allora, risposi così, senza rispondere.
Cara
anonima,
inizio
subito dicendoti che sono la persona cui
hai spedito una lettera per errore.
Almeno
così credo. Lo credo perché dal nome del mittente, non mi pare di conoscerti.
Ma
se ci penso bene, quanta gente presumo di conoscere salvo poi accorgermi, prima
o poi accade con tutte, di non poterlo affatto dire? A meno che non si voglia
intendere, per conoscenza, quella formale: nome cognome indirizzo professione.
Per
cui, se è vero che non ti conosco, questo vale anche per la maggior parte delle
persone con cui mi relaziono normalmente.
Non
essendo sicuro di esserci riuscito, ti confido che questa premessa serve ad
allontanare l’imbarazzo tra noi; come dire che, pur non sapendo nulla di te,
nemmeno come sei fisicamente, la
tua lettera mi ti ha fatto conoscere, sotto certi aspetti, meglio di quanto la
fisicità dell’incontro, consenta.
Ti
sto scrivendo queste prime righe dalla stazione di San Donà di Piave.
Ci
sono per ragioni assolutamente irrilevanti ai fini di questa mia, ma mi piaceva
l’idea di farti una cronaca di questo mio-nostro tempo.
Perché
sono davvero convinto che una lettera possa andare oltre la contingenza
spazio-tempo e riesca, in senso metafisico, a renderlo un unicum pur essendo
oggettivamente staccato e asincrono.
Scrivo
adesso qui in stazione a San Donà di Piave, poi andrò a Mestre, poi tornerò a
casa, batterò a computer queste parole che poi tu leggerai lì dove sei: il
tutto, però, all’interno di un contesto spazio-temporale unico; per lo meno dal
punto di vista della suggestione emotiva che evoca.
Insomma
tu leggerai, quando e se vorrai, questa mia, “dopo” che io l’avrò scritta; ma è
come se tu lo facessi “durante”, mentre cioè, io la sto scrivendo. C’è
un’eternità intrinseca nelle parole, una sorta di magia che le conduce
all’immortalità. La tua lettera ne è testimonianza: indipendentemente dal
momento in cui l’hai concepita e scritta, scivola attraverso il tempo senza
esserne intaccata.
Sono
seduto su una panchina di marmo da solo. Attorno a me poca gente, com’è sempre
nelle piccole stazioni.
La sera ha oscurato il cielo, le luci illuminano di giallo
binari e marciapiedi, e aggiungo che tutto s’intona perfettamente allo
stile-stazione.
E’
piena primavera, c’è una temperatura estiva di giorno, fredda di sera; il marmo
della panchina, quindi, è ancora caldo del sole della giornata ma sta
diventando freddo dal vento pungente che soffia forte, come lo sbuffo di chi è
stufo e così facendo spera di buttar fuori le ingombranti angosce che gli
stazionano in pancia.
Mentre
aspetto i pensieri vengono interrotti dalla voce meccanica dello speaker-robot
che indica arrivi e partenze.
E
così anch’essi, i pensieri intendo,
come i treni, arrivano, partono, si fermano: la mente è come una
stazione; i pensieri come treni; noi sempre i passeggeri.
Il
treno che dovevo prendere è in ritardo di mezz’ora, per cui salirò su quello
successivo, un regionale.
Guardo
l’ora perché voglio capire quanto mi manca; per poter scrivere o almeno
leggere, ma i minuti, adesso, hanno il passo veloce per cui smetto.
Poi
m’alzo e cammino. Controllo la gente in attesa. M’aggiro con agilità e
leggerezza tra loro.
Ecco
l’annuncio dell’arrivo.
Puntuale.
Ho
voglia di leggere e di starmene dentro a questi pensieri che mi fanno
compagnia, e magari continuare a scriverli.
Non
riesco a immaginarti fisicamente, ma mi son fatto delle idee su come stai.
E’
da un po’ che osservo ragazze e donne.
Passami
queste che sembrano generalizzazioni e che non rappresentano il mio fine.
Da
queste osservazioni nascono pensieri che poi, poco per volta,
impercettibilmente, diventano una realtà. Cosicché ci credo, come fosse una
teoria letta su di un libro attendibile anziché fantasie create da me.
Vedo
quegli sguardi persi fuori dai finestrini degli autobus. Oppure concentrati
dentro le pagine di libri. O impegnate in telefonate così intense che sembrano
importanti come il destino.
