mercoledì 31 ottobre 2012
Festival dei matti, corpo, cà tron, e la festa che non c'è
In occasione del festival dei matti, si doveva svolgere una festa di presentazione e raccolta fondi. Per ragioni con cui non voglio tediarvi, ma che sono legate al lento decorso di questioni burocratiche, la festa non si è fatta. Ci doveva essere un concertino, un'esibizione di ballo, una mia lettura.
Oltre al racconto, avrei letto questa premessa.
Quando penso al "festival dei matti", al significato letterale, a quello metaforico, a cosa penso?
Non so se riuscirò a rispondere in modo coerente; in un certo senso, non rispondo di quello che penso, perché il pensiero è un coacervo di sintomi, automatismi, saperi, abitudini, ecc. Per cui, quello che penso, non sono io, ma una somma algebrica di personalità convinte di essere autonome, svicolate dalle regole, libere da ogni condizionamento, benché sappiano che così non è. Il festival dei matti mette in scena lo smascheramento di queste credenze di cui tutti sono convinti, nonostante l'evidenza dica, nei momenti in cui ci concediamo confidenza con noi stessi, che così non è.
Si diceva con Anna che il matto è una persona che prende sul serio ciò che gli succede, scegliendo di non ignorarlo. Oppure ricordo quello che diceva Galimberti, o Basaglia, o Rotelli o altri che pare abbiano capito che non c'è niente da capire sulla follia, perché risponde solo al bisogno di controllo assoluto da parte delle istituzioni, eperché questa non è altro che la normalità di cui tutti siamo portatori, riuscendo però a non esserne vittime.
Sposo l'idea che siamo tutti abitati dalla follia, solo che abbiamo imparato a conviverci, a gestirla, a ridurla a silenzioso soliloquio interiore.
Sfido tutti a fare un esperimento: ci si sieda, si prenda un foglio e una penna, si scriva tutto ciò che passa per la testa per un minuto o due: risultato? TSO!
Uno dei modi per ridurre la follia civile in cui tutti siamo immersi, è quello di scegliere di condividere, di frequentare, di stare con gli altri. Non sto semplificando, riducendo il dolore a macchietta: mi riferisco agli stadi che precedono gravi episodi che necessitano di interventi specialistici. Mi riferisco piuttosto alla quotidianità, alla vita di tutti i giorni; quella che tutti, in misura diversa, subiamo. Penso ai rapporti sociali, gerarchici, lavorativi, amorosi, amicali: quanti ne salveremmo se potessimo scegliere? Quanto di ciò cui siamo circondati, ci appartiene? Quanta intimità abbiamo coi nostri amici, coi nostri amori, coi figli, coi parenti, coi colleghi, con le abitudini, con noi stessi? Fino a che punto riusciamo a stare coi nostri impulsi, con le nostre paure, con le nostre fantasie, senza giudicarle, catalogarle, classificarle? Quanta libertà concediamo a ciò che siamo davvero?
E non sto facendo filosofia spicciola, o psicologismi da rivista; sto proprio riferendomi a situazioni concrete, reali. Sto pensando che se avessi un momento di sconforto, un dolore passeggero, una felicità da poco e riuscissi ad autorizzarmi a raccontare, a comunicare, la mia vita sarebbe più libera, più leggera, più umana.
E invece ho accettato le sovrastrutture, le finzioni, le mascherate, i giochi di ruolo, e li ho trasformati, pian piano, convintamente, in realtà.
La maggior parte delle malattie scaturisce da cattive abitudini, da condizioni ambientali estreme, da compromessi emotivi non elaborati, dal sacrificio della propria verità in funzione di una sopravvivenza normata da regole demenziali e asfittiche.
Sono convinto che questo cambiamento porterebbe molti vantaggi in termini di qualità di vita, e sarebbe a costo zero. Col mio lavoro sono a contatto con un progetto di social housing: si tratta, per farla breve, di un condominio in cui abitano una dozzina di anziani, due famiglie, tre giovani ragazze. Lasciando da parte la questione burocratica, chi vi accede, sa di abitare in un posto in cui ognuno ha la sua casa, la sua libertà, ma che, in caso di bisogno, non ci si gira dall'altra parte, non si fa finta di niente, non si fischietta un motivetto mentre si allunga il passo per evitare la relazione. Non posso portare dati certi, ma a quanto mi consta, la sola prospettiva di disponibilità, rende quegli inquilini, persone che convivono civilmente all'interno di un sistema che si autotutela e comunica.
Concludo raccontando la ragione per cui sono qui.
