La
fame incombe, lavora di brutto, borbottii, salivazione: la fila è la conferma
della teoria di Pavlov. L'attenzione morbosa con cui ciascuno diventa
sentinella del proprio posto in coda, rivela l'istinto di sopravvivenza in
tutta la sua aggressività. Siamo passati, in un salto quantico, dalla dolcezza
caramellosa del reparto bebè, alla pugnace conservazione della specie, in meno
di venti metri lineari.
La
fila indiana, che solo i bambini hanno il coraggio di sparigliare, segue
lentamente il suo decorso, aumentando proporzionalmente col passare del tempo,
fame e istinto animalesco. Nel frattempo, con una tecnica meditativa, osservo il
menù, giustappunto al fine di rendere l'attesa, una sorta di preliminari
amorosi, che culmineranno con l'orgasmo della masticazione e della
deglutizione. Questo prevede anche una parte dedicata ai vegetariani. (E qui
dovrei uscire dal tono supponente e aprire una parentesi seria. Mi chiedo se
avere una porzione di menù dedicata ai vegetariani sia sintomo di civiltà, di
modernità, di opportunismo commerciale. Mi rispondo che è tutto questo insieme,
che da vent'anni a questa parte, da quando cioè non mangio carne e pesce, il
livello di offerta si è decisamente alzato, e fare questa scelta, che sarebbe
seria e che meriterebbe un post a sé, non è più un'impresa pionieristica, ma,
appunto, una semplice scelta. Concludo che non ho risposte precise, ma che mi
fa piacere ci sia questa opportunità: sì, il piacere non è escluso dalle scelte
alimentari).
Alla
fine decido che, porco corpo!, oggi è la giornata che mi vaffanculo da me:
porcherie insane, in mente insana! Patatine fritte e arancino di riso, acqua,
macedonia.
Pago,
mi avvio verso un tavolo libero alla periferia estrema. Dopo un pò si siede
accanto a me una coppia omosex molto raffinata, che mangia lentamente e in
silenzio il suo pasto decisamente più urbano del mio, lanciandomi talvolta
occhiate condiscendenti.
Mangio
per la fame, ma ammettendo a me stesso che il pasto è orripilante, e che
soprattutto le patatine fritte con olio svedese, sono fredde e frigidine,
contrariamente alle mie aspettative voluttuose. Consumata la misera libagione,
confermata nella sua sostanza miserabile da una macedonia post-industriale,
dopo essermi dovuto genuflettere per depositare il vassoio sopra cui avrei
volentieri sputato se avessi sciolto il ridanciano coatto che mi abita, ma di
cui mi vergogno, almeno in pubblico, sono stato ripagato da una visione
celeste: la gabbia trasparente per i fumatori. Situata tra il reparto, le
toilettes e il self service, c'è la vetrinetta del peccato, all'interno della
quale un paio di padri di famiglia abbastanza giovani consumano il loro vizio,
essendo guardati da tutti, e guardando a loro volta la massa di consumatori
alternativi. Dei due, uno fumava nervosamente, consumando la cicca in poche
tirate, formando una brace ardente lunga quanto la lunghezza della sigaretta,
mentre l'altro, sciarpetta, occhiali da sole, si faceva su una sigaretta
lentamente, leccando la cartina come fosse lo spot di un profumo in cui si
allude a una sensualità potenziale, un pò esibita, ma al tempo stesso
misteriosa.
La
gabbia sembra una perversione concettualizzata, una ostentazione pornografica
del dualismo bene-male. Mentre ci passavo vicino, ho sentito un dialogo tra un
padre già nonno, e sua figlia incinta: "sento nettamente il desiderio di
entrarvi, fare su una canna, fumarla, vedere se qualcuno se ne accorgerebbe, e
cosa farebbe: insomma, vere
l'effetto che fa. Ma ci vuole un'età, una voglia di provocare, la materia
prima, che proprio non possiedo; e tu non mi perdoneresti mai, vero?". La
figlia-mamma guarda il padre-nonno con severità, e tace.
Nei
bagni, coda. La signora delle pulizie sta passando lo straccio sul pavimento già
lindo. Una volta entrato nei cinque metri quadri pulitissimi e profumati di
detergente alla spuma di mare del nord, sulla destra, il seggiolino dotato di
cinture di sicurezza ove appoggiare il bimbo, qualora il moderno padre del nord
(est) portasse con sé il suo pargolo, mentre si libera di incombenze
biologiche. Sensazione estatica all'interno di un cesso: sentirsi liberi dalla
psicosi da pedofilo che pregiudica la naturalezza del gesto affettivo. Esco, mi
lavo le mani, accanto a me un padre italiano consiglia al figlio di colore di
essere sempre se stesso.
Ora
tocca al piano terra.
Casalinghi, tendaggi, tappeti, quadri, candele,
mobili da bagno.
E poi il magazzino dei mobili smontati: infinite
scaffalature, alte almeno due piani, ordinate secondo codici e nomi con accenti
circonflessi dai tratti prosodici, dalla lunghezza lungimirante.
Pago la mercanzia con carta di credito, consapevole
della crescita futuribile del mio debito, ma sto al gioco moderno con
equilibrio da artista fallito.
Ultima tappa, lo shop delle delizie svedesi. Mentre
mi aggiro tra versioni psichedeliche di colesterolo in bella confezione,
scoppia una lite.
Una signora con bimbo e marito, litiga furiosamente
con un marito con figlio e moglie, in quanto quest'ultimo avrebbe pensato a
voce alta parole volgari, che la signora ha creduto le fossero rivolte contro.
Sguardi tesi, volti arrossati, imbarazzo generale, occhiate giudicanti.
La natura compressa all'interno di uno spazio chiuso,
fuoriesce come schiuma dalle bocche, dalle orecchie, dalle narici, da ogni
orifizio: il corpo si esprime così, per tumulto, se lo si ignora.
In parcheggio pare di riconquistare la libertà di
salire in auto e infilarsi nel traffico del centro commerciale.
La musica di Antony s'infila nelle pieghe più
recondite con delicatezza, accogliendo, finalmente, la sera.
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