E
in quasi tutte vedo dolcezza e amarezza, come chi è disillusa già da un po’.
Non
so capire se la verità è in quegli occhi; o se invece non sia la mia
immaginazione.
Mi
rendo conto che perdersi in entusiasmi così auto-indotti come i miei non
contempla, tra gli ingredienti, la realtà. Bastano le proiezioni e i film e romanzi
che scaturiscono ormai inarrestabili, neanche fossi un’artista professionista
che scrive per mestiere.
Ma
dicevo dello sguardo delle donne che incontro e osservo ogni giorno.
Quelle
che hanno superato la trentina, in particolare.
Nel
volto, anche se bello, hanno sovente disegnata come una smorfia, pur tentando
di dissimularla con generosi sorrisi.
E
la smorfia disegna ed esprime il disincanto, la fine dell’illusione.
Quello
di chi ha già capito, con largo anticipo, che la vita è tutta qui; solo questa,
fatta di autobus strapieni, di una quotidianità stritolante, asfittica, senza
la possibilità di variare.
Una
vita senza curve, con la fatica del resisterle per non precipitarvi dentro
senza paracadute, in balia di una discesa grigio topo, come il cielo di
novembre.
Molte
hanno quell’espressione, e per quasi tutte vorrei fare qualcosa: raccontare
barzellette, ballare, fare strip-tease; portare l’allegria del giullare e la
leggiadria del play boy che, fortuna loro, mai sarò.
Forse
basterebbe dirgli parole dolci, mentire anche per solo un minuto, e dire che
non è finita qui; che non c’è solo la tivù la sera.
Ma
non ne ho la forza, il coraggio, e forse nemmeno la voglia.
Amo
e odio la forza di voi donne.
Ammiro,
non senza invidia, la capacità di stare sempre al cospetto della verità pur
desiderando il sogno. Non come noi uomini– ma chi sono io per parlare di “voi”
e di “noi”?-, che possiamo che
stare nella realtà solo pochi attimi, e fuggire di continuo verso proiezioni
fasulle, verso glorie inutili, verso effimere affermazioni.
Salgo
sulla carrozza, la terzultima di testa.
Dentro
m’avvolge un intenso odore d’urina.
Cerco
un posto e lo trovo di fronte a un nero africano in Italia da molto tempo; così
immagino che sia, guardandolo appena un po’.
Tolgo
la giacca, l’appoggio sul sedile, esitando appena nell’accomodarmi, a causa
dell’odore cui non mi sono ancora abituato.
Sul
sedile a destra una bionda da sola. Ha una minigonna e due cosce larghe, un
maglioncino e un seno abbondante.
Continuo
a scrivere sull’agendina: quest’atmosfera ha il sapore dell’ispirazione. Poi
tiro fuori anche il libro e metto giù lo zaino. Mando un sms ad un amico
raccontandogli dove sono, in compagnia di chi e di quale odore.
Dopo
un po’ il vociare di una triade di neri s’alza e invade il suono monotono del
treno, impadronendosene.
Parlano
un inglese dalla pronuncia poco anglosassone. Devono essere di nazionalità
diverse, per comunicare tra loro in quel modo.
Ad
un certo punto giungono due bigliettai e inizia una discussione che sa di
consuetudine.
Ognuno
recita la sua parte.
Uno
dei neri dice a quelli che “sono rassisti, perché controli biglietto solo a
me”. L’altro risponde monocorde “ fammi vedere il biglietto”. Gli animi
s’agitano, la fatica solca i loro visi.
Si
scambiano insulti ancora a livello lecito, senza esagerare. Ognuno cerca di
stufare l’altro con consumata abilità.
Ad
un certo punto uno dei neri tira fuori l’abbonamento. Il bigliettaio vuole il
documento. Lui dice no. Si rivolge agli amici dicendo che no, “let come police”;
fa venire polisia, carabinieri, guardia di finansa, non m’interessa. Poi
scendono e farfugliano qualcosa. Il treno parte e i due bigliettai, col piè
veloce, ci passano accanto nervosamente.
Penso
ai neri e alla fatica di essere neri.
Ai
ferrovieri, stufi anch’essi di questa guerra continua.
Penso
alla stupidità, perfettamente maschile, di faticare per sfidarsi di continuo.