Avevo conosciuto il collettivo dei ragazzi di Cà Tron quasi per caso. Con uguale casualità mi sono interessato a ciò che facevano, a come lo facevano e ho deciso di conseguenza di scegliere questo posto per presentare il mio ultimo libro. La questione che più mi è parsa interessante, è stata quella che riguarda l'apertura del palazzo, sede universitaria che si affaccia sul canal grande, alla cittadinanza, alle realtà associative, a chiunque voglia proporre cultura, qualunque significato si attribuisca a questo termine.
In modo diverso, ma con alcuni obiettivi simili, il progetto di Anna. Il festival dei matti, festival altro per eccellenza, per scelta, per sua intima natura, si prefigge come obiettivo quello di scendere dalle aule accademiche, dagli ambulatori specialistici, dalle stanze delle commissioni che decidono com'è un soggetto, senza che questo possa dire la sua, e far incontrare le persone per quello che sono, per le storie che hanno da raccontare, per le esperienze che hanno vissuto.
In questo senso, nel senso appunto del sapere che "si apre e si confronta" senza etichette e titoli, io vedo la similitudine.
Il sapere senza esperienza, e viceversa l'esperienza senza il sapere, rischiano di andare ciascuno per la propria strada senza incontrarsi mai, impedendo così l'incontro, lo scambio, la relazione, creando solitudine, isolamento senza possibilità di sfogo.
Concludo raccontando il contenuto di un racconto- anche se tecnicamente non lo è: più che un racconto, è un brano di un diario,in cui si parla di una persona, che da quando si è malata, ha riscoperto la propria interezza in termini di corpo-mente-anima-, che avrei dovuto leggere per l'occasione.
Ed è proprio il corpo, riscoperto grazie al paradosso per cui più si è malati, più ci si accorge di quanto sia prezioso, e al tempo stesso sottovalutato, stare bene.
Ed ora concludo e inizio la lettura, augurandovi un buon proseguimento di serata.
Grazie.
lunedì 22 ottobre 2012
Argentina, America Latina e invasività
Ieri ho incontrato una conoscente argentina che stava andando a Trieste per il festival del cinema latino americano. Abbiamo fatto un pezzo di treno insieme, parlando del più e del meno, e poi sempre più della situazione argentina, e di quella latino americana in generale.
Quando l'avevo conosciuta, anni fa, era appena arrivata dall'Argentina; era il periodo della grande crisi e delle rivolte sociali. La sua famiglia, di origine italiana, come si poteva evincere dal cognome, viveva nel benessere; lei stessa aveva un'attività che le consentiva una vita agiata, una bella casetta con piscina, ecc.
All'improvviso, tutto era cambiato. Col tracollo del 2001, tutta l'Argentina, paese che ha, o forse aveva, una grande considerazione di sé- tipo i francesi, tanto per capirsi-, si è trovato al collasso. Banche che non erogavano più denaro, l'economia, il commercio, e di conseguenza la vita sociale, da "normale", si è ritrovata come in un incubo, allo sfacelo.
Di conseguenza, la gente ha iniziato a modificare il proprio modo di vivere: ha sopportato la frustrazione della precarietà, l'abisso della povertà, e poi ha iniziato a scoppiare, passando rapidamente dalla protesta alla delinquenza, dovuta alla sopravvivenza.
In quel periodo succedeva di frequente il fenomeno del micro-sequestro: si rapiva un famigliare e si esigeva il riscatto; il tutto si risolveva in modo molto sbrigativo. Da lì, l'incubo della protezione, della paura, delle guardie private, allarmi, armi da fuoco, ecc.
Lei non ha retto e se ne è venuta in Italia, sua terra di origine.
In treno parlavamo di come era adesso, della differenza tra come si vive qui, e come là. Le dicevo che avevo visto, con emozione e commozione, un video sul "sistema Abreu"- una sorta di recupero della marginalità giovanile, attraverso progetti di insegnamento della musica-, e che il documentario iniziava con il numero di omicidi di Caracas: 5000 ogni anno - forse perfino aumentati in questi ultimi anni-. Da qui è partita tutta una disquisizione sul modo di vivere, giungendo al concetto chiave che Europa e America Latina, coi dovuti distinguo, le ovvietà, sono due mondi totalmente diversi.
L'alto tasso di omicidi delle grandi città sudamericane, ha a che fare con un problema che si potrebbe sintetizzare con " la guerra tra poveri": lei sintetizza così il destino di persone destinate comunque a morire in fretta, con un'esistenza consumata sin dalla fanciullezza, vissuta in quartieri inimmaginabili per noi.
Le raccontavo che, comunque sia, mi sarebbe piaciuto molto visitare quei paesi. Leggendo i grandi scrittori- in particolare, opinione personale, Bolano-, si ha come l'impressione che la distanza tra vita interiore ed esteriore sia meno distante; che la possibilità di morire forse più facilmente, ma con la consapevolezza di aver comunque vissuto, là ci sia ancora.
