E invece ho accettato le sovrastrutture, le finzioni, le mascherate, i giochi di ruolo, e li ho trasformati, pian piano, convintamente, in realtà.
La maggior parte delle malattie scaturisce da cattive abitudini, da condizioni ambientali estreme, da compromessi emotivi non elaborati, dal sacrificio della propria verità in funzione di una sopravvivenza normata da regole demenziali e asfittiche.
Sono convinto che questo cambiamento porterebbe molti vantaggi in termini di qualità di vita, e sarebbe a costo zero. Col mio lavoro sono a contatto con un progetto di social housing: si tratta, per farla breve, di un condominio in cui abitano una dozzina di anziani, due famiglie, tre giovani ragazze. Lasciando da parte la questione burocratica, chi vi accede, sa di abitare in un posto in cui ognuno ha la sua casa, la sua libertà, ma che, in caso di bisogno, non ci si gira dall'altra parte, non si fa finta di niente, non si fischietta un motivetto mentre si allunga il passo per evitare la relazione. Non posso portare dati certi, ma a quanto mi consta, la sola prospettiva di disponibilità, rende quegli inquilini, persone che convivono civilmente all'interno di un sistema che si autotutela e comunica.
Concludo raccontando la ragione per cui sono qui.
Avevo conosciuto il collettivo dei ragazzi di Cà Tron quasi per caso. Con uguale casualità mi sono interessato a ciò che facevano, a come lo facevano e ho deciso di conseguenza di scegliere questo posto per presentare il mio ultimo libro. La questione che più mi è parsa interessante, è stata quella che riguarda l'apertura del palazzo, sede universitaria che si affaccia sul canal grande, alla cittadinanza, alle realtà associative, a chiunque voglia proporre cultura, qualunque significato si attribuisca a questo termine.
In modo diverso, ma con alcuni obiettivi simili, il progetto di Anna. Il festival dei matti, festival altro per eccellenza, per scelta, per sua intima natura, si prefigge come obiettivo quello di scendere dalle aule accademiche, dagli ambulatori specialistici, dalle stanze delle commissioni che decidono com'è un soggetto, senza che questo possa dire la sua, e far incontrare le persone per quello che sono, per le storie che hanno da raccontare, per le esperienze che hanno vissuto.
In questo senso, nel senso appunto del sapere che "si apre e si confronta" senza etichette e titoli, io vedo la similitudine.
Il sapere senza esperienza, e viceversa l'esperienza senza il sapere, rischiano di andare ciascuno per la propria strada senza incontrarsi mai, impedendo così l'incontro, lo scambio, la relazione, creando solitudine, isolamento senza possibilità di sfogo.
Concludo raccontando il contenuto di un racconto- anche se tecnicamente non lo è: più che un racconto, è un brano di un diario,in cui si parla di una persona, che da quando si è malata, ha riscoperto la propria interezza in termini di corpo-mente-anima-, che avrei dovuto leggere per l'occasione.
Ed è proprio il corpo, riscoperto grazie al paradosso per cui più si è malati, più ci si accorge di quanto sia prezioso, e al tempo stesso sottovalutato, stare bene.
Ed ora concludo e inizio la lettura, augurandovi un buon proseguimento di serata.
Grazie.
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