lunedì 22 ottobre 2012
Argentina, America Latina e invasività
Ieri ho incontrato una conoscente argentina che stava andando a Trieste per il festival del cinema latino americano. Abbiamo fatto un pezzo di treno insieme, parlando del più e del meno, e poi sempre più della situazione argentina, e di quella latino americana in generale.
Quando l'avevo conosciuta, anni fa, era appena arrivata dall'Argentina; era il periodo della grande crisi e delle rivolte sociali. La sua famiglia, di origine italiana, come si poteva evincere dal cognome, viveva nel benessere; lei stessa aveva un'attività che le consentiva una vita agiata, una bella casetta con piscina, ecc.
All'improvviso, tutto era cambiato. Col tracollo del 2001, tutta l'Argentina, paese che ha, o forse aveva, una grande considerazione di sé- tipo i francesi, tanto per capirsi-, si è trovato al collasso. Banche che non erogavano più denaro, l'economia, il commercio, e di conseguenza la vita sociale, da "normale", si è ritrovata come in un incubo, allo sfacelo.
Di conseguenza, la gente ha iniziato a modificare il proprio modo di vivere: ha sopportato la frustrazione della precarietà, l'abisso della povertà, e poi ha iniziato a scoppiare, passando rapidamente dalla protesta alla delinquenza, dovuta alla sopravvivenza.
In quel periodo succedeva di frequente il fenomeno del micro-sequestro: si rapiva un famigliare e si esigeva il riscatto; il tutto si risolveva in modo molto sbrigativo. Da lì, l'incubo della protezione, della paura, delle guardie private, allarmi, armi da fuoco, ecc.
Lei non ha retto e se ne è venuta in Italia, sua terra di origine.
In treno parlavamo di come era adesso, della differenza tra come si vive qui, e come là. Le dicevo che avevo visto, con emozione e commozione, un video sul "sistema Abreu"- una sorta di recupero della marginalità giovanile, attraverso progetti di insegnamento della musica-, e che il documentario iniziava con il numero di omicidi di Caracas: 5000 ogni anno - forse perfino aumentati in questi ultimi anni-. Da qui è partita tutta una disquisizione sul modo di vivere, giungendo al concetto chiave che Europa e America Latina, coi dovuti distinguo, le ovvietà, sono due mondi totalmente diversi.
L'alto tasso di omicidi delle grandi città sudamericane, ha a che fare con un problema che si potrebbe sintetizzare con " la guerra tra poveri": lei sintetizza così il destino di persone destinate comunque a morire in fretta, con un'esistenza consumata sin dalla fanciullezza, vissuta in quartieri inimmaginabili per noi.
Le raccontavo che, comunque sia, mi sarebbe piaciuto molto visitare quei paesi. Leggendo i grandi scrittori- in particolare, opinione personale, Bolano-, si ha come l'impressione che la distanza tra vita interiore ed esteriore sia meno distante; che la possibilità di morire forse più facilmente, ma con la consapevolezza di aver comunque vissuto, là ci sia ancora.
A proposito di questo, del sentimento dell'amicizia, ma anche della sensazione di far parte di una comunità di persone che condivide, che si relaziona, che soffre e gioisce senza aver paura di perdere per questo l'intimità o la privacy o chissà che. Che qui l'abbiamo ormai smarrito, dimenticato, sepolto da un'infinità di piccoli egoismi, di timori, di nevrosi.
Lei ne parlava più che come una mutilazione, un piccolo lutto, come un piccolo prezzo da pagare; compensato forse dalla tranquillità di vivere in una città come Venezia.
Chissà che rapporto avrà con la nostalgia, mi chiedevo scendendo dal treno e lasciandola al suo simbolico rientro in patria a Trieste, dove avrebbe incontrato altri suoi compatrioti latinoamericani, e avrebbe passato giorni e notti con loro a discutere, chiacchierare, ricordare, parlare del passato, sapendo che, almeno questo, qui si ha più probabilità di immaginare concretamente il futuro.
Ma naturalmente non gliel'ho chiesto, da bravo europeo, per timore di essere invasivo.
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