A proposito di questo, del sentimento dell'amicizia, ma anche della sensazione di far parte di una comunità di persone che condivide, che si relaziona, che soffre e gioisce senza aver paura di perdere per questo l'intimità o la privacy o chissà che. Che qui l'abbiamo ormai smarrito, dimenticato, sepolto da un'infinità di piccoli egoismi, di timori, di nevrosi.
Lei ne parlava più che come una mutilazione, un piccolo lutto, come un piccolo prezzo da pagare; compensato forse dalla tranquillità di vivere in una città come Venezia.
Chissà che rapporto avrà con la nostalgia, mi chiedevo scendendo dal treno e lasciandola al suo simbolico rientro in patria a Trieste, dove avrebbe incontrato altri suoi compatrioti latinoamericani, e avrebbe passato giorni e notti con loro a discutere, chiacchierare, ricordare, parlare del passato, sapendo che, almeno questo, qui si ha più probabilità di immaginare concretamente il futuro.
Ma naturalmente non gliel'ho chiesto, da bravo europeo, per timore di essere invasivo.
lunedì 15 ottobre 2012
Il tema della biennale di architettura quest'anno è " common groud": si può tradurre come "terreno comune-punto d'incontro".
Questa è la mia prima biennale architettura, e anche con la guida; le molte altre volte in cui ero andato, ero andato da solo, o con amici, e senza nozioni di causa, come uno che esplora un territorio sconosciuto, fidandosi del proprio istinto. Mi era stato detto che, pur essendo a digiuno di architettura, visitare la mostra sarebbe risultato meno ostico di quanto non sia quella d'arte: confesso che sono d'accordo, che questa affermazione mi convince, pur tenendomi uno spazio di riserve piccolo piccolo, in cui posso sempre contraddirmi, e dire che non sono d'accordo col mio essere d'accordo.
Il punto è che si può teorizzare qualsiasi cosa, si può sostenere qualunque ragionamento, produrvi qualcosa di materiale, spiegarlo, girarci intorno, approfondire; il punto è che si può dire una cosa, poi dire il suo contrario e dare ragione ad entrambe, purché siano dette, scritte, spiegate bene. Questa mostra ospita architetti che non la pensano allo stesso modo, eppure risultano convincenti, bravi, affascinanti.
Non so se si tratti di pluralità, di democrazia, di differenti livelli di sapere, fatto sta che io concordo con quasi tutte le teorie; fatto sta che mentre prendevo appunti, pensavo alla vicinanza tra letteratura e architettura, e mi chiedevo quali di queste sia più idonea, e quale più efficace, a spiegare l'esistente.
Ma procedo scrivendo gli appunti.
S'inizia con un bel progetto in cui si confrontano diverse esigenze: quelle del veneziano cittadino e quelle del turista tipo. Si parla di mappe mentali, di percorsi di cittadino che evita la folla, e perciò il turismo di massa, e lo si propone al turista. Prendendo 20000000 di turisti, dividendoli per 365, viene una cifra vicina a 75000. Se questi seguissero i tragitti segreti dei veneziani, ci sarebbero più turisti che abitanti, in quei percorsi. I veneziani, così, farebbero i percorsi turistici?
Altro padiglione: costruire in continuità con la storia. Quindi, tradizione, mi dico. Poi ripenso alle nostre città, anzi, a tutte le città, e mi dico che la teoria e la pratica sono, per quanto riguarda la gestione della cosa pubblica, in guerra da secoli.
Altro teorico che non va tanto d'accordo con il precedente: mischiare il moderno con l'esistente; poi duplice valenza interno-esterno; poi chi pensa che sia un diritto, e forse un dovere, copiare quel che già c'è e aggiungervi del proprio; poi chi sostiene che l'architettura può cambiare la storia, a patto che lo si faccia unendo gli sforzi; chi mette in evidenza la funzione spirituale dell'architettura; chi pensa alla dimensione interno-interiore-esterno ( corpo-mente-anima?); chi presta massima attenzione alla luminosità, al gioco di luci interno-esterno; chi dice che non è vero che sia lo sky-line delle città, ma la sua prospettiva e dimensione a partire dalla strada, da quel che vede l'uomo da questa visuale quotidiana, a fornire non tanto una descrizione, quanto una "scrittura" dei luoghi in cui viviamo; e poi l'architetta- in realtà si dovrebbe dire architetto: maschilisti!- che cerca di superare i limiti fisici della materia e della forma, creando strutture sinusoidali, strane, fantascientifiche( ricordo le molte letture riguardanti la meditazione e il concetto di "oltre"); e poi la prova concreta, materica, di una collaborazione transnazionale di diversi architetti che hanno costruito un archetipo di casa con materiali dell'India e Italia; e ancora il racconto del grattacielo a Caracas e dell'occupazione di questo da parte di poveri, la capacità di costruire una microsocietà altra al suo interno, rendendolo vivace e vivente( il pensiero ai fantasmi di Aira); e chi dice che l'architettura non è arte, ma la può contenere, costruendo musei, teatri, ecc.; e infine l'interazione tra architettura e natura.