Io
sento soltanto una voglia di pace, di stare alle cose con morbidezza, di
affrontare la mia vita con attenzione, senza perdere energie in scontri di
potere da pusillanimi.
Ma
sono anch’io un maschietto da poco, e non ci riesco mai.
Ti
capisco, cara amica –posso chiamarti così? – quando accusi la stanchezza di una
vita trascinata tra continue finzioni e sfide e confronti.
Ma
perché? Perché facciamo così?
Perché
siamo straripanti di pensieri poco educati, che ci hanno sempre suggerito di
non prendere nemmeno in considerazione e di cestinarli non appena possibile?
Perché
le nostre impurità e imperfezioni, si scontrano con modelli usciti dai corsi di
marketing, e questo è davvero triste?
Perché
se siamo così, ci siamo fatti convincere che è sbagliato?
Mi
concedo una riflessione ingenua e spavalda, per poi vergognarmene: credo che
religioni e politica esercitino così il loro controllo su di noi.
E
anch’io ho sofferto molto per questo; ma ora no, ora so come farci il calcolo e
calibrare le energie che mi servono per rendere il mio dentro e il fuori, un
contesto tendente all’armonico.
Che
poi non è affatto detto che ci riesca; anzi, quasi mai. Però ne ho toccato con
mano la fattibilità. E fedele all’idea che se un fenomeno si manifesta una
volta, in teoria, può ripetersi; e mi ci faccio cullare, tra consapevolezza e
illusione.
E
un po’ alla volta sto imparando a smussare gli angoli, ad avere pazienza quando
non ci riesco, a considerare le ingorde felicità, e le avvolgenti tristezze,
come fenomeni passeggeri.
Sto
cercando di dirti che le tue parole, aldilà del senso stretto e rigoroso, e
anche, consentimi, molto logico, sono state per me fonte di emozione.
E
non per la loro efficacia lessicale, o per il fatto che fossero scritte con
cavillosa pertinenza; no, mi hanno colpito perché trasmettevano una tensione
vissuta, un coinvolgimento intrinseco. Che se vuoi, concedimelo, è la
differenza che fanno le parole del letterato senza talento, da quelle meno
ammaestrate del talentuoso, che sono lasciate andare come figli cui, ad un
certo punto, bisogna concedere autonomia.
Quante
cose sto dicendo. Tutte così poco inerenti alla tua bella lettera.
Sto
arrivando in stazione e ormai la tensione da battibecco di prima sta svanendo.
Mestre,
al solito, trabocca di gente in attesa di qualcuno che arriva o che parte.
O
di che devono partire per chissà
dove, mete sconosciute che danno a stazioni e aeroporti un alone di mistero.
Scendo
circondato da gente, ovunque.
Imbocco
il sottopasso, il tunnel che unisce le due parti della terraferma veneziana.
Un
pezzo di terra di nessuno che è sempre piena di gente. Un simbolo delle nostre
paure moderne, atte ad allargare le distanze circospette che teniamo gli uni
dagli altri.
Fuori
la sera ha riassunto il controllo della situazione e proietta ombre e umori
silenziosi.
Incrocio
una coppia di neri: lei coi tacchi, le forme tonde e sode; lui sembra essere
una comparsa di Spike Lee, con un impeccabile, pacchiano completo bianco e
cappello appena storto. La loro andatura è chiassosa di tacchi. Lei:
dinoccolata e morbida. Lui:
muscoli scattanti e posa gangsta.
Poi
una coppia nostrana. Capelli lucidi, odore di deodorante sparatosi addosso con
l’irruenza dei giovani.
Mi
sovvengono le parole di un’amica che mi raccontava, in riferimento all’odore
della pelle, che i neri considerano la nostra odorante di morte, tanto è
impercettibile.
M’avvio
verso la mia meta mentre penso a queste parole come alle ultime.
Quando
arriverò a casa e le trascriverò e spedirò via computer.
Gli
ultimi pensieri riguardano il senso di tutto ciò; o forse la sua mancanza.
Mi
chiedo cos’abbia scritto per te, e la risposta è niente.
Niente
di pertinente con la tua precedente.
E
allora, e poi chiudo, spero almeno ti abbia fatto compagnia.
Se
così non fosse, credimi, mi spiacerebbe molto.
Adesso
sai dove trovarmi, se vuoi.
Ciao
Cristiano
Prakash Dorigo