Poi abbiamo bighellonato e visitato il bellissimo padiglione russo sulle città invisibili, l'americano coi micro progetti urbani spontanei, quello serbo, dove a rappresentare il common ground un tavolo bianco enorme a testimonianza della socializzazione atavica, israeliano, francese, ungherese, coreano.
Cosa mi rimane? Innanzitutto una stanchezza micidiale, quasi a sottolineare la fatica fisica e intellettiva che la biennale chiede come minimo, in quanto consapevole di trasmettere così tante suggestioni. Poi che, come in tutti gli ambiti, in special modo intellettuali, ma comunque genericamente umani, ci sono molte idee, teorie, spesso contraddittorie, e per fortuna.
E concludo con una battuta: l'unico common ground che ho personalmente riscontrato tra gli architetti, è quello di vestirsi tutti diversamente uguali.
sabato 29 settembre 2012
Equitalia, i giocatori, i politici e le donnine mezze nude
A equitalia arrivi con la pancia che ti fa un po' male ma non troppo. Sai che sta per succedere qualcosa alla tua vita, ma non sai fino a che punto penetrerà. Si fermerà in superficie, oltrepasserà la carne, affonderà nelle viscere fino a squarciare gli organi interni?
Non lo sai; quel che sai è che il denaro non ti importava fino a che riuscivi comunque a vivere, a cavartela, a farcela, a viaggiare un po', a comparti libri, qualche cd, pagarti mutuo e bollette, e che gli altri si fottano: il denaro ha un costo evidente: ti forte la vita, ti ruba la creatività, si trasforma in ossessione e, di questi tempi, in vergogna.
L'atrio è blu e bianco, tutto pulito, lucidato, asettico. Chissà se si sposa col sangue delle ferite inferte da questi sicari senza cattiveria. I posti degli impiegati: una scrivania, computer, sedia: postazione tipica, senza niente di particolare. È anche loro sono buoni, facce che sincere, da vicino di casa con cui scambiare due chiacchiere sulle partite, sul tempo che fa, sull'andamento scolastico dei figli.
A Madrid intanto la folla invade il centro: protesta contro il governo. Lo faceva con Zapatero, lo fa con Rajoi: non è più questione ideologica, ma di sopravvivenza. In Europa non ci si autodistrugge in modo eclatante e feroce: lo si fa un po' alla volta, erodendo le esistenze in modo sistematico, ma intimo, ben educato.
In Siria invece continua la mattanza plateale, coreografica, cosicché si possa costruire una ragion d'essere logica, ordinata, pertinente. Basterebbe convincere le due superpotenze che hanno interessi diretti a barattare l'intervento, magari concedendo qualche esilio dorato al dittatore che somiglia a Fazio, in cambio di. Non importa quanto costerà, quanti morti civili; è più importante il braccio di ferro istituzionale e imprenditoriale, la geopolitica, ecc.
In settimana poi si è parlato di regioni, di consiglieri infami che spenderebbero i soldi pubblici per bagordi privati. Molti si indignano, sputano odio; altri dicono di questo o di quello che sono brave persone, disponibili, che hanno trovato lavoro ai loro figli. È sottinteso che un potente sia un figlio di troia, secondo la logica che chi ha l'occasione, magna. Si sa, è così, è ineluttabile.
Poi tutti si dicono schifati della Minetti, che pare che per un compenso incredibile, mostra tutte e culo ad una sfilata di una marca di costumi da bagno.
Una che fa tivù e che guadagna più di cinquemila euro al giorno senza avere meriti particolari, e forse nemmeno nascosti, o reconditi, o inconsci, ha il cattivo gusto di indignarsi di qualcun'altra.
Poi penso ai giocatori che guadagnano milioni di euro ( un esempio a caso: Buffon. 6 milioni all'anno, che diviso 12 mesi fa 500 mila euro al mese, che diviso 30, fa 16666,6 euro al giorno), e mi dico che la morale è una questione di marketing, e che la sua potenza non è mai stata tanto debole come adesso.
Quando parli con gli impiegati di equitalia, che consultando il terminale formalizzano la tua futura schiavitù, con lunghi anni di debiti rateizzati, per debiti che non hai pagato perché non potevi farlo, in quanto non avevi i soldi, tutti questi pensieri si sommano, si solidificano, ti schiacciano il petto, e ti pare di non riuscire a respirare. Ma soprattutto, a mente calda, ti pare che se la vita aveva un sapore amarognolo-ma che con i sacrifici avrebbe un giorno assunto più dolcezza, quasi quasi, anche, con qualche punta di felicità, o magari anche solo piccole soddisfazioni-, ora sia diventata indigeribile, tossica.
Era da tanto che non provavi una sensazione fisica direttamente collegata a quella emotiva. Sentivi un gran caldo, hai iniziato a sudare, a sentire le gocce che cadevano dalla fronte, a immaginare il tuo futuro, e vedevi solo nero.
Sei uscito, hai camminato a piedi percorrendo mezza città a piedi: non sai quanti chilometri, ma tanti. Hai fatto delle telefonate, hai provato a sentirti normale, come al solito. Chiamavi chi ti doveva dei soldi, ma non rispondevano. Venivi chiamato ma rispondevi solo a numeri di famiglia, e poi neanche a quelli.
Sei arrivato in capannone. Il silenzio era devastante: ti lamentavi sempre del rumore, dicevi che saresti diventato sordo. Ma adesso, nessuna macchina in funzione, tutto fermo, immobile. Sei andato verso la zona attrezzi, tutta in ordine come al solito. Hai notato che c'era della polvere sul computer che verificava l'efficienza meccanica delle auto che venivano a fare la revisione. Non c'era mai stata polvere perché ogni sera, dopo l'uso, pulivi tutto. Ma ormai non ti serviva più; non la usavi da un mese, dopo il fermo amministrativo provvisorio.
Hai fatto le scale di ferro, raggiunto l'ufficio vuoto.
Hai aperto la cassaforte dietro al cartellone pubblicitario della Fiat, hai tirato fuori la pistola.
Hai aperto la bocca, chiuso gli occhi, pensato a Ronaldo, ai giocatori di golf, ai tuoi figli.
Hai premuto il grilletto.
giovedì 20 settembre 2012
Crisi immobiliare ed esistenziale
In questi giorni, a causa di un - speriamo- imminente ritorno a Mestre, ho girato parecchio in città. Da più di sei anni abito in provincia, e non ne posso più di fare il pendolare; non ne posso più nemmeno di abitare in un quartierino di una cittadina pulitina, perbenino, dove tutti hanno la macchinina bellina, i rapporti sono mutuati dall'apparenza; e soprattutto, dove tutto ciò, caricaturale fino al parossismo, è vissuto come normale, anzichenò. In sostanza, i rapporti sociali sono normati da una tacita leggerezza inventata.
Dopo sei anni, mi ritrovo a battere la città dal basso, con l'osservazione lenta e vorace di chi ha bisogno di capire cosa sia diventata, quali zone siano integre e quali degradate, cosa nascondano le case, i condomini: chi ci sia dietro le finestre, chi abita il cuore domestico e intimo di una città che non è più mia.
La crisi,- di cui bisognerebbe parlare a parte, con serietà, con dati statistici, penetrando i fenomeni per cercare di capire quanto hanno inciso nelle nostre esistenze ed abitudini consumistiche-, ha comunque modificato in modo netto il mercato immobiliare, con effetti visibili sui rapporti sociali.
La sensazione da osservatore, certo non da immobiliarista, è quella di trovarsi dinnanzi a un brusco e tardivo risveglio, come se la bolla speculativa che ci ha afflitti e condizionati, scoppiando, ci abbia resi incapaci di reagire emotivamente, come colpendo a tradimento. Piccoli lutti, micro traumi, sbigottimento, segnano umori e pensieri.
Il bene rifugio per eccellenza, in Italia, è diventato insicuro, incerto.
Io stesso, e anzi, forse la pretesa di essere osservatore nasconde in fondo il ruolo di vittima, che detesto, ma che in questo caso incarno, pur non sapendo fino a che punto, sono spiazzato, sgomento, incredulo.
Sei anni fa ho comprato casa, nuova e bella con vetro camera e cappotto esterno e travi a vista e doppi servizi e comodo garage indebitandomi con le merda-banche con un mutuo accidenti a me, e ora per rivendere ci devo rimettere, porca!
Ma non solo la crisi: si tratta di qualcosa di più profondo, di vitale, di sociale. Mi pare di cogliere sempre più la fatica, il bisogno di rifugiarsi dalla vita, dai rapporti, dalle dinamiche relazionali che , invece di risorsa, sono diventate un peso, un dramma emotivo.
Mestre, città di provincia, periferia di Venezia che scintilla di giorno e muore di notte, spalla un pò borghese della proletaria marghera, da città vivace, pare trasformata in purgatorio, in duplice guardiana, o forse portinaia: da una parte Venezia, dall'altra il nord est.
Chissà se la crisi, con le ferite aperte che lascerà, ci farà tornare ad essere umani, sociali, vivi, con meno paura, perché avremo tutti un po' meno da perdere, e tutto da ricostruire.
mercoledì 12 settembre 2012
Una fiammella galleggiante che va incontro alla sera
L'altra sera, come spesso mi accade d'estate- e come da qualche anno, in queste interminabili estati tropicali, anche a settembre-, sono andato in spiaggia. Dico sera, ma in realtà si tratta di tardo pomeriggio: il mio orario preferito: 17-17.30/19.30-20.
Amo queste ore per diverse ragioni, non ultima che la gente un po' alla volta se ne va, e io rimango, assieme a pochi altri, a godere il tramonto, la quiete, quel senso di intimità, che a volte si percepisce a contatto con gli elementi basici- la natura, l'ambiente?-.
La lettura di un libro- iniziato "l'amante di Lady Chatterley"-, una bottiglietta d'acqua, l'attesa che il costume s'asciughi dopo il bagno, l'osservazione distratta della gente, qualche pensiero, il riposo. Di solito ci vado da solo, mai che senta la solitudine: il senso di intimità di cui dicevo, lo si può vivere- questo, perlomeno, vale per me- solo nell'incontro tra silenzi; in un territorio non verbale, dove il mescolarsi degli elementi non ha scopo, fine, interesse.
Erano ormai le 19, il sole calava piano dietro la pineta, il mare iniziava ad assumere un colore argenteo, l'orizzonte si evidenziava con una linea retta, netta.
Accanto a me passavano una ragazza tedesca claudicante, espressione che rivela un deficit, cosce grosse, gambe rigide, costume intero blu, e una signora che, immagino, fosse la madre.
Si avvicinano alla diga circondata da scogli,; la signora si toglie la lunga maglia di cotone appoggiandola ordinatamente su un grosso masso, rimanendo in costume due pezzi. La figlia l'aspetta con la sua postura incerta, pochi passi dietro. Al collo la signora ha una borsetta, o forse un marsupio di colore nero. Si volta, raggiunge la figlia, la tiene per mano e insieme entrano in acqua fino a raggiungere l'altezza sopra il ginocchio.
La madre apre la borsetta, estrae un oggetto nero e un accendino; li passa alla figlia, la quale a fatica tenta di accendere la fiamma dell'accendino, e una volta riuscita, prova ad avvicinare la fiamma all'oggetto. Nel farlo si scompone, mettendo in forse il suo equilibrio posturale, come se, ad ogni mossa, corrispondesse un sussulto. La madre nel frattempo le si è spostata dietro, sorreggendola ai fianchi. La ragazza riesce nell'intento, s'abbassa legnosa fino a pelo d'acqua e appoggia quello che la mia scarsa vista da lontano, riconosce come una sorta di lumino galleggiante.
Vedendole, s'intuisce una metodicità, un'abitudine consolidata nel ripetere quei gesti.
La fiammella galleggia, s'allontana da loro. La madre e la figlia guardano il lento movimento di quella fiamma ed entrambe hanno assunto un'espressione estatica e triste insieme. La madre le parla piano, le indica l'orizzonte, ora più evidente, vista l'ora; oppure la sagoma di una barca a vela lontana, o il cielo che sta per colorarsi di rosso e di scuro.
Stanno lì dieci minuti.
Poi tornano verso gli scogli, la madre indossa la maglia, e se ne vanno.
Nel frattempo mi ero fermato ad osservarle, incantato, emozionato, fantasticando ragioni, attribuendo omaggi e ricordi a persone scomparse, salutate da una fiammella in mare.
Me ne vado anch'io, incontro alla sera.
Amo queste ore per diverse ragioni, non ultima che la gente un po' alla volta se ne va, e io rimango, assieme a pochi altri, a godere il tramonto, la quiete, quel senso di intimità, che a volte si percepisce a contatto con gli elementi basici- la natura, l'ambiente?-.
La lettura di un libro- iniziato "l'amante di Lady Chatterley"-, una bottiglietta d'acqua, l'attesa che il costume s'asciughi dopo il bagno, l'osservazione distratta della gente, qualche pensiero, il riposo. Di solito ci vado da solo, mai che senta la solitudine: il senso di intimità di cui dicevo, lo si può vivere- questo, perlomeno, vale per me- solo nell'incontro tra silenzi; in un territorio non verbale, dove il mescolarsi degli elementi non ha scopo, fine, interesse.
Erano ormai le 19, il sole calava piano dietro la pineta, il mare iniziava ad assumere un colore argenteo, l'orizzonte si evidenziava con una linea retta, netta.
Accanto a me passavano una ragazza tedesca claudicante, espressione che rivela un deficit, cosce grosse, gambe rigide, costume intero blu, e una signora che, immagino, fosse la madre.
Si avvicinano alla diga circondata da scogli,; la signora si toglie la lunga maglia di cotone appoggiandola ordinatamente su un grosso masso, rimanendo in costume due pezzi. La figlia l'aspetta con la sua postura incerta, pochi passi dietro. Al collo la signora ha una borsetta, o forse un marsupio di colore nero. Si volta, raggiunge la figlia, la tiene per mano e insieme entrano in acqua fino a raggiungere l'altezza sopra il ginocchio.
La madre apre la borsetta, estrae un oggetto nero e un accendino; li passa alla figlia, la quale a fatica tenta di accendere la fiamma dell'accendino, e una volta riuscita, prova ad avvicinare la fiamma all'oggetto. Nel farlo si scompone, mettendo in forse il suo equilibrio posturale, come se, ad ogni mossa, corrispondesse un sussulto. La madre nel frattempo le si è spostata dietro, sorreggendola ai fianchi. La ragazza riesce nell'intento, s'abbassa legnosa fino a pelo d'acqua e appoggia quello che la mia scarsa vista da lontano, riconosce come una sorta di lumino galleggiante.
Vedendole, s'intuisce una metodicità, un'abitudine consolidata nel ripetere quei gesti.
La fiammella galleggia, s'allontana da loro. La madre e la figlia guardano il lento movimento di quella fiamma ed entrambe hanno assunto un'espressione estatica e triste insieme. La madre le parla piano, le indica l'orizzonte, ora più evidente, vista l'ora; oppure la sagoma di una barca a vela lontana, o il cielo che sta per colorarsi di rosso e di scuro.
Stanno lì dieci minuti.
Poi tornano verso gli scogli, la madre indossa la maglia, e se ne vanno.
Nel frattempo mi ero fermato ad osservarle, incantato, emozionato, fantasticando ragioni, attribuendo omaggi e ricordi a persone scomparse, salutate da una fiammella in mare.
Me ne vado anch'io, incontro alla sera.
martedì 11 settembre 2012
Home Treviso, teatro degli orrori, afterhours
Sabato sera al festival "home" di Treviso.
Ho visto tre concerti, e mentre arrivavo a piedi dal parcheggio, distante un paio di chilometri dal posto, ho sentito il finale di Eva - ex Prozac+-. I tre concerti: teatro degli orrori, the bastard sons of Dioniso, afterhours.
Un elemento che mi pare significativo, anche rispetto a quello che scriverò dopo, è che Manuel e Pierpaolo hanno superato i quaranta - siamo più o meno coetanei -; sono entrambi artisti dall'alto tasso di energia spesa ad ogni esibizione, come se l'età e la possibilità di produrre potenza, fossero elementi a sé stanti.
Il teatro degli orrori è un gruppo che non seguo. È uscito troppo tardi rispetto alla mia capacità di essere elastico e capace di assorbire le novità musicali. Sono aggrappato alle mie certezze, disponibile ad aprire porte e finestre, e far accomodare gli sconosciuti, abbastanza limitata. Non leggo riviste, come facevo un tempo; non sono più ricettivo, come un tempo; ci vuole un bel po' prima di lasciarmi a bocca aperta dallo stupore.
L'ultimo a riuscire nell'impresa, qualche anno fa, è stato Antony: dopo di lui, ma anche prima, solo conferme, o al massimo qualche smorfia passeggera.
Per molti anni la musica, in particolare rock, è stata la mia grande bruciante passione.
Da molti a questa parte, la musica accompagna la lettura e la scrittura, che l'hanno definitivamente rimpiazzata in termini di attenzione e interesse.
Va da sé che il mio intento di unirle attraverso i reading, non sono altro che un'operazione aritmetica; per la precisione, un'addizione.
Insomma, Capovilla è senz'altro un uomo da palcoscenico. Senza dubbio ha il gusto della mescolanza di generi, e i suoi concerti sono molto teatrali. La sua proposta è pesante, difficile, ambiziosa: gli interessa il contenuto, e vedere migliaia di ragazzi che lo ascoltano, lo ballano, lo cantano, è sorprendente.
Eppure non mi convince appieno: non riesco a sintonizzarmi pienamente in alcun ambito. Non totalmente nel fottutissimo rock'n'roll, non sul piano dei contenuti. Ma capisco che dipende da me, non certo da loro.
Ed eccoci al punto, alla ragione per cui sono andato a Treviso: gli afterhours.
In borsa ho una copia del libro: mi sono fatto l'idea che "padania" e " homo sapiens nord est" siano una sorta di segno del destino. Missione: consegna del libro a Manuel Agnelli.
Nel frattempo, mi godo il concerto.
È un concerto durissimo, tirato; un brano dietro l'altro, un delirio di suoni e di urla. La cosa che mi passa per la testa, è: ma che diavolo vuol dire Agnelli?
Alterna pezzi e nuovi e vecchi - questi in versione "hard core"-. Il pubblico è spiazzato, e canta soprattutto i vecchi brani.
Dove vuole infilarsi? Nel cuore, nella carne, nell'inconscio? Cosa ci sta dicendo? Che siamo tutti disperati, che dobbiamo liberarci del peso delle nostre esistenze, urlandole fuori? Perché rifiuta scientemente ogni possibilità estetica?
Penso che una simile esibizione andrebbe bene in un club, con un pubblico ridotto, consapevole; che se vuole proporre arte moderna in forma di canzone, farlo all'aperto, con migliaia di persone abituate a cantare il vecchio repertorio, non è il migliore dei modi.
Ma questo è quello che penso io, che non sono abituato a pensare lo show in forma di business.
A fine concerto mi sono avvicinato al ragazzo del mixer e gli ho dato il libro.
Ci ho scritto dentro " mi pare ci siano analogie", e ho aggiunto la mail.
Chissà se gli verrà dato, chissà se lo leggerà, chissà se gli piacerà.
Chissà se riscontrerà le analogie di cui sopra.
Ho visto tre concerti, e mentre arrivavo a piedi dal parcheggio, distante un paio di chilometri dal posto, ho sentito il finale di Eva - ex Prozac+-. I tre concerti: teatro degli orrori, the bastard sons of Dioniso, afterhours.
Un elemento che mi pare significativo, anche rispetto a quello che scriverò dopo, è che Manuel e Pierpaolo hanno superato i quaranta - siamo più o meno coetanei -; sono entrambi artisti dall'alto tasso di energia spesa ad ogni esibizione, come se l'età e la possibilità di produrre potenza, fossero elementi a sé stanti.
Il teatro degli orrori è un gruppo che non seguo. È uscito troppo tardi rispetto alla mia capacità di essere elastico e capace di assorbire le novità musicali. Sono aggrappato alle mie certezze, disponibile ad aprire porte e finestre, e far accomodare gli sconosciuti, abbastanza limitata. Non leggo riviste, come facevo un tempo; non sono più ricettivo, come un tempo; ci vuole un bel po' prima di lasciarmi a bocca aperta dallo stupore.
L'ultimo a riuscire nell'impresa, qualche anno fa, è stato Antony: dopo di lui, ma anche prima, solo conferme, o al massimo qualche smorfia passeggera.
Per molti anni la musica, in particolare rock, è stata la mia grande bruciante passione.
Da molti a questa parte, la musica accompagna la lettura e la scrittura, che l'hanno definitivamente rimpiazzata in termini di attenzione e interesse.
Va da sé che il mio intento di unirle attraverso i reading, non sono altro che un'operazione aritmetica; per la precisione, un'addizione.
Insomma, Capovilla è senz'altro un uomo da palcoscenico. Senza dubbio ha il gusto della mescolanza di generi, e i suoi concerti sono molto teatrali. La sua proposta è pesante, difficile, ambiziosa: gli interessa il contenuto, e vedere migliaia di ragazzi che lo ascoltano, lo ballano, lo cantano, è sorprendente.
Eppure non mi convince appieno: non riesco a sintonizzarmi pienamente in alcun ambito. Non totalmente nel fottutissimo rock'n'roll, non sul piano dei contenuti. Ma capisco che dipende da me, non certo da loro.
Ed eccoci al punto, alla ragione per cui sono andato a Treviso: gli afterhours.
In borsa ho una copia del libro: mi sono fatto l'idea che "padania" e " homo sapiens nord est" siano una sorta di segno del destino. Missione: consegna del libro a Manuel Agnelli.
Nel frattempo, mi godo il concerto.
È un concerto durissimo, tirato; un brano dietro l'altro, un delirio di suoni e di urla. La cosa che mi passa per la testa, è: ma che diavolo vuol dire Agnelli?
Alterna pezzi e nuovi e vecchi - questi in versione "hard core"-. Il pubblico è spiazzato, e canta soprattutto i vecchi brani.
Dove vuole infilarsi? Nel cuore, nella carne, nell'inconscio? Cosa ci sta dicendo? Che siamo tutti disperati, che dobbiamo liberarci del peso delle nostre esistenze, urlandole fuori? Perché rifiuta scientemente ogni possibilità estetica?
Penso che una simile esibizione andrebbe bene in un club, con un pubblico ridotto, consapevole; che se vuole proporre arte moderna in forma di canzone, farlo all'aperto, con migliaia di persone abituate a cantare il vecchio repertorio, non è il migliore dei modi.
Ma questo è quello che penso io, che non sono abituato a pensare lo show in forma di business.
A fine concerto mi sono avvicinato al ragazzo del mixer e gli ho dato il libro.
Ci ho scritto dentro " mi pare ci siano analogie", e ho aggiunto la mail.
Chissà se gli verrà dato, chissà se lo leggerà, chissà se gli piacerà.
Chissà se riscontrerà le analogie di cui sopra.
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